Cittadinanze postmigratorie nella crisi dell’Europa dei confini

di Stefano Rota – Associazione Transglobal

Esiste un legame di forte continuità epistemologica tra cittadinanze postcoloniali e cittadinanze postmigratorie. In entrambi i termini, il prefisso “post” non definisce un “oltre”, ma, al contrario, individua un momento costitutivo che continua a vivere, sia pur con caratteristiche e conseguenze differenti.

Il postcolonialismo definisce lo spazio geopolitico, sociale e culturale al cui interno le cittadinanze postmigratorie dispiegano modelli di agire che vanno dalla condizione di soggetto in sé, a quella “per altri”, fino alla costituzione di un soggetto per sé, come classifica Elster il percorso che conduce alla produzione di un’agency, a cui corrisponde una soggettività piena.  I movimenti che ne conseguono rendono più che mai attuale e urgente il ripensamento degli schemi che sottendono alla costituzione del modello di cittadinanza che vige in Europa.

Molti studiosi della condizione postcoloniale hanno descritto in modo compiuto e assolutamente condivisibile la forma che assume la cittadinanza nel nostro tempo contemporaneo. Il punto di partenza è dato dall’assunto che la fitta e variegata rete di relazioni che definisce i rapporti tra le diverse aree del pianeta globalizzato, così come all’interno di ciascuna di queste, si colloca in una linea di diretta continuità con quelle reti governamentali politiche, economiche e culturali  che hanno costituito e tracciato (in tutti i sensi) la forma del mondo nell’era coloniale. Viene individuata, quindi, nella struttura piramidale e frammentata della cittadinanza, a poliedrica esclusione, o a differenziata inclusione (Mezzadra e Neilson, 2015), che si dispiega all’interno di questo contesto e quelle relazioni, l’elemento costituente la cittadinanza postcoloniale (Mellino, 2012; Rigo, 2007).

Come ci hanno spiegato gli stessi studiosi, il “post” non sta a indicare il superamento di una condizione relegabile a un passato che non ha più attinenza con il nostro presente, ma, al contrario, l’assenza del trattino tra prefisso e aggettivo serve a sottolineare proprio la continuità di cui si è detto prima. Una precisazione questa che credo possa essere utile anche nell’interpretazione di quanto vorrei provare a discutere tra poco.

La cittadinanza postcoloniale rappresenta, quindi, l’angolo di visuale da cui interpretare, con le armi della critica radicale, la composizione del mondo globale, le scelte in materia di politica migratoria da parte degli stati europei e dell’Unione nel suo insieme, la crisi dell’Europa stessa come spazio di democrazia, messa in discussione dalla pressione e dalle scelte dei nuovi flussi migratori, dalla crisi del multiculturalismo e delle sue declinazioni nazionali; finanche, la crisi del modello stesso di cittadinanza che si vuole vedere alla base della costituzione dello spazio europeo. Le continue, macchinose e opportunistiche distinzioni tra chi può e chi non può entrare, le suddivisioni tra cittadini totali (autoctoni titolari della cittadinanza), quasi totali (non autoctoni ma titolari della cittadinanza), semi cittadini (migranti europei), aspiranti cittadini (possessori della carta di soggiorno CE), fino al limbo della condizione di straniero regolarmente soggiornante (con permesso di soggiorno, richiedente asilo, rifugiato, costantemente a rischio di scadenza) e, ancora più giù, tra le fiamme dell’irregolarità e clandestinità, la cui “illegalità” viene “legalmente prodotta”, come sostiene Nicholas De Genova, rappresentano le logiche di frammentazione su cui si basa il modello di cittadinanza vigente. La proliferazione di questi confini contribuiscono a definire l’urgente necessità di ripensare la cittadinanza in Europa su basi radicalmente altre, che “vadano oltre le stratificazioni codificate nella nozione stessa di Stato-nazione di origine coloniale ed estese ai sistemi di governance europea”, che definisce la condizione “interna e semi-trascendentale di cittadino”, basata sui paradigmi antitetici, ma non autoescludenti, di conflitto e traduzione, secondo la lettura che ne fa E. Balibar (Balibar, 2014).

Facendo un passo in avanti, si può affermare che l’agire dei cittadini in costante movimento tra questi confini, sia all’interno sia all’esterno dello spazio europeo, assume il connotato di agency, di atto del soggetto: la sua riconoscibilità, “rispondibilità” (answerability) e “rottura” non ci riportano alle ragioni codificate, razionalmente attese, dell’agire (che produrrebbero solo delle performaces di azioni). Sono atti di cittadinanza riconducibili a una chiara soggettività politica (E. Isin, 2012).

È da questo punto che mi sembra si possa partire per provare a definire la “cittadinanza postmigratoria”. Riprendendo quanto detto per il termine postcoloniale, anche in questo caso si intende utilizzare il prefisso “post” per indicare non il superamento tout court della condizione di migrante, ma, al contrario, il suo persistere all’interno della trasformazione della soggettività che esprime, costantemente ridefinita in risposta e contrapposizione a politiche, pratiche sociali, economiche e culturali che formano, rafforzano e moltiplicano i confini e le divisioni di cui si è detto.

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Se la definizione di cittadinanza postcoloniale è fondamentale dal punto di vista epistemologico per la comprensione degli scenari sopra descritti, mi sembra che la cittadinanza postmigratoria aiuti a definire le pratiche soggettive che vi si esprimono, in relazione e costante tensione tra gli elementi di identità culturale, rappresentazione, agency, da un lato, e spazio geopolitico, confini interni ed esterni, materiali e immateriali, politiche nazionali e sovranazionali, dall’altro.

Lo spazio in cui la cittadinanza postmigratoria trova maggiore visibilità è quello definito dalla ricomposizione del globo secondo intersezioni, “regioni”, “striature” (Mezzadra S., 2008), che lo fanno apparire tutt’altro che “liscio”, come hanno sostenuto, o auspicato, in passato tanti fautori della fine delle differenze nella globalizzazione. E’ attraverso queste regioni che i cittadini postmigratori si muovono nell’arco di decenni, con crescente facilità e multi direzionalità, svuotando di significato le definizioni di “circular migration” e “return migration”. Sono regioni che uniscono aree dei continenti asiatico, africano e sudamericano alle metropoli ipercapitaliste della Cina, Taiwan e Singapore, agli stati del Golfo, alle città europee, per prolungarsi fino al Nord America, Australia e ricongiungersi di nuovo alle prime.

Le “seconde migrazioni” sono espressione diretta di un agire con senso soggettivo riconoscibile, che sta dentro alle pratiche di “cittadinanza postmigratoria”. Perché “seconde migrazioni” e non le definizioni mainstream di return migration e circular migration? Proprio per il loro carattere temporaneo e mutevole: definirle semplicemente come “seconde”, aiuta a descrivere le migrazioni come un processo aperto, indeterminato, imprevedibile e “disordinato”, di cui neppure i diretti interessati sono in grado di prevederne gli esiti ed eventuali successivi passaggi.

Ciò che connota l’agency del soggetto che decide (per sé o per i propri familiari) di intraprendere un ulteriore spostamento, a distanza di dieci o vent’anni da quello “costitutivo”, è la riproduzione, modificata e tradotta sulla base di nuove esigenze e scenari, di identità migranti. Non sono mai unitarie, ma frammentate e divise; mai singolari, ma “costruite in molti modi mediante discorsi, pratiche e posizioni diverse”. Scaturiscono dalla narrativizzazione del Sé: sono il “punto d’incontro, di sutura, tra – da una parte – i discorsi e le pratiche che cercano di interpellare, di parlarci o di sistemarci come soggetti sociali di determinati discorsi, e – dall’altra – i processi che producono soggettività, che ci costituiscono come soggetti che possono essere ‘parlati’”  (Hall, 2006).

Nazim e Hanif sono due cittadini italiani di origine bangladese. Vivono entrambi a Torpignattara, uno dei quartieri più multietnici di Roma. Mi sembra che  la loro testimonianza (raccolta a giugno del 2014, di cui si riportano qui solo due brevi passaggi) consenta di comprendere in modo abbastanza chiaro il significato di quanto è stato descritto sopra.

Sono in Italia da oltre vent’anni, ho due figli nati qui e due mesi fa ho perso il lavoro. Come posso pagare l’affitto di 1.200 euro e mantenerli? Ho deciso di mandare la mia famiglia al paese [in Bangladesh] e di andare a cercare lavoro da solo in un altro paese. Non so ancora quale, ma sto pensando alla Polonia. Lì c’è lavoro: ti pagano 800 euro. Già tanti stanno andando in Polonia dal Bangladesh. Anche da Roma sono partite ultimamente otto persone, tra cui Jalal e Ramadan. […] Gli ultimi tempi avevo una funzione di supervisore come elettricista. Gli italiani e i rumeni non volevano avere un supervisore straniero. Gli ho detto che ero italiano anch’io, ma niente. Forse anche per questo ho perso il lavoro. Non voglio che i miei figli vivano una situazione simile”.

Sto pensando di andare a Londra. Ci sono già almeno una settantina di amici miei là. Mi chiamano sempre per dirmi di andare. Mi chiedono cosa faccio ancora qui, in Italia, senza lavoro e con due figli da mantenere. Il tempo di sistemare la famiglia qui con dei familiari e mi trasferisco io da solo, almeno per il momento. Appena trovo un lavoro, li faccio venire tutti a Londra. I miei figli sono nati in Italia e sono italiani (anch’io ho la cittadinanza italiana), ma cosa possono fare qui in futuro? A Londra se studiano possono andare a lavorare in una società, un ufficio. Qui, anche studiano, vanno a fare i lavapiatti o lavorano in un negozio”.

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Cittadini quasi totali, si diceva (ma forse questa definizione andrebbe rivista verso il basso); identità come momento di sutura tra le pratiche che consentono di parlare, collocare i soggetti sociali (“non volevano avere un supervisore straniero”) e  i processi che riproducono la soggettività migrante (“Ho deciso di mandare la mia famiglia al paese [in Bangladesh] e di andare a cercare lavoro da solo in un altro paese”; “qui, anche se studiano, vanno a fare i lavapiatti”) a distanza di oltre vent’anni dal primo spostamento migratorio.

Bithy e Tasmia sono due donne, madre e figlia (Tasmia è nata a Roma, nel quartiere di Torpignattara), che si sono trasferite a Londra da Roma. Questo è uno stralcio dell’intervista fatta con Viber:

“Lasciare mio papà, i miei amici mi è dispiaciuto, ma so che, se voglio costruirmi un futuro, devo stare qui. Rispetto a Roma ci sono molte più possibilità. Per il resto, Mile End [sobborgo di East London] non è diversa da Torpignattara: ci sono tantissimi bangladesi, indiani, pakistani, bangladesi italiani, ma anche italiani italiani, poi spagnoli, portoghesi. Ci sono dei ragazzi italiani nel mio palazzo, ma non li ho ancora conosciuti.

Sono tantissimi i bangladesi italiani che arrivano qui: […] vanno a lavorare nei ristoranti, nei bagni pubblici, nei negozi di vestiti. Non sono lavori buoni: se il padrone è bangladese o indiano, guadagni meno, ma almeno hai un lavoro. E poi ci sono i benefits dello stato.”

“Sai cosa mi viene in mente, sentendo parlare Tasmia con te? – interviene Rafia Bithy, la madre – Sono più o meno le stesse cose che diceva mio marito, più di vent’anni fa, quando è arrivato in Italia, al telefono con i suoi genitori, in Bangladesh, e poi con me, due anni dopo, quando ci siamo sposati, prima che io venissi a Roma. Diceva: qui c’è lavoro, ci rispettano, ci sono tanti bangladesi, che non era del tutto vero. Sì, stiamo vivendo un’esperienza molto simile, una nuova migrazione, ma adesso siamo noi a essere partite e lui è rimasto lì [ridono]. Come sarà il nostro futuro? Adesso è qui. Dopo, solo Allah può saperlo”.

Queste persone costituiscono un vero rompicapo per i sostenitori dell’identità come un’immutabile unicità: gli elementi variano, si diversificano e si ricompongono, definendo nuove forme dell’agire. Siamo ancora di fronte alla stessa identità che ha connotato la prima esperienza migratoria dal Bangladesh all’Italia? A vent’anni di distanza rimane immutato il sistema cognitivo, l’humus, che ha prodotto quello spostamento, o si è modificata la composizione, la gradazione di valori che ne definisce l’agire? Quali elementi preesistenti e quali di recente acquisizione entrano gioco nella scelta di un secondo passaggio migratorio?

A mio modo di vedere, cercare di dare una risposta che cada fuori dalle coordinate che si è cercato di delineare sopra sarebbe piuttosto difficile.

Ugualmente, sarebbe difficile collocare al di fuori di quello stesso scenario altre espressioni, o rappresentazioni, che ci parlano di identità situate e prodotte da altri confini. Sono quelli che distinguono i centri  delle metropoli iperproduttive, con alti livelli di reddito, di formazione e skills professionali, con servizi efficienti, alto senso civico ed ecologico della coesistenza, dalle loro periferie urbanisticamente disastrate, economicamente, socialmente e culturalmente depauperate, dove vivono i figli, nipoti e pronipoti dei cittadini giunti verso la metà del secolo scorso dall’altra periferia, quella dell’Impero. Le manifestazioni di alterità, di incomunicabilità, di non appartenenza che connotano il portato identitario di una larga parte di questi cittadini di seconda, terza e quarta generazione si riscontrano, sia pur con altre modalità, nei cittadini migranti di recentissimo insediamento in qualunque area metropolitana occidentale.

Mi sembra che abbia perfettamente ragione Sayed (2002), quando parla di doppia assenza, con riferimento alla condizione di emigrante-immigrato, connotato da un ‘non più’ e, allo stesso tempo, da un ‘non ancora’, o ‘mai’.

In un’altra intervista, Ejaz, cittadino italiano di origine pakistana, esprime in modo estremamente chiaro questo concetto.

Questa sensazione di doppia appartenenza si manifesta sempre, anche nei sogni. Io spesso ho sognato di vedere dalla finestra le signore che vedo nel palazzo di fronte, ma vedere anche in strada scorrere un matrimonio pakistano, con i tamburi, i canti. Il problema della doppia identità si trasforma, col passare degli anni, in una doppia estraneità: cominci a diventare straniero anche al tuo paese e continui a esserlo dove vivi. L’essere straniero assume il valore di una terza identità.[…] Dopo il 7 gennaio [assalto alla sede di Charlie Hebdo] hanno espulso due ragazzi pakistani, tutti e due di seconda generazione. Erano attratti da quest’idea dello stato islamico, perché non si sentivano appartenenti a niente e a nessuno, come accade a molte seconde generazioni.

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Questa terza identità mi sembra possa costituire, in ultima analisi, uno dei tratti indicativi della cittadinanza postmigratoria. Non assume mai una forma definitiva, ma, al contrario, vive nelle e delle continue interazioni e sollecitazioni che il “di fuori” gli presenta, facendone dell’esterno un elemento costitutivo.

A questo proposito, è interessante riprendere quanto ha descritto Maria Caterina La Barbera (2014) a proposito del mantenimento dello status di migrante da parte di coloro che sono nati nel territorio del paese di accoglienza (in questo caso dei genitori o altri parenti più lontani) e di se o come il possesso di documenti o della cittadinanza alteri effettivamente la percezione di se stessi, all’interno di una categorizzazione sociale che ne dovrebbe sancire il transito verso altre posizioni nella forma gerarchica della cittadinanza postcoloniale, e quindi la ridefinizione della propria struttura identitaria. Le indicazioni contenute nelle interviste qui presentate sembrano confermare la definizione di migrazione come una condizione materiale e, allo stesso tempo, esistenziale, definita e rinnovata costantemente dal trovarsi a un confine, in mezzo, in transito, data dalla stessa La Barbera (2014).

L’identità che prende corpo all’interno dello spazio mobile, continuamente ridefinito da ambiti di inclusione ed esclusione, da forme di rappresentazione simbolica, di sé e da parte di altri, e regolato da forme di negoziazione che obbligano a una costante revisione del processo di narrativizzazione del Sé (Hall2, 2006), questa identità è strettamente connessa all’agency che si colloca alla base del concetto di cittadinanza postmigratoria, per come si è cercato di descriverlo in queste pagine.

È alla luce di queste brevi e molto provvisorie considerazioni che mi sembra si possa sostenere che il modello di cittadinanza e, quindi, di coesistenza, all’interno dello spazio europeo necessiti di una profonda revisione, resa ancora più urgente dalla “crisi” delle frontiere europee, come argomenta bene Nicholas De Genova in un recente articolo su Euronomade, e dall’urgenza per l’Europa di fare i conti con un passato che ne condiziona in modo così pregnante il presente, abbandonando, quindi, come scriveva Fanon più di cinquant’anni fa, “il gioco irresponsabile della bella addormentata nel bosco” (Fanon, 1961). Se ritardato, questo risveglio potrebbe essere molto pericoloso, visti i funesti e violenti venti nazionalisti e razzisti che soffiano un po’ su tutta l’Europa e sui suoi alleati mediorientali, Turchia in primo luogo.


Testi citati:

E. Balibar, At the borders of Europe from Cosmopolitanism to Cosmopolitics, in Translation, issue 4, a cura di S. Mezzadra e N. Sakai, NY, 2014

N. De Genova, The “crisis” of the European Border Regime, Towards a Marxist Theory of Borders. http://www.euronomade.info/?p=6912, marzo 2016

F. Fanon, I dannati della Terra, Torino, 2007 (ed. or. 1961)

MC. La Barbera, Identity and Migration in Europe: Multidisciplinary Perspectives, Springer, 2014

S. Hall1, Politiche del Quotidiano, Milano, 2006

S. Hall2, Il Soggetto e la Differenza, Roma, 2006

E. Isin, Citizens without Frontiers, London, 2012

M. Mellino, Cittadinanze Postcoloniali, Roma, 2012

S. Mezzadra, La Condizione postcoloniale, Verona, 2008

B. Nielson, S. Mezzadra, Confini e Frontiere, Bologna, 2015

E. Rigo, Europa di confine. Trasformazioni della cittadinanza nell’Europa allargata, Roma, 2007

A. Sayed, La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alla sofferenza dell’immigrato , Milano 2002


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