Libia, la Risoluzione 2259 riconosce la possibilità di un intervento internazionale

di Alessandro Pagano Dritto

(Twitter: @paganodritto)

 

*Immagine di copertina: personale militare statunitense alla base di al Wattiyah, situata nell’enclave dell’Ovest libico legata a Tobruk. (Fonte: www.ilpost.it via Libyan Air Force Facebook Page)

 

La Risoluzione 2259 delle Nazioni Unite, approvata all’unanimità dai membri del Consiglio di Sicurezza il 23 dicembre 2015, rende esplicita la possibilità di un’intervento internazionale in Libia in chiave antiterroristica qualora il governo unitario – ora riconosciuto come unico interlocutore legittimo nel paese – ne facesse richiesta; ma sui tempi e i modi dell’intervento c’è ancora ben poco di chiaro. Pur escludendo i paesi interessati interventi militari immediati, sia la stampa italiana che quella britannica suggeriscono però i primi approcci alla situazione con l’invio – non sempre confermato dalle autorità di riferimento – di forze speciali probabilmente utili a creare una rete di contatti operativi.

 

Il 23 dicembre 2015 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato la Risoluzione 2259 (2015): il testo, di bozza britannica, è stato approvato all’unanimità dai paesi presenti al voto e dai cinque permanenti.

Oltre a sancire il definitivo riconoscimento dell’esecutivo unitario di Fayez Serraj come unico interlocutore legittimo in Libia e a chiedere pertanto che «si cessi ogni sostegno e contatto ufficiale con le istituzioni parallele che sostengono di costituire l’autorità legittima ma sono fuori dall’accordo [di Skhirat]» (punto 5) – e ciò vale, se ne deduce, sia per Tripoli che per Tobruk – la Risoluzione pone anche sul tavolo la questione degli aiuti militari a questa rappresentanza ufficiale contro i gruppi ritenuti terroristici che agiscono nel paese nordafricano e che il punto 12 definisce come «l’ISIL (Islamic State of Iraq and the Levant, Stato Islamico dell’Iraq e del Levante), i gruppi che hanno dichiarato la propria alleanza all’ISIL, Ansar al Sharia e tutti gli altri individui, gruppi, imprese ed entità associate ad al Qaeda». Se da un lato però è messo in chiaro che i componenti delle Nazioni Unite dovranno aiutare il governo libico riconosciuto in questa operazione antiterroristica, dall’altro il testo ufficiale della risoluzione lascia nell’ambiguità tanto i modi quanto i tempi dell’aiuto.

 

La Risoluzione 2259 e le ambiguità su tempi e metodi di intervento.

Sui tempi, infatti, l’unica certezza è la necessità di agire – si legge sempre al punto 12 – «upon its request», cioè su

Ibrahim Dabbashi, inviato libico alle Nazioni Unite, in una foto del 2012. A Risoluzione 2259 approvata, ha chiarito che il governo unitario non chiederà immediatamente un intervento diretto, sollecitando invece il rifornimento di armi. (Fonte: Reuters / Esam Al-Fetori)
Ibrahim Dabbashi, inviato libico alle Nazioni Unite, in una foto del 2012. A Risoluzione 2259 approvata, ha chiarito che il governo unitario non chiederà immediatamente un intervento diretto, sollecitando invece il rifornimento di armi. (Fonte: Reuters / Esam Al-Fetori)

richiesta delle autorità centrali libiche enon si trova in quest’ultimo documento alcun riferimento, al Capitolo VII dello Statuto delle Nazioni Unite capace di permettere un’azione autoritaria che scavalchi, se reso necessario da determinate circostanze – il volere dello Stato nel quale si agisce di forza. Non ci sono però al momento idee precise su quando il governo Serraj potrebbe richiedere questo intervento, tanto che lo stesso rappresentante libico alle Nazioni Unite Ibrahim Dabbashi è stato dapprima citato dal sito d’informazione Ashraq al Awsat mentre assicurava un pronto intervento, ma poi ha rettificato all’agenzia britannica Reuters sulla necessità di tempi più lunghi e variabili. «Se iniziano i bombardamenti americani, francesi, inglesi il nostro timore è che il presidente Fayez Serraj non potrà insediarsi a Tripoli. Con una offensiva decisa, determinata contro il Daesh, la Libia diventerà un campo di battaglia. Conviene aspettare. Prima che si formi il governo, poi che il dialogo avviato da Fayez con i maggiori comandanti delle milizie di Tripoli, Misurata, Zintan e delle altre municipalità produca i suoi frutti», dice il rappresentante libico citato da Guido Ruotolo della Stampa. Sintetizzando all’agenzia di informazione britannica: «nessuno sta pensando di richiedere un intervento straniero al momento».

Aspettare, dunque, ma rimane poco chiaro quanto. Da parte europea – specialmente francese, con Alain Barluet del Figaro che il 22 dicembre citava non meglio identificate fonti interne al Ministero della Difesa – sembra che l’orizzonte massimo previsto per l’«indispensabile» azione militare debba essere quello dei «sei mesi o fino alla primavera».

Altrettanta incertezza regna sui modi dell’intervento: sempre Ibrahim Dabbashi chiarisce alla Reuters che ciò che le autorità libiche si aspettano dai paesi alleati è soprattutto il famoso rifornimento di armi, tramite alleggerimento dell’embargo, da tempo previsto a livello teorico, ma mai realizzato a livello pratico. Su questo punto però i paesi delle Nazioni Unite sembrano non essere ancora troppo accondiscendenti, almeno fino a che non ci sarà una sicura ufficializzazione tanto delle autorità civili unitarie quanto di quelle militari; segno probabile di una situazione ritenuta ancora troppo magmatica e inaffidabile. I paesi europei e gli Stati Uniti preferirebbero invece, a quanto pare, una duplice modalità di intervento che si dividerebbe da un lato nel bombardamento dei siti ritenuti strategici per i terroristi, dall’altro nell’invio di personale militare che addestri e formi l’esercito del governo unitario libico.

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I metodi di intervento. Cosa dicono, ufficiosamente, la stampa britannica e quella italiana.

Fino ad ora la linea ufficiale sulla questione dell’intervento in Libia potrebbe essere quella indicata dalla Ministra

La Ministra italiana della Difesa Roberta Pinotti. Intervistata il 27 dicembre 2015, ha escluso bombardamenti in Libia nell'immediato, suggerendo invece il supporto alle truppe libiche sul terreno contro lo Stato Islamico. (Fonte: www.adnkronos.com)
La Ministra italiana della Difesa Roberta Pinotti. Intervistata il 27 dicembre 2015, ha escluso bombardamenti in Libia nell’immediato, suggerendo invece il supporto alle truppe libiche sul terreno contro lo Stato Islamico. (Fonte: www.adnkronos.com)

della Difesa italiana Roberta Pinotti, intervistata da Francesco Lo Dico per il Mattino: la Ministra ha definito, «al momento», «un’ipotesi da escludere» i raid aerei sulle postazioni dello Stato Islamico a Sirte, sostenendo piuttosto che la strategia italiana – ma, pare di capire, condivisa con Francia e Gran Bretagna, con le quali l’Italia avrebbe avuto incontri a riguardo – sarebbe quella di fornire un non meglio specificato «supporto» alle formazioni libiche che sul terreno si dimostreranno capaci di contenere la formazione terroristica. L’Italia manterrebbe comunque in Libia «un ruolo di leadership». Qualcosa di simile aveva detto l’inviato in Libia delle Nazioni Unite Martin Kobler parlando in conferenza stampa subito dopo l’approvazione della Risoluzione 2259: «il governo di unità nazionale deve organizzare una lotta libica contro Daesh»

L’intervista appena citata è del 27 dicembre, ma prima di questa data la stampa dei paesi più interessati a eventuali operazioni libiche si erano lasciati andare ad alcune indiscrezioni che possono forse dare l’idea di cosa potrebbe accadere in caso di emergenza o di scadenza di eventuali termini ufficiosamente previsti. Già il 19 dicembre il britannico Guardian, aspettandosi l’inizio dei bombardamenti addirittura in quella settimana, sosteneva che le azioni aeree avrebbero «dato una priorità ad Ajdabiya, coordinandosi con le milizie per colpire i convogli jihadisti al di fuori della città», per colpire poi i siti di addestramento dello Stato Islamico ad al Ajaylat, da dove sarebbero provenuti, secondo le autorità tunisine, i responsabili del massacro si Soussé lo scorso giugno, di quello del Museo del Bardo in marzo e dell’uccisione di alcune guardie presidenziali, sempre tunisine, in novembre. Infine, ovviamente, Sirte, che il quotidiano definisce nemmeno troppo implicitamente come la Raqqa libica e che sarà – si legge – «una noce più dura da rompere».

In ogni caso il giornale britannico sostiene anche che i bombardamenti potranno funzionare se saranno coordinati con le truppe di terra, che dovrebbero essere però libiche. Anche questo è un punto di non secondaria importanza per il quale però, al contempo, è difficile dire a che punto del percorso si è arrivati. La questione primaria da risolvere con le milizie rimane infatti quella di capire quante e quali, tra quelle non terroristiche ma semplicemente appartenenti ai due poli di potere libici, decideranno di collaborare con le Nazioni Unite: è la cosiddetta «security track» in mano al Generale italiano Paolo Serra, probabilmente attivo in questi giorni e in queste settimane in colloqui mirati dei quali – forse comprensibilmente, data l’estrema delicatezza della situazione – non si sa pressoché nulla. In questo senso la situazione appare molto più delicata a Tripoli e nel tripolitano, piuttosto che a Est e a Tobruk: la leadership praticamente indiscussa del Generale Khalifa Hafter nell’esercito orientale potrebbe in questo caso aver fatto da collante, mentre a Ovest sembra mancare una figura egualmente carismatica e unificante con la quale prendere contatti; inoltre è proprio a Tripoli, e non altrove, che il governo unitario dovrebbe prima o poi insediarsi ed è quindi proprio a Tripoli, prima che altrove, che andrà risolta la questione sicurezza.

Anche la stampa italiana ha comunque lasciato trapelare qualcosa nel merito della questione militare e del possibile intervento in terra libica, questa volta però in una modalità diversa dal semplice bombardamento: l’invio di unità militari sul terreno a fine di protezione dei siti strategici. Il 22 dicembre Umberto De Giovannangeli scriveva infatti sull’Unità di «una missione composta da almeno 5000 uomini, 1000 britannici e 4000 italiani, per mettere in sicurezza i punti nevralgici del Paese: il porto di Tripoli, gli aeroporti, i principali collegamenti stradali, gli impianti petroliferi. Si starebbe valutando anche la dislocazione di un contingente di italiani alla frontiera con la Tunisia, vicino alla città degli scavi archeologici di Sabrata, la «Palmyra libica», gravemente minacciata dallo Stato Islamico, e ai campi d’addestramento dai quali parte il corridoio di jihadisti tra la Libia e la Tunisia».

Già il 15 dicembre Guido Ruotolo scriveva per la Stampa unità della polizia militare italiana e inglese potrebbero occuparsi di salvaguardare la sicurezza delle ambasciate straniere una volta che queste ritornassero a Tripoli, città che la gran parte di loro ha lasciato con gli scontri dell’estate 2014: le forze italiane consisterebbero, secondo il giornalista, in «centinaia di carabinieri».

Al di là delle ricostruzioni ufficiose della stampa, di certo sembrerebbe esserci un contatto avvenuto tra la Ministra Roberta Pinotti e il Segretario alla Difesa statunitense Ash Carter, di cui riporta Onu Italia, sul tema libico, così come alcune dichiarazioni del loro collega britannico Michael Fallon: l’11 dicembre, in una conferenza stampa congiunta proprio con Ash Carter, Fallon aveva precisato, partendo dallo scenario iracheno, che la Gran Bretagna non aveva intenzione di inviare truppe di terra che combattessero lo Stato Islamico nei luoghi dove si era radicato, ma che, nello specifico caso libico, «se potremo raggiungere un accordo politico […] e verrà istituita una missione internazionale che aiuti a fornire l’addestramento e il supporto a questo necessario, saremo naturalmente parte di questa missione». Come del resto, aggiunge il ministro, la Gran Bretagna sta già facendo in Nigeria.

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Scrive più in dettaglio Tom Batchelor per l’Express: «il segretario alla Difesa Michael Fallon ha detto che 1000 soldati sono pronti al dispiegamento in Libia per occuparsi della proliferazione dei jihadisti dello Stato Islamico – anche conosciuto come Daesh – dopo la caduta di Gheddafi nel 2011. Una squadra di mezza dozzina di Special Forces sarà inviata all’inizio per condurre una missione di perlustrazione, prima che una coorte di truppe britanniche sia inviata per addestrare i combattenti libici l’anno prossimo. Soldati di elite della Special Air Service (Servizio aereo speciale, SAS) saranno armati per eliminare obiettivi di alto profilo dello Stato Islamico, benché la maggior parte di quelli spiegati sarà utilizzata in ruoli esterni ai combattimenti. I piani sono parte di una forza di 6000 unità a guida italiana allo scopo di ripristinare l’ordine nel paese senza legge, che è stato decimato dagli islamisti estremisti e da due governi rivali che hanno fallito nel fermare la violenza e le turbolenze».

Fonti libiche avrebbero suggerito a Daniele Raineri del Foglio, che ne ha scritto il 17 dicembre, che le forze britanniche potrebbero essere di base vicino Derna, quelle francesi circa 500 km a sud di Tripoli e quelle statunitensi – come si potrebbe esser visto – nella zona militare di Wattiyah.

E in un reportage dei primi del mese, sempre Daniele Raineri del Foglio citava una non meglio precisata fonte occidentale, implicitamente confermata poi da fonti libiche – secondo la quale «una manciata di operatori [italiani] che si muove vicino a Zwara e Sebratha» si occuperebbe allo stesso tempo di tutelare le aziende dell’ENI nella zona e di preparare un intervento: «in particolare – scrive Raineri – gli operatori delle forze speciali italiane sono considerati specialisti di quella zona per il ruolo che hanno avuto durante la guerra civile libica contro Gheddafi nel 2011, quando hanno guidato i bombardamenti degli aerei della NATO».

Anche se all’epoca del citato reportage lo Stato Maggiore della Difesa sottoscrisse una nota ufficiale dove si diceva che «quanto riportato è privo di qualsiasi fondamento», nei giorni scorsi «la presenza di forze speciali italiane, impiegate sul suolo libico con il compito di acquisire informazioni preliminari, nell’ottica di un’operazione contro le postazioni dello Stato Islamico […] è stata confermata a  da fonti che preferiscono l’anonimato».

 

Sul possibile intervento britannico, un confronto storico: cosa diceva Massimo Salvadori.

Massimo Salvadori
Massimo Salvadori (1908 – 1922). In Italia con l’esercito britannico durante la Seconda guera mondiale, si basò quindi anche sulla sua personale esperienza nella stesura della sua “Storia della Resistenza italiana” (Neri Pozza Editore, Venezia, 1955, pp. 204). Alcune delle pagine dell’opera sono dedicate alle forze speciali che britannici e statunitensi utilizzavano per prendere contatto con le formazioni della guerriglia nel Nord Italia. (Fonte: www.specialforcesroh.com)

A leggere queste righe – il lettore permetta questa divagazione, che però sembra utile a contestualizzare – ritornano alla mente altre, più antiche, righe scritte ormai oltre mezzo secolo fa da un italiano interno ai reparti inglesi impegnati durante il secondo conflitto mondiale a risalire lo stivale: si tratta di Massimo Salvadori (1908-1992), che nella sua Storia della Resistenza italiana (Neri Pozza Editore, Venezia, 1955, pp. 204) dedica alcune pagine a spiegare in cosa consistettero le missioni che britannici e statunitensi inviarono nel Nord Italia in appoggio agli irregolari italiani cobelligeranti.

Secondo quanto scrive dunque Salvadori, «portare la guerra in territorio nemico è una vecchia tradizione britannica» (p. 112) che risalirebbe addirittura al XVI secolo e che non mancò di manifestarsi anche durante il Secondo conflitto mondiale: i reparti che se ne occupavano «reclutati fra soldati, marinai, avieri e loro ufficiali, possedevano un’organizzazione indipendente da quella dell’esercito, della marina, dell’armata aerea. Le funzioni che dovevano essere assolte richiedevano doti particolari d’iniziativa, d’immaginazione, di responsabilità, di coraggio e di segretezza» (p. 113).

Salvadori distingue due tipi di operazioni di questo tipo, diverse sulla base dei loro fini: Combined Operations e Special Operations, queste ultime meglio note in Italia come Special Forces. «Scopo [delle Combined Operations] erano le incursioni in territorio nemico, con la partecipazione di poche centinaia (raramente alcune migliaia) di uomini; raggiunto l’obiettivo, si ritiravano. Scopo delle Special Operations erano invece le operazioni militari di lunga durata in territorio nemico, la guerra o la guerriglia permanente dietro il fronte: agivano potenziando (dove già c’erano, stimolandone lo sviluppo dove mancavano) movimenti di resistenza armata, non solo nei territori occupati, ma anche all’interno stesso della Germania e dei suoi satelliti. Lo scopo veniva raggiunto inviando missioni di uno o pochissimi uomini, i quali si mettevano in contatto con elementi locali e stabilivano comunicazioni regolari con la base in territorio occupato da truppe britanniche, per la richiesta, l’invio e la distribuzione di materiale di guerra» (pp. 113-114). Ogni Special Operation, si legge poco oltre, constatava di un primo momento di approccio col quale si prendeva confidenza con le forze del luogo e poi, in caso di esito favorevole, lo sviluppo di contatti regolari: «la missione poteva essere composta di personale esclusivamente britannico, di personale straniero arruolatosi volontariamente nelle forze britanniche, o di personale misto. […] Giunto a destinazione, il capo missione diventava ufficiale di collegamento con la Resistenza e la sua funzione era di assolvere, fra gli altri, tre compiti principali: assicurare contatti regolari tra l’organizzazione partigiana e la base; farsi interprete presso i partigiani delle decisioni del Comando alleato e presso gli Alleati delle necessità dei partigiani; prendere le misure del caso per l’arrivo di materiale da guerra e per la sua distribuzione» (p. 116). A partire dal dicembre 1941 anche gli Stati Uniti ebbere operazioni simili, gestite dall’Office of Strategic Services, ma queste – al contrario di quelle inglesi, che invece secondo Salvadori mantenevano distinti i due ambiti – si occupavano tanto di trasmettere informazioni quanto di creare collegamenti.

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Un episodio statunitense: i 20 della base di al Wattiyah.

Lasciando l’Europa e l’Italia di ieri per ritornare alla Libia di oggi, non appare impossibile che anche gli Stati Uniti

Personale militare statunitense alla base militare di Wattiyah, nella porzione di Ovest libico legata all'emisfero politico e militare di Tobruk. (Fonte: www.nbcnews.com via Libyan Air Force Facebook page)
Personale militare statunitense alla base militare di Wattiyah, nella porzione di Ovest libico legata all’emisfero politico e militare di Tobruk. (Fonte: www.nbcnews.com via Libyan Air Force Facebook page)

stiano in qualche modo cominciando a stabilire contatti con le forze libiche, anche se non sempre in modo proficuo e non sempre senza incertezze: come ricostruisce la statunitense NBC News, infatti, «un gruppo di commandos statunitensi che era atterrato in Libia lunedì [14 dicembre 2015] ha ricevuto l’ordine di partire quasi immediatamente a causa di una possibile confusione tra l’aviazione libica e l’esercito». Un anonimo ufficiale statunitense avrebbe confermato all’emittente connazionale che commandos statunitensi avrebbero «fatto dentro e fuori dalla Libia [già] da qualche tempo». In ambito anglosassone Salvadori utilizza proprio la parola «commandos» in riferimento alle squadre delle Combined Operations, suggerendo che l’origine del nome derivi dai «gruppi di guerriglieri che avevano agito durante la guerra boera all’inizio del secolo» (p. 113).

 

 

Rimane poco chiaro il motivo della subitanea partenza dei 20 – quanti sembra fossero – militari statunitensi appena atterrati in Libia alla base di al Wattiyah, nella porzione di Ovest libico affiliato a Tobruk, ma pare che alla base ci siano stati problemi di comunicazione o tra gli stessi statunitensi e l’esercito libico o all’interno delle diverse componenti di quest’ultimo.

D’altronde, scriveva un’ultima volta Salvadori riferendosi ovviamente ad un periodo storico, militare, politico e tecnologico diverso da quello presente, organizzare queste azioni, per così dire, d’avanguardia, era – e probabilmente è ancora – «azione assai difficile in pratica, che richiedeva in generale mesi e mesi (talvolta anni) […]» (p. 115). E una fonte del Ministero degli Esteri italiano avrebbe confermato le tempistiche ancora a Daniele Raineri del Foglio. Che scrive in un articolo di poco posteriore a quello già citato: «Questo tipo di prontezza operativa richiede un lavoro preliminare che dura come minimo mesi».


Profilo dell'autore

Alessandro Pagano Dritto
Il primo amore è stato la letteratura, leggo e scrivo da che ne ho memoria. Poi sono arrivati la storia e il mondo, con la loro infinita varietà e con le loro infinite diversità. Gli eventi del 2011 mi lasciano innamorato della Libia: da allora ne seguo il dopoguerra e le persone che lo vivono, cercando di capire questo Paese e la sua strada.

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