di Giovanni Gugg
Quando si parla di Burundi, la mente va subito alla spaventosa guerra interetnica divampata nella prima metà degli anni Novanta tra Hutu e Tutsi. Si tratta di una semplificazione di noi lettori esterni a quella realtà, perché il cosiddetto “conflitto etnico” è, piuttosto, la costruzione politica di una crisi che il più delle volte affonda in ragioni molto diverse, come la disuguaglianza sociale e l’erosione della rappresentanza. Inoltre va precisato che, come ha spiegato su queste pagine Valeria Alfieri, la costruzione dello “scontro etnico” e del “genocidio” si alimenta ampiamente del discorso che ne fanno i mass-media, ovvero del linguaggio che gli organi di stampa usano nel diffondere notizie, sia in ambito nazionale che internazionale.
Da diversi mesi, a proposito della crisi burundese, scoppiata alla fine del mese di aprile 2015 con imponenti manifestazioni popolari di opposizione al terzo mandato (incostituzionale) del Presidente della Repubblica Pierre Nkurunziza, serpeggia l’idea che dietro le tensioni e le violenze vi sia un atavico odio tra Hutu e Tutsi. Fino ad ora, però, si è riusciti sempre a smontare questa lettura che, più che semplicistica, è di vera e propria mistificazione della realtà: «le manifestazioni sono politiche, ed i partiti d’opposizione sono etnicamente misti», spiegava ancora Alfieri dopo un mese dall’inizio delle proteste. Dalla settimana scorsa, tuttavia, la questione è cambiata e l’incubo etnico si è riaffacciato più concretamente, anzi più inquietante che mai: in un recente documento riservato delle Nazioni Unite, trapelato alla stampa internazionale (VICE, RFI), è paventata, infatti, la terribile possibilità di un genocidio. Come quel dossier sia potuto uscire dall’ufficio peacekeeping è un mistero e, osserva il giornale francese “L’Obs”, c’è da domandarsi a chi possa giovare una tale operazione. In quel fascicolo «tossico» vi sono sostanzialmente due temi: in primo luogo vi è un’ammissione di impotenza nel caso le violenze dovessero estendersi dalla capitale all’interno del Paese e caratterizzarsi in chiave etnica, in secondo luogo vi sono delineati tre possibili scenari in cui potrebbe evolvere la crisi burundese, uno più infernale dell’altro. Ripropongo il quesito: a chi giova che tali notizie siano filtrate? Si tratta di minacce intimidatorie o di avvertimenti benevoli?
Entriamo nel dettaglio, ecco quali sono i tre scenari temuti dall’Onu.
Primo scenario: la situazione rimane stabile, con violazioni regolari dei diritti umani, anche da parte di polizia e forze di sicurezza. Le Nazioni Unite dovrebbero quindi condurre una missione di osservazione e sostegno, la cosiddetta Maprobu (Mission africaine de prévention et de protection au Burundi), che prevede l’impiego di 5.000 peacekeeper dell’Unione Africana.
Secondo scenario: si registra un aumento del livello di violenza dopo una spaccatura nelle forze armate o a causa di un assassinio politico. Gli scontri sono aperti, non vi è più alcun dialogo politico e la Maprobu non può gestire la situazione. Di conseguenza, la violenza si estende all’interno del paese e lungo le frontiere con la RDC e col Rwanda. Il numero di rifugiati raddoppia e l’emergenza umanitaria coinvolge 2 milioni di persone, l’economia crolla.
Terzo scenario: la violenza assume una dimensione etnica e si compiono crimini contro l’umanità, crimini di guerra e genocidio. Il Paese intero è in fiamme, coinvolgendo anche le nazioni vicine; e, data l’inadeguatezza della Maprobu e l’assenza di Caschi Blu delle Nazioni Unite, il Burundi è sostanzialmente lasciato al proprio destino.
Contrariamente a quanto potrebbe suggerire l’ordine numerico di questo elenco, il primo scenario è angosciante come i due successivi: in 9 mesi di crisi aperta, i rifugiati burundesi nei Paesi confinanti sono già 230mila (in condizioni di vita difficili e spesso costretti a combattere contro varie epidemie) e i morti ammazzati sono almeno 250 (ma secondo altri sarebbero oltre 400 o, addirittura, circa 900). Ma lo status quo è agghiacciante anche per altre ragioni: già si sono avuti esempi di omicidi di massa, come la strage del 12 dicembre 2015, quando in una sola notte sono state uccise 87 persone in un paio di quartieri della capitale o gli stupri compiuti dalla polizia, come denunciato dalle donne burundesi e come affermato anche dal Segretario Generale dell’Onu Ban Ki-moon (contestati dai filo-governativi) o, ancora, come la presenza di fosse comuni e altre violazioni dei diritti umani, come attestato in un rapporto di pochi giorni fa del Dipartimento di Stato degli USA.
In questo contesto che, appunto, è già ampiamente spaventoso, ieri a Bujumbura è cominciata una missione di mediazione dei membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Secondo alcuni, si tratta di «un fallimento annunciato», tuttavia, spiega l’ambasciatore degli USA presso le Nazioni Unite, Samantha Power, promotrice dell’iniziativa, si tratta di un tentativo necessario: bisogna persuadere il governo burundese ad aprire un dialogo con l’opposizione (ma bisogna convincere anche i contestatari), a permettere l’arrivo di una forza di peacekeeping dell’Unione Africana e ad accettare l’avvio di un’indagine indipendente sulle violazioni finora commesse.
Contrariamente a quanto annunciato dal Presidente Nkurunziza, il 2016 non promette niente di buono per il Burundi, tuttavia, come ha scritto Carina Tertsakian di “Human Rights Watch”, per quanto difficile e con poche speranze di successo, l’opzione diplomatica è l’unica strada per «tirare fuori il Burundi dal baratro».
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