di Valeria Alfieri – phd Università Sorbona, Parigi
Tutti coloro che studiano le dinamiche socio-politiche dei Grandi Laghi conoscono o dovrebbero conoscere bene il ruolo malsano che i media locali ed internazionali hanno avuto sulla crisi burundese e ruandese negli anni ’90. “Les medias de la haine” – i media dell’odio – questa l’etichetta affibbiata ai mezzi d’informazione che, in contesti di crisi e conflitto, manipolati da gruppi legati al potere, hanno contribuito ad incrementare violenza, intolleranza, instabilità, al servizio di interessi particolari, di obiettivi politici, siano essi filo governativi o filo-opposizione, contribuendo a far precipitare paesi come il Ruanda, il Burundi, la ex-Jugoslavia, ecc. in baratri inumani inenarrabili.
«D’une façon générale, on constate aujourd’hui que l’issue des guerres et des conflits dépend plus que jamais de la maîtrise de l’information et de la communication» 1 (per tutte le traduzioni guardare le note corrispondenti) – scrive Renaud de la Brosse.
I media sono degli strumenti potentissimi che possono essere creati, utilizzati e manipolati per influenzare l’opinione pubblica nella sua percezione di una crisi o di un conflitto. Le radio, in particolare, in paesi in cui la stampa scritta non è ancora ampiamente diffusa, svolgono un ruolo primario nell’informazione e, di conseguenza, nella manipolazione e disinformazione.
« En faisant appel aux “bons vieux procédés” – notamment en réveillant les instincts les plus primaires et en véhiculant des archétypes culturels ou “clichés” – des médias préparent et contribuent parfois au déclenchement de guerres sanglantes : les récents exemples de l’ex-Yougoslavie et du Rwanda, pour ne prendre que les cas les plus extrêmes, sont là pour nous rappeler que les médias peuvent être des vecteurs de guerre et que, bien souvent, la guerre médiatique précède la “vraie guerre” » 2 – aggiunge de la Brosse.
Il caso del Burundi
Anche in Burundi, prima e durante il conflitto del 1993, i media sono stati al centro della crisi. Creati e manipolati da uomini politici e gruppi legati al potere hanno contribuito all’istigazione dell’odio, incrementando la paura dell’altro e incitando alla violenza.
La diffusione di “premonizioni”, di allerte, di minacce e messe in guarda, indirizzate alla popolazione ed utilizzate a fini politici, o al servizio di logiche opportuniste volte al recupero di visibilità mediatica, ha delle conseguenze molto più grandi di quanto possiamo immaginare, e la “piuma” di un giornalista può facilmente macchiarsi di sangue. Tali considerazioni non riguardano solo i media locali, ma anche quelli internazionali, che spesso, soprattutto quando tratta di argomenti considerati “esotici”, risente dell’influenza culturale di pregiudizi e luoghi comuni, o delle ideologie proiettate da gruppi di pressione internazionali, nonché da spiccate simpatie o antipatie per le parti antagoniste. Ed ecco che un reportage si trasforma nel tentativo di rendere credibile la tesi degli uni o degli altri, con un’evidente manipolazione dell’informazione.
Lo storico ed esperto del Burundi Jean-Pierre Chretien riporta a tal proposito un esempio eloquente e ricorrente 3 : nel periodo marzo-aprile 1995 dei giornalisti internazionali arrivarono in Burundi in occasione del primo anniversario del genocidio ruandese convinti che di lì a poco avrebbero filmato in diretta ciò che pensavano sarebbe accaduto in Burundi: un “secondo genocidio”, dopo quello ruandese. Rimasero naturalmente delusi, perché il Burundi non è mai stato e non è il Ruanda. E la guerra del 1993 è stata una guerra civile, non un genocidio, come in Ruanda. Tuttavia, tale attitudine è stata enormemente deleteria per la società burundese, come testimonia l’ambasciatore e mediatore dell’Onu A. Ould Abdallah 4 :
« En disant et en répétant sur toutes les antennes du monde que le Burundi allait “exploser”, qu’il fallait “faire quelque chose”, que le “compte à rebours” avait commencé, que le pays était au “bord du gouffre”, qu’on s’apprêtait à y commettre un “second génocide”, qu’un génocide au “compte-gouttes” était déjà en cours. Toutes ces prises de parole, irresponsables ma crédibilisé par le génocide de 1994 au Rwanda, et surtout par la légitimité du bon humanitaire à laquelle les medias succombent si facilement, ont énormément nui au Burundi en le déstabilisant chaque jour en peu plus (…). En jouant les Cassandres, alors qu’une blouse blanche ne faisait d’eux ni des prophètes ni des analystes politiques avisés, ils ont accrédité l’idée que le pire était certain. Le monde extérieur a renvoyé au Burundi une image haineuse d’eux-mêmes, au risque qu’ils d’y conforment ».
Da questo estratto possiamo trarre diversi spunti di riflessioni che, come vedremo, si applicano ancora oggi all’attualità burundese. Anzitutto la tendenza ad accomunare il Burundi ed il Ruanda, due paesi considerati a torto come gemelli ma, in realtà, molto diversi nelle loro strutture sociali e politiche nonché nella loro evoluzione storica. In secondo luogo la pretesa di giornalisti, bloggers e narratori vari di porsi come “profeti” o “analisti politici” di paesi di cui ci si interessa solo quando c’è una crisi da raccontare, un esotico massacro etnico in vista, ed in cui magari non si è mai messo piede prima di allora. Ed infine, ma più importante di tutto, taluni giornalisti, accreditando la tesi che un genocidio o un massacro etnico è certo ed imminente, riflettono ed inviano ai diretti interessati un’immagine nefasta di loro stessi. In un contesto già instabile, delicato, oggetto di paure, ansie, fobie e frustrazioni tali richiami continui ad eventuali genocidi e massacri inter-etnici finiscono col creare un nemico menzognero, un capro espiatorio, incrementano la diffidenza e il sospetto verso l’altro, e risuonano come un richiamo a difendersi dal proprio vicino di casa. In un contesto già avvelenato, la manipolazione della realtà da parte dei media internazionali e la previsione quasi concorde dello stesso scenario finisce cosi per crearlo, e le popolazioni interessate finiscono con l’immedesimarvisi e conformarvisi. I politici creano prototipi per restare al potere, e quando hanno il controllo dei mezzi d’informazioni questi divengono strumenti di violenza. A ciò si aggiunge il fatto che i media internazionali, molto spesso, finiscono inconsapevolmente nel fare il gioco dei protagonisti e propagandisti del conflitto, incrementando le strumentalizzazioni politiche e vietandosi in tal modo un’analisi lucida ed obbiettiva.
Tutti coloro che scrivono in contesti delicati e precari portano il peso di una enorme responsabilità, con cui devono fare i conti. Occorre dunque dare il giusto nome alle cose, pesare, valutare consapevolmente ogni parola, con una pazienza ed uno scrupolo certosini.
I media burundesi
Se nel 1993, i media burundesi erano fortemente politicizzati e sono effettivamente “entrati in guerra prima ancora che questa scoppiasse” partecipando cosi da protagonisti al conflitto ed acuendone la gravità, la scenario mediatico attuale è invece completamente diverso. Nel Burundi “post-conflitto” sono nate nuove radio e giornali che hanno abbracciato una politica di rispetto del pluralismo, di propagazione di ideali pacifisti, di messaggi di riconciliazione, e di valori democratici. Essi sono diventati, anche in questi tempi di crisi, l’emblema del Burundi libero e liberato, baluardo della parola pubblica, del diritto di critica, del diritto alla denuncia ed all’informazione. Il lavoro dei giornalisti burundesi, hutu e tutsi, ha favorito la riconciliazione inter-etnica, e i media si sono eretti a difesa della Cittadinanza contro l’etnismo, dell’unitarietà del popolo burundese contro i tentativi di divisione e le manipolazioni 5 .
« Les radios ont donc œuvré à développer l’esprit critique et les réflexes citoyens en confrontant la population à des positions diversifiées et parfois contradictoires sur les ondes. Dénonçant les abus, posant des questions audacieuses aux responsables politiques, rompant le silence autour de certains sujets tabous, elles ont remporté la confiance des auditeurs et changé la face de ce pays en renforçant le processus démocratique » – scrive Eva Palmas 6 .
I media internazionali e italiani
Lo stesso non può ancora dirsi, invece, dei media internazionali che restano imbevuti di vecchi cliché e pericolosi pregiudizi esotici e tendono ancora troppo spesso ad accomunare le realtà burundesi e ruandesi. La maggior parte dei media internazionali di rilievo, come Jeunes Afrique, RFI, Voa restano prudenti circa l’utilizzo di titoli e la propagazione di messaggi allarmisti su un’imminente genocidio etnico (sfogliano i titoli e gli articoli linkati nelle note qua sotto appare chiaro come nessuno di essi si lasci tentare da una lettura etnicista dell’attuale crisi burundese). Altri come Le Monde e Libération si sono lasciati andare talvolta a dei richiami etnici usando dei sottotitoli che fanno esplicito riferimento alla paura di “violenze etniche su grande scala”, o riprendono le dichiarazioni eccessivamente allarmiste di qualche burundese della diaspora che si è fatto conoscere dai media proprio durante la recente crisi, come David Gakunzi, ma fortunatamente questo tipo di analisi restano rare. Le esperienze pregresse degli anni 1990 hanno probabilmente fatto capire la necessità per i media internazionali di andare oltre la chiave di lettura etnica, e l’impellenza di mantenere una certa prudenza sull’utilizzo di un linguaggio etnicamente esplicito, che può sfociare in grossolane generalizzazioni.
In Italia, invece, dove la copertura mediatica della crisi burundese è debole, a parte le analisi riportate da un paio di studiosi 7 molti giornali e siti d’informazione continuano ad utilizzare la chiave etnica come l’unica necessaria per la comprensione della crisi politica burundese. Non solo titoli e articoli allarmisti propagano l’idea di un imminente genocidio 8 , di una pianificazione del genocidio 9 (del quale si avanza addirittura siano in corso le “prove generali”) laddove la maggior parte dei giornali internazionali si limitano all’uso più appropriato di “guerra civile”, ma alcuni arrivano addirittura a dichiarare che il genocidio sarebbe già in atto 10 , che “bande armate alla meglio di contadini hutu stanno già circolando all’interno del Paese” 11 . Il paragone con il Ruanda 12 è una costante, mentre solo pochi giorni fa Jean-Pierre Chretien metteva in guardia sul rischio di “confondere il Burundi ed il Ruanda”. Inoltre l’evocazione continua della minaccia delle Fdlr sta sfociando in una vera e propria “invenzione mediatica” : il Presidente Nkurunziza sarebbe stato destituito per lasciare il potere nelle mani delle FDLR, mentre lui si troverebbe delirante ed imbottito di psicofarmaci lontano dalla capitale. Tali affermazioni sono frutto di una mente ricca di fantasia, e la scarsa attenzione mediatica italiana sulla regione dei Grandi Laghi permette a questa dis-informazione di avere una certa risonanza, con il rischio che tali notizie si diffondano velocemente, si riproducano, si gonfino, contribuendo cosi ad alimentare l’immagine di un’Africa preda di lotte etniche ataviche ed ancestrali, immagine che è stata messa da parte da un bel po’ ma che continua a quanto pare ad essere evocata da menti retrograde e dissociate dalle realtà africane. Inoltre, per i non addetti ai lavori esse hanno trovato una illusoria credibilità nelle recenti dichiarazioni a sfondo etnico del Presidente del Senato 13 , contribuendo cosi a far nascere tra i cittadini tutsi, anche in quella fascia di giovani non direttamente traumatizzata dal ricordo degli anni 1990, una indicibile paura, fomentando pericolosi sospetti e pregiudizi.
Il 29 ottobre, Reverien Ndikuriyo, Presidente del Senato ha esortato gli amministratori comunali e di quartiere a lavorare in sinergia con la polizia per scovare gli “insorti”, utilizzando un linguaggio molto vicino a quello impiegato nel corso del genocidio ruandese. Poco dopo, il 2 novembre, il Presidente Nkurunziza, ha intimato le forze dell’ordine ad usare tutti i mezzi necessari per disarmare la popolazione, minacciano una repressione violenta su larga scala. Queste dichiarazioni hanno riacceso gli spettri del passato, mettendo in allerta tutta la comunità internazionale sul rischio reale di una guerra civile, rischio che, in realtà, era evidente già dalle prime ore dell’esplosione della crisi, nella primavera scorsa, come evocato in alcuni miei articoli 14 .
Per comprendere allora ciò che sta accadendo in Burundi occorre interrogare da un lato il linguaggio utilizzato dal partito al governo, dall’altro ciò che accade realmente sul campo, dove lo sterminio etnico è una realtà lontana, dato che le uccisioni e gli arresti arbitrari riguardano tutti gli oppositori politici, senza distinzioni etniche. Mettendo in evidenza tale divergenza tra parole e azioni si riuscirà meglio ad individuare la strategia politica di cui il regime Nkurunziza sta deliberatamente facendo uso, e capire cosi, che tutti coloro che fanno un uso mediatico dell’etnicità, un uso che è sempre semplicista e svuotato della capacità di conoscere davvero, riprendono e sostengono il gioco del regime. Tali aspetti saranno analizzati nel dettaglio nel seguito di questo articolo che verrà pubblicato a breve.
La responsabilità dei media e l’importanza di dare un giusto nome alle cose
Fatto sta che l’uso inappropriato del termine genocidio può dunque diventare pericoloso e a farne le spese sono tutte quelle migliaia di persone indifese nelle città e nelle campagne burundesi, in balia delle dichiarazioni dei politici, delle dicerie e delle informazioni – o disinformazioni – che trapelano qui e là, con il rischio di cumulare la paura per un regime sanguinario e criminale alla paranoia per il proprio vicino di casa, compagno di banco o collega di lavoro.
Accade talvolta che l’ideologia di potere utilizzata dal governo, venga ripresa ed utilizzata a fini diversi dall’opposizione. Emblematico è il caso delle dichiarazioni di un rappresentante dell’Uprona, un partito d’opposizione nonché ex-partito unico, che ribadisce pubblicamente che un genocidio è in corso 15 in Burundi, facendo riferimento alle uccisioni degli oppositori politici che hanno luogo da già da vari mesi, e strumentalizzando cosi un concetto che viene usato senza tener conto della sua portata. Il risultato di questo gioco è che la popolazione è confusa e comincia ad inquietarsi. Un giovane abitante di Ngagara, studente e blogger, mi ha di recente scritto queste parole su WhatsApp:
“Dopo gli Accordi di pace di Arusha e la fine della guerra noi burundesi vivevamo in simbiosi e in comune accordo. Ma con questa crisi… sin dall’inizio del suo potere il regime ha cercato di farne une questione etnica, ma senza successo. Ma adesso la cosa fa paura, perché dato che non abbiamo più dei media indipendenti ed una società civile forte che stemprava e smontava l’ideologia del regime adesso ho paura che questo discorso di odio del governo possa avere una eco favorevole nelle campagne, dove la maggior parte delle persone è analfabeta”.
Un altro amico, giornalista e cameraman, che ha di recente lasciato il Burundi per il Ruanda mi ha confessato qualche settimana fa:
“Noi adesso abbiamo paura. Il regime usa sempre di più un discorso etnico, usa l’uccisione dei tutsi come dimostrazione. Io lo so che a morire ed ad opporsi al regime siamo tutti, tutsi ed hutu, ma la paura e le emozioni hanno spesso il sopravvento”.
Come scriveva qualche giorno fa il giornalista burundese Roland Rugero su Facebook “la retorica del genocidio nutre l’etnicizzazione del conflitto”.
Ecco cosa accade all’interno di una società quando si innescano determinate dinamiche. Ecco perché i media svolgono un ruolo importante ed hanno una enorme responsabilità. La storica ed esperta del Burundi Christine Deslaurier 16 ha dimostrato quanto “les rumeurs”, ovvero le dicerie, fossero state deleterie durante gli anni dell’indipendenza e quanto continuino ad esserlo tutt’oggi17. Prima di spiegare ed analizzare ogni crisi africana sotto il prisma dell’etnicità occorre quindi pensarci su mille e più volte. La cautela, la prudenza, la verifica delle fonti, sono elementi indispensabili per un giornalismo sano. Viviamo in un’epoca dove nessuno è al riparo dal bombardamento di informazioni inviate ogni giorno, con tutti gli aspetti positivi e negativi che ciò comporta. Occorre quindi scegliere e selezionare bene le proprie fonti, perché quando esse non sono verificabili, a scanso di equivoci sarebbe più opportuno tacere.
1 «È stato constatato che, in generale, al giorno d’oggi, le evoluzioni di guerre e conflitti dipendono più che mai dal controllo dell’informazione e della comunicazione»
2 «Risvegliando gli istinti più primordiali e veicolando archetipi culturali o clichés i media, talvolta, preparano e contribuiscono allo scoppio di sanguinose guerre: i recenti esempi della ex-Jugoslavia e del Ruanda – i casi più estremi – ci ricordano che i media possono essere dei vettori di guerra e che spesso la guerra mediatica precede la “vera guerra” ».
3 CHRETIEN, J-P., Burundi, la fracture identitaire. Logiques de violence et certitudes « ethniques », Karthala, Paris, 2002.
4 De 1968 à 1985, Ould-Abdallah ha svolto diversi incarichi di rilievo presso il governo mauritano, è stato ministro degli affari esteri e ministro del commercio. Successivamente è stato nominato ambasciatore in Belgio, Lussemburgo e Paesi Bassi, poi presso l’Ue e gli Stati Uniti. Tra il 1985 e il 1993 ha lavorato come consigliere del Segretario Generale delle Nazioni Unite sulle questioni legate all’energia. Dal 1993 al 1995, durante la guerra civile burundese è stato Rappresentante speciale di Boutros Ghali in Burundi. Tra il 1996 ed il 2002, è stato nominato Direttore della Coalizione Mondiale per l’Afrique, un forum intergovernativo con base a Washington e dedicato alle questioni africane. Nel 2002 è stato capo dell’ufficio delle Nazioni Unite per l’Africa dell’ovest, l’UNOWA. Ha pubblicato il libro: La Diplomatie Pyromane : Burundi, Rwanda, Somalie, Bosnie… : Entretiens avec Stephen Smith, Calmann-Levy, Paris, 1997.
5 Per approfondimenti si consiglia di leggere gli articoli delle ricercatrici Eva Palmas e Marie-Soleil Frere che lavorano sulla regione dei grandi laghi.
6 PALMAS, E. “Les medias face au traumatisme électorale au Burundi”, in Politique Africaine, vol.1, n.97, 2005
7 Vedi in particolare le riflessioni degne di nota dell’antropologa Marta Mosca sulla complessità del contesto socio-politico burundese: http://www.qcodemag.it/2015/09/20/la-complessita-sociale-del-burundi/ ; ed il contributo originale dell’antropologo Giovanni Gugg: https://frontierenews.it/2015/06/costruire-la-democrazia-in-burundi-una-lezione-anche-per-leuropa/
8 “Milizie FDLR e Imbonerakure, coadiuvate da forze di polizia e bassa manovalanza hutu arruolata nelle scorse settimane nelle campagne con fiumi di birra e magnifiche promesse, starebbero preparando in queste ore l’attacco definitivo ad alcuni quartieri della capitale del Burundi Bujumbura (Nyagabiga, Murakura, Cibitoke, Ngagara), alla ricerca selettiva di cittadini burundesi di etnia tutsi”, scrive Andre Spinelli Barrile su Africa-express: http://www.africa-express.info/2015/11/07/burundi-sullorlo-del-baratro-si-rischia-un-nuovo-genocidio-africano/; “Le violenze che nelle ultime settimane stanno attraversando il Burundi potrebbero essere il preludio del ripetersi del peggior misfatto della storia africana recente. Parliamo del genocidio nel vicino Ruanda, che, nel 1994, provocò nell’arco di tre mesi lo sterminio di 800mila tra tutsi e hutu moderati” – scrive Marco Cochi su http://www.eastonline.eu/it/opinioni/sub-saharan-monitor/sulla-crisi-in-burundi-si-allunga-lo-spettro-del-genocidio
9 “La necessità di mantenere il potere viene identificata ormai chiaramente nella necessità di eliminare tutti i tutsi, considerati -a torto- l’unica fonte di resistenza popolare. Anche se più rozza e meno organizzata di quella ruandese la preparazione della ‘Soluzione Finale‘ non è stata improvvisata. Durante i primi due mandati come Presidente, Nkurunziza ha segretamente pianificato l’orribile evento”, scritto da Fuvio Beltrami su L’Indro: http://www.lindro.it/burundi-kora-kora-prove-generali-del-genocidio/
10 “Da ieri sera è scattato il piano di genocidio in alcune zone del Burundi, nella fattispecie nella capitale, mentre non sono certe le informazioni relative a massacri che vi sarebbero state nel resto del Paese. Gli ordini sono chiari: sterminare tutti i tutsi e gli oppositori hutu assieme alle loro famiglie” come scritto da Fulvio Beltrami su L’Indro: http://www.lindro.it/burundi-iniziato-il-genocidio/
11 Fulvio Beltrami su L’indro: http://www.lindro.it/burundi-kora-kora-prove-generali-del-genocidio/6/
12 Nel maggio 2015, all’inizio della crisi, quando la situazione politica, contrariamente alle attuali evoluzioni, aveva poco che poteva far ricondurre ad una crisi etnica, il titolo di un articolo recitava cosi: “Burundi violence has worrying similarities to 1994 Rwanda genocide” (trad: la violenza in Burundi a similitudine preoccupanti con il genocidio ruandese del 1994), scritto da Ludovica Iaccino su ibtimes: http://www.ibtimes.co.uk/focus-burundi-violence-has-worrying-similarities-1994-rwanda-genocide-1501318.
13 Il contenuto di questo discorso verrà esplicitato ed analizzato nella seconda parte, inerente alla crisi burundese. Un accenno in italiano è qui: http://www.internazionale.it/opinione//2015/11/11/burundi-violenze
14 Vedi i miei articoli risalenti al mese di maggio su Frontierenews: https://frontierenews.it/2015/05/burundi-vietato-parlare-delle-proteste/; https://frontierenews.it/2015/05/il-burundi-tra-speranze-democratiche-e-il-rischio-di-una-nuova-guerra-civile/; e su Africanvoices: https://africanvoicess.wordpress.com/2015/05/11/violenza-e-democrazia-il-paradosso-dellemancipazione-socio-politica-dei-giovani-burundesi/ ; https://africanvoicess.wordpress.com/2015/05/27/tout-va-bien-au-burundi-monsieur-le-president-la-sorda-ostinazione-del-presidente-nkurunziza/
15 Charles Nditije : « La priorité, c’est que la communauté internationale se mobilise pour envoyer rapidement des forces pour [stopper] ce génocide qui est en cours »,
16 DESLAURIER, CH., « La rumeur du cachet au Burundi (1960-1961)», in Cahier d’études africains, n.178, 2005
17 DESLAURIER,CH., « Et booooum ! Provocations médiatiques et commotions politiques au Burundi », in Politique Africaine, vol.3, n.107, 2007.
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[…] etnico”, eppure non siamo a quel livello, anzi dovremmo misurare le parole perché, come avverte Valeria Alfieri in una sua analisi pubblicata su “Frontiere News”, c’è il rischio di […]
[…] et des conflits dépend plus que jamais de la maîtrise de l’information et de la communication» 1 (per tutte le traduzioni guardare le note corrispondenti) – scrive Renaud de la […]
Ottimo esempio di articolo revisionista. Complimenti. Mi consolo perche’ nel attacco sono in buona compagnia. la struttura della tesi (assai empirica) e’ comunque smentita dalle reazioni internazionali e la lista deiprofeti del genocidio e’ ormai lunga. Suggerisco alla Alfieri di inviare lettera revisionista anche all’Ambasciatrice americana Shamanta Power. P.S. grazie della pubblicita’ gratuita che avete fatto sul sottoscritto. L’articolo e’ stato evidentemente ben studiato per evitare conseguenze legali. Come strutturato l’avvocato non puo’ aprire una denuncia per calunnia e diffamazione. Sara’ per la prossima. Complimenti. Grande Giornalismo!
CONDIVIDO QUESTE AFFERMAZIONI: “In un contesto già avvelenato, la manipolazione della realtà da parte dei media internazionali e la previsione quasi concorde dello stesso scenario finisce cosi per crearlo, e le popolazioni interessate finiscono con l’immedesimarvisi e conformarvisi. I politici creano prototipi per restare al potere, e quando hanno il controllo dei mezzi d’informazioni questi divengono strumenti di violenza. A ciò si aggiunge il fatto che i media internazionali, molto spesso, finiscono inconsapevolmente nel fare il gioco dei protagonisti e propagandisti del conflitto, incrementando le strumentalizzazioni politiche e vietandosi in tal modo un’analisi lucida ed obbiettiva.
Tutti coloro che scrivono in contesti delicati e precari portano il peso di una enorme responsabilità, con cui devono fare i conti. Occorre dunque dare il giusto nome alle cose, pesare, valutare consapevolmente ogni parola, con una pazienza ed uno scrupolo certosini”.
Infatti, in un contesto tale quello burundese, non si parla per parlare, ma si parla per muovere la gente. Non si dovrebbe allora scindere la sua parole dalle conseguenze che potrebbe generare in un contesto avvelenato.
UN’ANALISI SULL’IMMINENTE GENOCIDIO IN BURUNDI
“La maggior parte dei media internazionali di rilievo, come Jeunes Afrique, RFI, Voa restano prudenti circa l’utilizzo di titoli e la propagazione di messaggi allarmisti su un’imminente genocidio etnico (sfogliano i titoli e gli articoli linkati nelle note qua sotto appare chiaro come nessuno di essi si lasci tentare da una lettura etnicista dell’attuale crisi burundese). Altri come Le Monde e Libération si sono lasciati andare talvolta a dei richiami etnici usando dei sottotitoli che fanno esplicito riferimento alla paura di “violenze etniche su grande scala”, o riprendono le dichiarazioni eccessivamente allarmiste di qualche burundese della diaspora che si è fatto conoscere dai media proprio durante la recente crisi, ma fortunatamente questo tipo di analisi restano rare. Le esperienze pregresse degli anni 1990 hanno probabilmente fatto capire la necessità per i media internazionali di andare oltre la chiave di lettura etnica, e l’impellenza di mantenere una certa prudenza sull’utilizzo di un linguaggio etnicamente esplicito, che può sfociare in grossolane generalizzazioni.”
Una anasili ricca che chiarisce la situazione del Burundi e chiama i media internazionali ad essere prudenti! Il genocidio è stato una delle strategie usate per catturare l’attenzione della comunità internazionale. Violenze, ci sono ma genocidio,…