Per uno sviluppo africano bisogna rinunciare a elemosina e cooperazione corrotta

“L’Africa non potrà mai sradicare la povertà affidandosi alla carità dei paesi sviluppati”. Partendo da questo assunto, detto e ridetto ma mai veramente attuato, Jean-Pièrre Honla, esperto di economia africana e di sviluppo rurale, ha deciso di costruire un network virtuoso che creasse ricchezza effettiva in Africa. Una risposta concreta, dal basso, all'”aiutiamoli a casa loro” che tanto piace a certa politica nostrana. Del resto sono i paesi più sviluppati del mondo ad attirare il maggior numero di africani in fuga della povertà: l’88% di africani in fuga vive in un paese sviluppato (sessanta anni fa era meno dello 0,3%). Necessità di fuggire a fame e guerre da un lato, cooperazione e carità che non funzionano dall’altro.

“Avevo notato che gran parte degli aiuti inviati in Africa dai paesi sviluppati contribuiva alla povertà, rendendo i destinatari dipendenti dagli aiuti e incoraggiando la corruzione tra i funzionari governativi. Con l’aiuto di altri che la pensavano come me, ho così sviluppato il ‘Back home investment‘ una metodologia di aiuto alternativa alla beneficienza, basata sulla realtà che la lotta produce forza (un atleta non diventa forte se l’allenatore fa attività fisica). I paesi africani possono mettere fine alla povertà solo se gli stessi africani si impegnano in industria, il commercio e le imprese che creano ricchezza sfruttando immense risorse disponibili sul continente”.

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Jean-Pièrre Honla

Nasce così African Plan, un’organizzazione creata per guidare i lavoratori migranti africani a scoprire le migliori opportunità di investimento ora disponibili nei loro paesi di origine. Attualmente African Plan coinvolge 2.700 operatori e ha 127 uffici in 15 paesi. “Il nostro obiettivo è quello di insegnare gli africani a fare affari e del commercio e non fare affidamento sugli aiuti esterni”, spiega Honla, che nel passato ha collaborato con le principali organizzazioni economiche mondiali. Un obiettivo che è anche un’accusa precisa: “Possiamo dire che l’intero sistema degli aiuti che l’Italia sta applicando in Africa è basato su una bontà che uccide“. Un assistenzialismo che è un fattore antropologico prima che economico: “Il desiderio di aiutare i poveri, è un fatto presente in così tante comunità da farci pensare che sia un fenomeno umano universale. È un concetto comune a tutte le religioni principali e probabilmente anche a quelle minori. Donare ai poveri o fare elemosine ci fa sentire bene, così tanto che noi ipotizziamo che i grandi donatori donano per soddisfare i lori bisogni e non quelli dei beneficiari in Africa”.

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Honla ha lavorato in molti paesi africani, tra cui Camerun, Burkina Faso, Etiopia, Liberia, Mali, Nigeria, Repubblica del Congo, Zambia e Tanzania, dove ha sviluppato l’idea che per eliminare la povertà bisogna creare ricchezza, perché “limitarsi a trasferire denaro (o macchine da cucire) da una parte all’altra è un rimedio solo temporaneo“. E in alcuni casi un danno: “La lotta alla povertà è un compito di grande responsabilità. Se non comprendiamo i fattori economici e sociali e le ripercussioni della nostra attività, rischiamo di procurare più danni che benefici. Ricordiamo il primo giuramento dei medici: ‘Non danneggerò deliberatamente nessuno’. Facciamo che sia anche il nostro principio guida”.

Se l’obiettivo di lungo periodo è lo sradicamento della povertà c’è da capire cosa si intendi per ricchezza. “Dovevamo trovare metodi per creare vera ricchezza come parte di un processo di crescita sostenibile. La parola ‘ricchezza’ non significa solo abbondanza di denaro e persone potenti ma significa tutto ciò che ha un valore, anche se piccolo, a cui il denaro dà una misura. È l’opposto della povertà, è il valore che sta dietro il denaro. E non possiamo produrre denaro dal nulla. Se introducessimo altro denaro nell’economia (per esempio stampando banconote) contribuiremmo a far crescere l’inflazione e a ridurre il valore del denaro. Se ci limitassimo a trasferire somme di denaro dai ricchi ai poveri (donazioni, elemosina), non creeremmo nuova ricchezza e non attaccheremmo le radici della povertà“.

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Il Back home investment sostiene che la carità fine a se stessa sia sbagliata, in quanto aumenta la povertà e ferisce i beneficiari. “Lo scopo della nostra metodologia è di eliminare la povertà senza far del male ai poveri. In Africa, aiutiamo i poveri lavorando con loro per toglierli dalla povertà, per farli diventare autonomi e forti. È un aiuto ben diverso dall’elemosina”.

Il premio, quindi, più che la carità. “Premiare persone per aver fatto qualcosa le forma a fare di più. Fare elemosina ad un mendicante fa in modo che chi la riceve continui ad essere un mendicante. Dare delle sovvenzioni ai funzionari di governo che si appropriano indebitamente di tale denaro fa in modo che questi continuino ad arricchirsi alle spese dei popoli. Scambiarsi doni tra Paesi fa sì che i funzionari beneficiari continuino ad aspettarsi tali doni e a chiederne sempre più. Apportare una latrina o un sistema di rifornimento idrico ad una comunità a basso reddito fa sì che i membri di tale comunità si aspettino più doni (solamente questo non li aiuta a creare e mantenere la struttura).

African Plan sviluppa le proprie  attività attorno all’accompagnamento dei futuri imprenditori africani in tutta la filiera di sviluppo dell’idea: dalla scrittura alla ricerca di fondi di investimento passando per l’elaborazione del business plan e la raccolta di fondi per partire. Per fare ciò lo staff di Holna monitora costantemente le dinamiche dell’economia africana e fa da tramite tra offerte e domande di lavoro tramite networking, newsletters ed eventi specializzati.

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Un progetto che dovrebbe catturare l’attenzione delle istituzioni, ma che finora fa fatica a sfondare il muro del preconcetto. “La reazione di collaborazione con le istituzioni italiane è negativa, così come l’informazione sull’Africa è ‘drogata’ dagli stereotipi: le catastrofi, la povertà, la mancanza di cultura. Fenomeni che ci sono, certamente, ma al pari di altre economie emergenti. Anche l’Italia del dopoguerra era così. Nessuno però pone attenzione sull’Africa globalizzata e internazionale, molto meritocratica, in cui tantissime persone hanno accesso a Internet, cellulari e tecnologie informatiche e si informano su quanto accade nel mondo. Dare poco spazio a questa Africa non è un male solo per gli africani ma anche per gli italiani, che non riescono a intravedere le grandi potenzialità di questo mercato e rimangono indietro”.


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