Viaggio nell’isola di Cipro, da 42 anni divisa da una linea verde dell’Onu e da una diversità di lingua, cultura, religione e tradizione. Greci-ciprioti a sud, turchi-ciprioti nel nord, condividono la stessa terra senza essere connazionali.
Testo di Martina Martelloni – fotografie di Michele Cirillo
(fotogallery in fondo all’articolo)
Una grande isola è capace di nascondere storie antiche e leggende secolari. Tra i paesaggi morbidi del mare e l’irruenza delle montagne, Cipro è terra mitologica.
Si narra della nascita di Afrodite tra le sue acque, dea della bellezza e dell’amore che ha reso quest’isola magicamente senza tempo.
Succede, poi, che i miti ed i racconti dei vecchi ciprioti trovino forma in una realtà fatta di guerra e di poteri contrastanti, di popoli diversi culturalmente e religiosamente, di sapori e tradizioni vittime di divisione, colpevoli di quell’essere differenti gli uni dagli altri e, dunque, non meritevoli di essere un’ unica entità sociale. Una sola isola.
Cipro ha radici lontane, che parlano lingue straniere mai dimenticate. Divenuta Repubblica indipendente nel 1959, ponendo così fine alla sovranità britannica, questa terra fa invidia ai tre continenti circostanti; Europa, Asia ed Africa.
Due sono i principali paesi ombra, Grecia e Turchia, da sempre “protettori” delle due comunità di riferimento.
Vicissitudine storiche del secolo XX, tra lotte interne e tentativi falliti di riconciliazione, questo è stato il pesante bagaglio che la popolazione isolana ha trascinato con se per molti, moltissimi anni. Dal luglio del 1974, Cipro è divisa in due entità. In quel mese, un colpo di stato della giunta militare allora al potere in Grecia, diede forza ad una Turchia da tempo nemica. L’esercito turco si addentrò nell’isola prendendo il controllo della parte settentrionale, proclamando così la Repubblica turca di Cipro Nord.
Ancora oggi, attraversando le strade cipriote, saltano agli occhi i segni di una guerra che ha diviso un popolo e la sua terra.
Lefkosia, anche conosciuta col nome di Nicosia, è una capitale senza tempo.
La Green Zone è più invasiva che mai. L’ONU non ha mai lasciato la città, e ne tanto meno il resto dell’isola. Da quel 1974 il filo spinato e le torrette militari siglate UN, dominano l’orizzonte.
Il passaggio dalla zona greca a quella turca è disarmante. L’occidente globalizzato si fa bello nelle vetrine e nei locali della Nicosia europea, ma bastano dieci metri di passaggio e, varcata la linea di separazione con un fugace controllo dei passaporti, tutto assume un’altra forma.
Spazi abbandonaB, palazzine ancora distrutte da una guerra ingiusta, lasciano pensare che qui, nella parte turca della città, il tempo si sia fermato.
Risuona il canto del minareto che richiama alla preghiera quotidiana, si può sentire da entrambe le parti, ma sono i musulmani turchi a recarsi nella Moschea dell’Arabam Zone.
Nessuno ha mai più ricostruito questa città sofferente. In 42 anni, quei tetti e quelle mura mostrano ancora crepe e scale che non portano da nessuna parte.
Un’intero quadrato della vecchia città di Nicosia è sotto controllo militare nonostante tutto intorno, un parco poco curato, raduna giovani e vecchi per condividere un caldo caffè turco. In questa capitale divisa, i bambini girano in bicicletta tra macerie e buche mai asfaltate. Il rosso ed il bianco della bandiera turca sono gli unici colori che danno vita al grigio sabbia delle case. Si vive un’aria nostalgica fatta di passate ere gloriose e ritratti di un eroe storico per il popolo turco, Mustafa Kemal Atatürk è nei graffiti e nei quadri appesi all’esterno dei negozi e dei palazzi istituzionali, nelle alte statue situate sulle cime di una montagna che ostenta la fine del territorio greco e l’inizio della cultura ottomana.
Marius è un cittadino greco cipriota, ha 41 anni velati da una barba fin troppo ingrita e da un volto segnato dal sole. Conosce Nicosia come le sue tasche, ogni strada ed ogni residente sono per lui consuetudine quotidiana frutto di un passato da dipendente governativo e di un presente da vagante disoccupato nella città.
Gran parte del suo tempo, oggi, lo trascorre in campagna tra il suo orto e i suoi animali, tutt’altra vita da quella che, in un tempo non troppo distante, si augurava di vivere. “Ho ancora una speranza per il mio paese e per il mio popolo, quella di tornare uniti. La pace prima o poi dovrà tornare a Cipro”. Marius si muove come un guardiano nella sua terra, apre porte e serrande sconosciute ai turisti. Mostra pavimenti distrutti e attrezzi arruginiti di vecchie botteghe ed officine degli anni della guerra. Oltre le mura distrutte, un grande foro ora ricoperto di macerie, è stato per molti conduttore di salvezza nelle notti buie della guerra permettendo passaggi da una parte all’altra della città.
Lo scenario circostante non è ausilio utile per le due comunità. I fatti in Turchia, conseguenti il fallito golpe militare dello scorso 15 luglio, acutizzano i silenzi e le diffidenze.
Il presidente turco Recep Erdogan tende gradualmente la sua mano sull’isola di Cipro, parla di volontà nel trovare “una soluzione giusta e permanente nella prolungata questione cipriota”, utilizza il termine “uguaglianza politica” per i turco-ciprioti. Nonostante, ad oggi, non appare nessun concreto tentativo di incidenza, il popolo cipriota teme ripercussioni invasive sulla loro terra.
Attualmente, lo stato di avanzamento dell’unificazione dell’isola sembra essere entrato in una fase di accellerazione con la riapertura di un dialogo risolutivo. In questi giorni il leader turco- cipriota Mustafa Akinci ed il presidente greco-cipriota Nicos Anastasiades sono nuovamente seduti attorno al tavolo della sede ONU a New York. Con loro, ogni speranza e desiderio di futuro per un’isola dai ricordi lontani.
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