di Luis J. Rodriguez
Ricordo che una volta, quindici anni fa, appena tornato a Los Angeles da Chicago, camminavo lungo una strada della San Fernando Valley quando da un piccolo Ford pick-up che mi sfrecciava accanto mi arrivò la sparatoria di parole dal tipo che sedeva dal lato del passeggero, “Hey! messicano… tornatene da dove sei venuto!”
Questi li chiamo ‘insulti razzisti sparati a caso dalla macchina che ti sfreccia accanto’.
Me ne sono beccati parecchi nel corso degli anni, a prescindere dal fatto che io sia nato in Texas e che discenda anche dalla tribù Tarahumara, dello stato di Chihuahua e da indigeni dello stato di Guerrero che parlano il Nahuatl (come pure lo spagnolo e qualche lingua africana). Chissà perché, ma queste persone ritengono che il mio posto non sia qui, che non sia questa la mia appartenenza.
Un’altra volta, durante un incontro di quartiere pieno di tensioni a South Central, Los Angeles, la parte più povera della città abitata prevalentemente da afroamericani, alcuni abitanti del posto accusarono gli immigrati messicani di rubare loro il lavoro.
L’accusa poggia su una base concreta: gli afroamericani, cittadini statunitensi per forza, con alle spalle 400 anni di schiavitù, seguita da segregazione e poi dallo status di cittadino di seconda classe, hanno perduto milioni di posti di lavoro a causa della deindustrializzazione che già a metà degli anni 70 del secolo scorso ha colpito le città industriali in cui abitavano, città come Los Angeles, Chicago, Detroit, Philadelphia e tante altre. Tale processo ha poi subito unaescalation durante l’amministrazione di Reagan negli anni 80. La perdita di posti di lavoro ha naturalmente fatto sentire il suo impatto anche sulla classe operaia bianca come pure sui Chicanos e su altri di discendenza latinoamericana che sono qui da generazioni – e molti di essi, perfino persone con cognome spagnolo, hanno fatto eco a quel sentire che potremmo denominare “tornatene a casa tua” .
Sempre negli anni 80, mentre si verificavano i processi delineati sopra, si assisteva anche al più massiccio influsso di migranti e rifugiati, il maggior numero dei quali proveniente dal Messico, a causa dei grandi sconvolgimenti economici e dell’enorme svalutazione del pesos in quel paese. A questo si aggiungevano le guerre civili in El Salvador, Guatemala e Honduras, conflitti e genocidi come quello della Cambogia, le svolte politiche e ‘le pulizie etniche’ nell’Europa dell’Est. Il mondo era in subbuglio, moltissime persone provenienti dai paesi dell’Est e del Sud del mondo finirono in numeri massicci in Europa e negli Stati Uniti, le economie più sviluppate. In Europa, gli immigrati non erano messicani o centro-americani, ma africani, arabi, indiani o slavi.
E il nostro esilio – i nostri spostamenti da casa, famiglia, piccoli appezzamenti di terreno alle grandi città nella maggior parte, in città industriali o orientate ai servizi (sweat shop, fabbriche, edilizia ma anche servizi di pulizia negli hotel, nelle case o nei giardini) ha avuto dei paralleli in altre parti del mondo.
A Parigi, nei primi anni 90, io e mia moglie Trini visitammo un centro per donne franco-arabe dove incontrammo dei rifugiati palestinesi in grado di comprendere le lotte dei messicani, esiliati nella propria terra, costretti a sopportare varie forme di apartheid, dopo che più di metà del proprio territorio era stato occupato attraverso un’invasione degli Stati Uniti dal 1846 al 1848,- per non parlare del furto vero e proprio delle terre delle popolazioni indigene dal 1492 . Proprio come la Palestina.
Palestina Libera! Nativi americani liberi! Messico libero! Libere tutte le nazioni prigioniere!
Il capitalismo oggi è più tecnologicamente avanzato e sta inghiottendo le nazioni meno sviluppate. Ciò ha come risultato grandi sconvolgimenti a livello mondiale che ha costretto un numero ancora maggiore di persone a lasciare il proprio paese, compresi paesi in cui erano insediati da secoli in culture e famiglie intrecciate in maniera complessa.
La risposta quindi non è di designare gli immigrati come capri espiatori per il nostro malessere, ma di arrivare alla radice delle cause della crisi mondiale che stiamo affrontando: una economia capitalista globale con mercati finanziari ed economie integrate, insieme a guerre genocide e per il potere, che hanno distrutto le capacità umane e naturali all’interno dei paesi più poveri, rendendo sempre più difficile la sopravvivenza dei lavoratori di qualsiasi nazionalità.
Dobbiamo esaminare la vera fonte del problema – una classe dirigente sempre più ridotta e più ricca e una crescente classe operaia sempre più povera, con uno smisurato abisso in mezzo. Possiamo anche vivere dentro gli stessi confini, ma come classe abbiamo sempre meno in comune.
In questo volume The Border Crossed Us: an Anthology to End Apartheid * i poeti intervengono contribuendo immagini, metafore e versi che insegnano ed illustrano i dilemmi e le ingiustizie che stanno alla base della questione immigrazione.
Questa antologia raccoglie sia poesie di dolore che di rivalsa, come quella di Dorothy Payne “Allora con le parole ardenti di donna/ e un incendio incontrollato di vendetta/ riporterò alla luce le madri dalla loro sepoltura/ e cullerò gli uomini bruni/ che pendono ancora dai rami/ per riportare alla salute la terra/una nazione senza confini/ o la poesia di Antonieta Villamil: Dì che porto alla vista/ l’occhio del ciclone / e sotto le unghie / la terra / che non ho potuto scavare per i miei morti./
Il volume contiene odi alla Striscia di Gaza, all’Honduras, al Texas del Sud, alla Colombia, al Sud Africa, alle Primavere Arabe, a Los Angeles, alle terre indigene, e altro ancora. Ci sono poesie in arabo ed ebraico. Inglese, spagnolo e angoscia. Da ogni parte di questa nazione e anche da altre, da confini “senza fine” a poesie senza fine.
Poesia intrisa di storia e di mistero.
E la frontiera, allora? Le frontiere sono illusioni costruite dall’uomo per catturare i mercati domestici, esse hanno portato alla morte o alla devastazione di milioni di persone a beneficio di poche. I confini e le ideologie, i sistemi di valori hanno provocato più danni all’umanità in quanto rispecchiano le relazioni di classe che sorgono da fondamenta tecnologiche sempre più complesse.
Per i messicani e gli abitanti dell’America centrale che sono geneticamente e storicamente legati alle cosiddette culle delle civiltà mesoamericane (nella storia umana ve ne state solo sette: le altre sono la Cina, la Nigeria, l’Egitto, la Mesopotamia, la valle dell’Indus e il Perù) si tratta solo di un ritorno a casa, seguendo piste di migrazione che precedono di decine di migliaia di anni la conquista degli europei.
Purtroppo, le dinamiche di classe e di razza finiscono per capovolgere ogni cosa. Adesso uomini e donne dalla pelle scura che hanno le radici nelle popolazioni indigene (a prescindere che le riconoscano o meno) e che hanno legami a questo continente da più tempo degli altri, sono diventati “stranieri”, “clandestini” ed “estranei”
E’ possibile però ristabilire l’equilibrio. Possiamo allineare le economie e le culture in modo da assicurare un sano sviluppo sociale per tutti. Per arrivare a questo occorreranno visione, strategie, organizzazione, pianificazione, ed uno studio maturo. Per adesso ascoltiamo i poeti. Sono portatori di queste verità e lo fanno attraverso la bellezza, la lingua e le loro appassionate argomentazioni. Sono portatori di queste verità nonostante tutto, e sono quelle le venature nel legno che dobbiamo seguire.
Alcune delle poesie incluse in “The Border Crossed Us” possono essere lette su La macchina sognante, una rivista di scritture dal mondo. Ogni settimana Frontiere News pubblica un saggio selezionato dalla redazione de La macchina sognante.
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