di Giovanni Gugg
La classifica 2016 sulla libertà di stampa, redatta da “Reporters Sans Frontières” e presentata pochi giorni fa, pone il Burundi al 156° posto su 180 al mondo, sopra al Rwanda, che è al 161° posto. Tali classifiche vanno prese con cautela perché vengono realizzate con metodologie controverse e parametri opinabili, eppure un’indicazione sullo stato di salute del giornalismo e della democrazia riescono comunque a fornirla. Com’è intuibile, la parte bassa della classifica indica tutte condizioni critiche, ovvero Paesi con gravi violazioni della libertà d’espressione, limitazioni dell’informazione e pressioni ai giornalisti, talvolta con esiti drammatici; tuttavia che nel 2015 il Rwanda sia sotto il Burundi appare alquanto singolare. Secondo l’associazione francese che elabora la classifica,
la censura è onnipresente in Rwanda, dove lo spettro del genocidio serve a giustificare i vincoli imposti ai mass-media da parte del governo. Coloro che criticano il governo rischiano la
galera, se non l’esilio. Nel 2015 sono state sospese le trasmissioni della BBC in lingua kyniarwanda, in seguito alla diffusione di un documentario televisivo sui massacri del 1994 perpetrati dal Front patriotique rwandais, gruppo armato ribelle allora capeggiato da Paul Kagame, l’attuale presidente in carica.
Per quanto riguarda il Burundi, invece, le motivazioni sono da ricercare innanzitutto negli attacchi ai mass-media nazionali, privati e pubblici, utilizzando armi da fuoco, prima di essere stati chiusi dal governo.
Esattamente un anno fa, il 25 aprile 2015, nel piccolo Paese africano deflagrò la più grave e violenta crisi dai tempi della guerra civile, negli anni Novanta. Lo si temeva da settimane e quel giorno arrivò la conferma: violando la Costituzione approvata nel 2005, il presidente Pierre Nkurunziza veniva candidato dal proprio partito, il CNDD-FDD, per un terzo mandato. Ciò provocò la sollevazione di interi quartieri di Bujumbura, che per giorni videro scendere per strada migliaia di persone: una situazione inedita per un Paese che in 10 anni aveva vissuto una quiete fragile, ma tutto sommato stabile. Le manifestazioni furono pacifiche, ma non mancarono violenze, specie da parte della polizia. Incredibilmente, però, fu l’esercito a garantire una certa sicurezza per gli oppositori, almeno fin quando, a metà maggio, proprio alcuni generali dell’esercito tentarono un putch durante un viaggio all’estero di Nkurunziza. Quel che nelle prime ore sembrò un passaggio di potere alquanto tranquillo, se non addirittura concordato, si rivelò, invece, una frattura profonda all’interno del corpo militare, dal momento che una parte dei soldati restò fedele al governo e non appoggiò i golpisti.
Foto di Benjamin Loyseau per UNHCR. Leggi il report completo su tracks.unhcr.org
Da allora la crisi burundese ha continuato ad aggravarsi: 260.000 persone hanno lasciato il Paese per rifugiarsi in campi profughi di Tanzania, Rwanda, RDC, Uganda, spesso in condizioni d’emergenza idrica e sanitaria (il dato si riferisce all’ultimo bollettino dell’UNHCR del 22 aprile 2016), centinaia i morti (secondo alcune stime di minima, almeno 400, di cui 22 bambini), migliaia gli arrestati (almeno 5000, di cui una parte rilasciata in seguito alla visita di Ban Ki-moon lo scorso febbraio), violazioni dei diritti umani e torture effettuate con crescente spudoratezza (almeno 345 casi dall’inizio dell’anno), sparizioni, esecuzioni sommarie, fosse comuni e, almeno in un caso, un
eccidio scioccante (la mattina del 12 dicembre 2015 per le strade di Bujumbura furono ritrovati 87 cadaveri di manifestanti e oppositori), delle elezioni senza alcuna garanzia sostanziale (boicottate dalle opposizioni), l’economia nazionale completamente bloccata (il Burundi è già tra i Paesi più poveri del pianeta e la penuria alimentare è arrivata anche nella capitale), la cooperazione internazionale sospesa (innanzitutto da parte del Belgio e della Francia, ma anche dell’UE e altri organismi statali o sovra-governativi), la considerazione diplomatica affossata (sia l’ONU che gli USA hanno ripetutamente deprecato le sistematiche violazioni del governo burundese, addirittura Barack Obama stesso ha pronunciato un discorso contro l’arroccamento di Nkurunziza), delle crescenti tensioni con il Rwanda (accusato di fomentare i ribelli burundesi, come abbiamo riferito su “Frontiere News”).
Come ormai capita sistematicamente nei Paesi dittatoriali in cui erompono delle contestazioni, anche in Burundi si è tentato di far tacere i social-media, ma la pressione internazionale lo ha evitato: facebook e twitter, infatti, hanno avuto un ruolo considerevole non tanto nell’organizzazione e nel coordinamento delle proteste (la connessione internet è alquanto precaria e poco diffusa tra la popolazione), quanto piuttosto nell’informazione e nella comunicazione con l’esterno del Paese. Ciò si è reso particolarmente utile in seguito ai ripetuti attacchi governativi alle principali radio nazionali (il primo media del Burundi) e ai giornalisti più impegnati e influenti (alcuni anche stranieri e attivisti per i diritti umani, nonché, recentemente, anche un umorista). Così, sono state dapprima censurate, poi fisicamente chiuse, se non devastate, le sedi di Radio Bonesha, Radio Renaissance, Rema, Radio Isanganiro, RTNB e, soprattutto, Radio Publique Africaine.
Ed è su questo che, tornando alla classifica di “Reporters Sans Frontières”, si legge una motivazione da ultimo posto mondiale:
La repressione contro i mass-media è quotidiana e assume forme diverse, dalla persecuzione giudiziaria ai colpi d’arma da fuoco contro le radio private per obbligarle a chiudere. Gli arresti arbitrari dei giornalisti e l’interdizione dei loro media si moltiplicano. Coloro che denunciano gli abusi del regime autoritario di Pierre Nkurunziza, al potere da 10 anni, rischiano ogni giorno torture e percosse. Un organo di regolamento della stampa esiste, ma non opera da molti mesi.
Allo scadere del suo primo anniversario, la sanguinosa crisi del Burundi continua ad essere inquietante: fino ad ora, nonostante le brutalità commesse, si è evitata un’aperta guerra civile e anche i tentativi di etnicizzare il conflitto non hanno, per fortuna, (ancora?) attecchito, ma i terribili scenari indicati dall’ONU non sono scongiurati e le tensioni sono costantemente sul punto di divampare nell’irreparabile.
Resta, sebbene ad un prezzo elevatissimo e con una speranza sempre più esile, la voglia di democrazia da parte della generazione post-genocidio, quella dei ventenni e dei trentenni cresciuti in un clima più aperto e plurale, che attraverso coraggio, caparbietà e poesia continuano a credere nella possibilità della convivenza e della libertà.
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