La voce delle donne sufi in Senegal

di Ali Colleen Neff, antropologa

Dakar è una città florida. Dalla soglia del mio appartamento nella Medina, riesco a sentire la vita della città pulsare dalle sue alte mura di mattoni di fango, elevarsi dalle sue strade, propagarsi dai suoi altoparlanti.

Le cinque chiamate quotidiane alla preghiera, pronunciate da centinaia di muezzin locali durante le ore sante, si fondono con i vibranti suoni dei mercati all’aperto. Questa città trabocca di voci.

Ogni interazione nella cultura Senegambiana, soprattutto nell’affollato contesto urbano, richiede una speciale “danza comunicativa”: un saluto ai parenti, una trattativa, una formalità, un commento spiritoso, una risata, un elogio, una benedizione. Le attività fonografiche qui a Dakar sono intrecciate ancora di più nella musica e nel canto che, in questa città di suoni, si sovrappongono tra loro in ogni angolo, poliritmicamente. Vivendo e lavorando qui, riesco a distinguere una voce speciale tra le altre: la voce di una donna dal fiero tenore wolof. È un canto sufi influenzato da note spirituali locali, un continuo chiamare e rispondere, un labirinto di intense improvvisazioni. Permetto a questo suono di invadere casa mia. Negli anni trascorsi qui a Dakar, ho imparato a canticchiarci sopra, a memorizzare i suoi picchi tonali e a impostare le mie attività quotidiane su questi ritmi. Mi fa entrare in sintonia con me stessa.

Le acrobazie sonore della cantante sufi Sokhna Khady Ba guidano i fedeli alla riflessione spirituali e si propagano ovunque, dagli altoparlanti delle automobili alle case private. La città ha un vero e proprio “impianto audio sufi”.

Prima di avviare i loro canti notturni, i membri delle dahria di quartiere – gruppi di persone che ogni settimana si incontrano per strada per discutere di fede e realizzare vocalizzi rituali – fanno il sound check dei loro altoparlanti presi a noleggio con i cd di Sokhna Khady. Negli affollati quartieri di artigiani, la voce di Sokhna Khady si intreccia perfettamente con il tessuto fonografico di cui è composta l’essenza della città, risaltando però in modo inconfondibile. Ben prima di essere riuscita ad assistere ai suoi canti notturni, la voce di Sokhna Khady mi ha accompagnata nel mio lavoro: il suo timbro unico percorre le vie della città e la riempie di vita.

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Questa è antropologia del suono: un approccio fonografico a una cultura e al popolo a cui appartiene. In questo mondo la fede di Sokhna Khady dà vita al corpo culturale di Dakar attraverso lo strumento della voce. Ho avuto modo di condurre ricerche approfondite sulla cultura musicale senegalese, e ho scoperto che esercita un ruolo fondamentale in tante dinamiche della vita quotidiana nel paese post-colonialismo. Funge da luogo per la ridistribuzione rituale della ricchezza, nonché da piattaforma per i dibattiti politici. E, cosa ancora più importante, è essenziale per l’ecosistema sociale in cui il popolo senegalese lotta per vivere oltre la povertà e il sottosviluppo causati dalle dinamiche post-coloniali. Per me è stato difficile, inizialmente, percepire la valenza politica delle donne sufi – espressa con poesie, canti rituali, odi bardiche e danze tradizionali (soprattutto se paragonata a quella di famosi gruppi hip-hop i cui membri sono impegnati in lotte politiche), eppure il popolo senegalese la considera di fondamentale importanza culturale.


Sokhna Khady è una zikrkat, una cantante il cui lavoro è quello di lodare Allah, di cantare poemi rivolti a figure cardine dell’Islam e della spiritualità sufi. Le sue melodie improvvisate parlano di come condurre una vita piena e devota, mettendo insieme le varie sfaccettature dell’Islam dell’Africa Occidentale in un unico tessuto vocale. Nella dahria di Baay Fall, che ogni settimana attira centinaia di gruppi diversi, la folla di fedeli si unisce in cerchio, al centro del quale vi è la zikrkat. I fedeli seguono i canti rituali della cantante, spendendo la notte danzando in preda all’estasi.

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Tassisti, proprietari di eleganti boutique, casalinghe: le sue note colorate spazzano via le differenze dei luoghi e dei volti di DakarSostenuta da un instancabile gruppo di percussionisti e accompagnata da alcune giovani cantanti, quella di Sokhna Khady è una delle poche voci femminili a essere propagate dagli altoparlanti di Dakar. Ma non l’unica.
Le voci delle donne di Dakar contribuiscono alla formazione di una solida cultura collettiva, di un sistema in cui il popolo del Senegal riesca a disegnare un futuro condiviso. Partendo dall’eredità della conoscenza indigena del suono, della voce e della socialità.
La politicità intrinseca della creazione musicale emerge negli spazi che esistono tra il significato delle parole (espresse oralmente o strumentalmente) e la materialità sensoriale del suono. I musicisti in questione, esperti tecnicamente e preparati culturalmente, contaminano la propria esecuzione con rappresentazioni di tipo estetico, politico, teoretico e spirituale. Spesso lo spettatore esterno non riesce a cogliere tutte queste sfaccettature. John Coltrane descrive questo approccio integrale in termini di conseguenze cognitive:
“Dovremmo provare a migliorare, in questo. L’impegno sociale, la musica, le battaglie politiche… rappresentano la stessa cosa, in qualsiasi aspetto della vita. La musica non è che uno strumento. Può dare forma a dei modelli di pensiero che possono cambiare il modo di ragionare delle persone”. (Kofsky, 1970: 227)
Questa nozione di musica come strumento per il cambiamento sociale è, in parte, una conseguenza della sua densa e incontenibile sensualità che, raggiungendo l’orecchio umano e battendo sul tamburo cocleare, si interseca con il ritmo del cuore. E, per Coltrane, anche con i movimenti del pensiero.
[Traduzione dall’inglese a cura di Valerio Evangelista]

Foto copertina: Sokhna Khady Ba guida i fedeli in un canto rituale, nella strada davanti la sua abitazione a Dakar, circondata da coriste e percussionisti. Foto di Ali Colleen Neff
Qui potete leggere il saggio di Ali Colleen Neff  “Voicing the Domestic: Senegalese Sufi Women’s Musical Practice, Feminine Interior Worlds, and Possibilities for Ethnographic Listening“.

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