di Alessandro Pagano Dritto
(Twitter: @paganodritto)
Mentre all’UNSMIL si chiude nei sospetti di parzialità e faziosità l’era di Bernardino Leon e si apre, con implicite speranze di rinnovamento e successo finale, quella di Martin Kobler, dalla Tripolitania – ma non solo dalla Capitale – proviene un’idea alternativa al dialogo attualmente in corso: un dialogo tra soli libici che potrebbe non contemplare più la mediazione delle Nazioni Unite e della comunità internazionale.
UNSMIL, il tedesco Martin Kobler succede a Bernardino Leon nel probabile segno della continuità.
Il 17 novembre 2015 il diplomatico tedesco Martin Kobler succedeva allo spagnolo Bernardino Leon alla guida della
United Nations Support Mission in Libya (Missione di Supporto delle Nazioni Unite in Libia, UNSMIL). La successione, per la verità già prevista da qualche mese, giungeva in un momento molto delicato nel quale il vertice massimo dell’organizzazione delegata al paese nordafricano veniva colpita dalle rivelazioni di alcuni importanti siti di informazione – The Guardian, Middle East Eye, New York Times – circa gli ambigui rapporti da lui trattenuti con le autorità degli Emirati Arabi Uniti, non da ora ritenuti uno dei paesi maggiormente schierati nella crisi libica – dove invece si chiedeva a gran voce la neutralità degli stati esteri al fine di non alimentare il conflitto interno al paese – al fianco delle istituzioni internazionalmente riconosciute di stanza nell’Est, a Tobruk. A questo si aggiungeva lo stallo dei negoziati, protrattisi ben oltre la data fatidica del 20 ottobre 2015.
Meeting Dr. Emad Al Sayeh, Chairman of Libya’s Election Commission HNEC, to discuss security and electoral matters pic.twitter.com/YAA0CROy8L
— Martin Kobler (@KoblerSRSG) 19 Novembre 2015
Appena ottenuta la carica, dunque, il diplomatico tedesco precedentemente impegnato nella Repubblica Democratica del Congo, iniziava subito le sue visite ad alcune importanti realtà politiche del paese: dapprima incontrava i rappresentanti dell’ente organizzatore delle due elezioni seguite alla fine della guerra del 2011, la High National Elections Commission (Alta Commissione Nazionale per le Elezioni, HNEC), e poi proseguiva con una visita ai due parlamenti: quello orientale, la House of Representatives (Casa dei Rappresentanti, HOR), e quello occidentale, il General National Council (Consiglio Generale Nazionale, GNC).
Dalle prime dichiarazioni pubbliche rilasciate, pare che il nuovo inviato delle Nazioni Unite intenda proseguire in perfetta continuità col suo predecessore: «Il testo della bozza di accordo – ha dichiarato a Tripoli, il 22 novembre, secondo il Libya Observer – non deve essere cambiato o modificato, ma possiamo comunque discutere alcune questioni più intricate. Alla fine del dialogo ci saranno tre legittime istituzioni, nominalmente: la HOR, lo State Council e il nuovo governo», dove per nuovo governo si intende naturalmente quello di Fayez Sarraj che fu a suo tempo annunciato da Bernardino Leon e che continua a mantenere i propri rapporti con la comunità internazionale. Dichiarazioni non molto diverse da quelle espresse il giorno prima a Tobruk.
Oltre la mediazione delle Nazioni Unite: Tripoli e l’idea di un dialogo intralibico.
Martin Kobler, si diceva, giunge a presiedere l’UNSMIL in un momento molto delicato. Se il caso Leon ha costituito un motivo di difficoltà, per così dire, interno all’organizzazione, il terreno delle Nazioni Unite in Libia potrebbe venire eroso al contempo eroso anche all’esterno. Non tanto da quei gruppi politici e militari che esplicitamente non credono nella possibilità di successo di un dialogo mediato dall’organizzazione internazionale, quanto piuttosto da una vera e propria alternativa di dialogo che sta prendendo piede in Libia a partire dalla Tripolitania, cioè dalla Libia occidentale.
La nascita di questo tentativo può probabilmente essere collocata almeno nell’ultima decade di ottobre, significativamente dopo il fallimento delle votazioni del 20 del mese; fallimento che costituì, in tutta probabilità e – va riconosciuto – col senno di poi, la vera e definitiva conclusione della mediazione di Leon.
Parlando infatti in pubblico il 23 ottobre scorso, in occasione del quarto anniversario della conclusione della guerra del 2011, il Primo Ministro di Tripoli Khalifa al Ghwail annunciava l’opportunità e la necessità di un dialogo intralibico che fosse condotto al di fuori di ogni mediazione esterna: «dobbiamo tutti sbarazzarci dei problemi creati dagli stranieri e messi in pratica dai libici dall’interno del paese», avrebbe detto il vertice dell’esecutivo internazionalmente non riconosciuto secondo il Libya Observer.
Pochi giorni dopo, il 26 ottobre, ancora il Libya Observer pubblicava un intervento a firma del Grand Mufti Sheikh
Sadeq al Ghariani, la maggiore autorità religiosa libica attualmente riconosciuta però solo dal governo di Tripoli, e significativamente intitolato Libyan – Libyan Reconciliation. In questo suo articolo l’uomo religioso spronava anche lui il suo pubblico – idealmente tutta la Libia – a intraprendere un dialogo intralibico al di fuori della mediazione delle Nazioni Unite: «Noi meritiamo la riconciliazione più di quanto la meriti la comunità internazionale – scriveva – così perché non ci rimbocchiamo le maniche e diventiamo iniziatori? Perché non costruiamo una riconciliazione e un accordo con le nostre stesse mani e poi presentiamo questi [risultati] come un piano concreto e condiviso che possa mettere in sicurezza il paese, in modo tale che l’Occidente garantisca la sua sicurezza se davvero aveva da temere la Libia per la sua propria! Sicuramente la riconciliazione toglierà all’Occidente la scusa della «lotta al terrorismo» tramite la quale i paesi arabi vengono distrutti uno per uno».
Poco oltre, Ghariani specificava meglio a chi era rivolto l’invito alla riconciliazione: «tutti coloro ai quali importa del paese, coloro che si radunano nelle piazze, i notabili e i dignitari, i membri eletti di tutti i consigli, e i patrioti libici di tutto il paese sono invitati, vengano questi da Tobruk, Bengasi, al Jmail, Ras Ejdir, dal nord, dal centro o dal sud. A tutti è richiesto di fare considerevoli sforzi per iniziare un dialogo intralibico con un chiaro percorso e scadenze precise dove tutte le regioni libiche siano rappresentate, sia che concordino oppure che siano in disaccordo. […] Tutte le città libiche sono invitate al dialogo, anche quelle che si stanno combattendo l’una con l’altra […]».
Domenica 1 novembre seguiva un incontro, a Tripoli, tra il vicepresidente del GNC Awad Abdel Sadiq ed elementi della HOR, i cui esiti non sono però al momento chiari.
Oltre la politica dei vertici tripolini: Jadu, consiglieri e notabili si attivano per un nuovo dialogo.
Se la cronologia sembra indicare che l’idea di un dialogo alternativo a quello mediato dalle Nazioni Unite sia nata
negli ambienti politici e religiosi tripolini – e per altro Tripoli continua comunque a dialogare anche con le Nazioni Unite, come dimostra l’accoglienza del nuovo inviato Kobler – le ultime evoluzioni sembrano però testimoniare un suo allargamento al di là degli ambienti della Capitale e della politica di vertice.
Jadu, nei monti Nafusa, potrebbe infatti essere la prima città della Tripolitania e della Libia ad attivarsi pragmaticamente per questa soluzione: il 21 novembre ne dava notizia il Libya Herald in un articolo a firma di Ajnadin Mustafa, sostenendo che una delegazione formata, tra gli altri, dal consigliere municipale Sulaiman Gasbi e dal notabile Salem Lamri, del locale consiglio dei notabili, ha incontrato il presidente del GNC Nuri Abu Sahmain e prevederebbe di incontrare a breve anche quello della HOR Ageela Saleh Gwaider. Il sito d’informazione Libyan Press fornisce ulteriori dettagli, riassumendo così una comunicazione che sarebbe stata diffusa dal consigliere municipale della cittadina: «l’iniziativa contempla la creazione di un consiglio legislativo composto da membri della HOR e da membri del GNC, oltre alla formazione di un governo di transizione fino a quando non verrà realizzato un referendum sulla costituzione».
Conclusioni. Concretezza effettiva di un’alternativa.
Va da sé che la sola esistenza di un’alternativa concreta al dialogo mediato dalle Nazioni Unite non significa che questa sia destinata a soppiantarne la funzione e la stessa esistenza. Al contrario, la proposta di un dialogo intralibico al di fuori dell’egida internazionale potrebbe facilmente avere, a parere di chi scrive, una strada tutta in salita: nonostante, infatti, il discredito nel quale l’affare Leon ha gettato l’organismo internazionale agli occhi, probabilmente, di buona parte dei dialoganti libici, il potere di collegamento con le realtà non libiche e con le potenze politiche dei vari quadranti geografici e geopolitici nei quali la Libia può essere inscritta rendono ancora più che probabile l’insistenza sulla variante della mediazione internazionale. Né si deve pensare che la chiamata tripolina a un dialogo intralibico non abbia una propria possibile giustificazione anche nel rafforzamento del proprio peso specifico interno come contraltare alla mancanza di legittimazione esterna.
Nonostante quindi tutto questo e nonostante il suo carattere ancora probabilmente embrionale, l’alternativa libica al dialogo mediato dalle Nazioni Unite merita di essere citata e conosciuta. Non è probabilmente un caso che sia nata in Tripolitania, in quella metà della Libia dove cioè nel corso del 2015 si è avuto un certo numero di accordi di pace tra città rivali; accordi che, pur essendo stati a suo tempo salutati con favore dalle Nazioni Unite, hanno a che fare molto di più con la politica locale delle singole città che con il dialogo nazionale libico in sé. Lo testimonia almeno un’intervista rilasciata dal portavoce del Council of Elders in Libya (Consiglio dei Notabili in Libia, CEL) Taher al Badawi, che lo scorso 1 novembre ha spiegato al giornalista Mohamed Rabie del Libya Prospect il ruolo detenuto dal suo gruppo nel raggiungimento di questi accordi.
Al di là di quelli che possono essere gli interessi prettamente politici di Tripoli nel diffondere e approvare l’idea di questa alternativa, è doveroso considerare nella giusta luce anche l’iniziativa di Jadu: sarebbe probabilmente troppo semplicistico pensare che Jadu, o qualsiasi altra comunità in cui l’idea dovesse diffondersi anche con risvolti concreti come la creazione di delegazioni apposite, funga semplicemente da sostenitore degli interessi della Capitale. Se il conflitto in corso ha infatti insegnato qualcosa, questo qualcosa è proprio il carattere ingannevole e semplicistico dell’idea di una Libia perentoriamente divisa in due: al di là della comodità di servirsi di questo binomio in determinati frangenti narrativi, è ovvio che la realtà è molto più complessa e né Tripoli né Tobruk hanno il pieno e diretto controllo di tutte le realtà civili e militari nominalmente poste sotto la propria egida. Il carattere locale ha insomma un valore ancora pregnante.
Piuttosto pare che l’iniziativa di Jadu potrebbe costituire un primo passo verso un peso specifico maggiore delle comunità locali – e dei loro pragmatici risultati, raggiunti fino ad adesso – nei più ampi negoziati di pace nazionali.
Non è per altro detto che le Nazioni Unite debbano per forza rimanerne fuori come suggerisce Tripoli:
Ai primi di novembre l’analista italiano Mattia Toaldo ha scritto infatti a proposito della dimensione locale degli accordi tripolitani e delle Nazioni Unite: «Un processo a guida libica condotto da una coalizione di autorità municipali, notabili e parlamentari volenterosi provenienti sia da Tripoli che da Tobruk potrebbe avallare un governo di unità nazionale che sarebbe poi riconosciuto dalla comunità internazionale. Un governo di questo tipo, che traesse la sua origine da un ampio contratto sociale, sarebbe più difficile da attaccare per gli estremisti di entrambe le fazioni. L’Occidente e le Nazioni Unite, comunque, non dovrebbero essere semplici spettatori di tutto questo. In questo preciso momento c’è bisogno che facciano un’importante manovra: assicurarsi che nessuna fazione possa disporre del petrolio libico per considerare la divisione de facto del paese».
Profilo dell'autore
- Il primo amore è stato la letteratura, leggo e scrivo da che ne ho memoria. Poi sono arrivati la storia e il mondo, con la loro infinita varietà e con le loro infinite diversità. Gli eventi del 2011 mi lasciano innamorato della Libia: da allora ne seguo il dopoguerra e le persone che lo vivono, cercando di capire questo Paese e la sua strada.
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