di Anna Reumert, antropologa alla Columbia University*
Sono sempre di più i rifugiati afgani che si uniscono alle Guardie Rivoluzionarie iraniane a sostegno del regime di Assad in Siria. A gennaio un report di Human Rights Watch (HRW) ha mostrato che migliaia di rifugiati afgani in Iran – tra cui molti minori – sono stati costretti a combattere in Siria. A diversi di loro è stata minacciata la deportazione, e l’arresto per i famigliari, in caso di rifiuto. HRW ed Al Jazeera sostengono che le forze iraniane abbiano persino reclutato rifugiati afgani in carcere, offrendo loro un’amnistia o uno sconto della pena come ricompensa. Lo stipendio promesso per questi soldati arriva fino a 1000 $ al mese e prevede anche l’ottenimento della residenza una volta tornati in Iran. Ben pochi dei combattenti intervistati da HRW hanno ricevuto questi benefit.
I media iraniani propongono una visione più complessa del fenomeno, così come le campagne social miranti ad esaltare il contributo degli afgani alla lotta di Assad. Le diverse narrative mostrano una realtà fatta di sfruttamento del lavoro, spirito di sopravvivenza e solidarietà transnazionale e dal carattere settario. In questo mio articolo voglio analizzare la sovrapposizione di tre grandi questioni che emergono dai flussi di rifugiati afgani in Siria: il lavoro migrante, l’intervento militare ed il fenomeno dei ‘foreign fighters’.
Chiamata alle armi
Per decenni gli afgani hanno trovato nell’Iran un rifugio dalla guerra e dalle invasioni militari. La maggior parte dei rifugiati afgani in Iran sono Hazara, una minoranza sciita che in Afghanistan è stata, e continua ad essere, duramente perseguitata e discriminata dai talebani. Negli ultimi anni il traffico di stupefacenti tra i due paesi è aumentato vertiginosamente, provocando un consumo dell’eroina da parte di molti giovani iraniani che ha raggiunto livelli mai registrati prima. L’Iran ritiene che la produzione di oppio dell’Afghanistan sia la principale causa di questa situazione, e i rapporti bilaterali sono diventati ulteriormente tesi. A pagarne il prezzo sono soprattutto i rifugiati afgani, che si sono visti riformare in senso restrittivo il sistema relativo all’accettazione delle richieste di asilo, l’incremento dei costi per ottenere il visto e deportazioni sempre più consistenti. Le autorità iraniane hanno spesso puntato il dito contro i rifugiati afgani, imprigionando migliaia di minori per spaccio. In Iran vivono 3 milioni di profughi afgani, dei quali soltanto 950mila in possesso dello status legale di rifugiato. La precarietà di una vita senza documenti né accesso ad un lavoro in regola e ad un’istruzione (condizione che per alcune persone va avanti da decenni), rende gli afgani in Iran una facile preda dello sfruttamento. Ma, come sto per mostrarvi, le pratiche coercitive delle autorità iraniane tendono a nascondere più di quello che sembra.
Fino a qualche mese fa, prima dell’aumento dei caduti in Siria, il Ministero degli esteri iraniano ha lasciato intendere che l’esercito aveva mandato in Siria soltanto dei “consiglieri”, negando di arruolare soldati afgani tra le proprie fila e definendoli dei “volontari” senza alcuna affiliazione ufficiale all’esercito (si leggano anche alcuni articoli su BBC, Washington Institute, The New Yorker). La versione di molti comandanti iraniani però sembrava discostarsi dalla versione dei volontari, promuovendo anzi l’arruolamento degli afgani come parte del fronte sciita transnazionale (spesso i comandanti iraniani hanno partecipato ai funerali dei soldati afgani, si guardi questo video e si leggano gli articoli su The Guardian e BBC). Lo scorso inverno un comandante delle Guardie Rivoluzionarie iraniane ha dichiarato che il governo avrebbe costituito una forza regionale, la Brigata Fatemiyoun – un’unità principalmente afgana – per combattere in Siria. A gennaio un altro comandante ha dichiarato ad Al Jazeera che circa 20mila afgani sarebbero stati assoldati per combattere in Siria insieme alla brigata iraniana Quds. Tralasciando la natura precaria di queste stime, possiamo affermare che queste ultime indichino in modo chiaro che il fenomeno del reclutamento di afgani tra le file iraniane sia in forte crescita. Un reporter iraniano del The Guardian che lo scorso novembre ha visitato Mashhad (una città iraniana in cui vivono molti afgani), ha raccontato delle lunghe file di afgani all’entrata della caserma principale per unirsi alla Brigata Fatemiyoun. Qualsiasi siano le motivazioni legali, economiche o ideologiche che li spinge a prendere le armi, il loro coinvolgimento attivo merita di essere analizzato attentamente.
Le testimonianze dei combattenti afgani e dei soldati iraniani svelano quanto la dimensione settaria/ideologica sia importante nella strategia iraniana di reclutamento. Secondo il report di HRW, le autorità iraniane selezionano per il reclutamento proprio gli uomini afgani di certa discendenza sciita. Il santuario di Sayida Zainab, un importante luogo di pellegrinaggio sciita a sud di Damasco, gioca un ruolo fondamentale per la chiamata alle armi in Siria, sia dal lato iraniano che da quello afgano. L’Iran si riferisce ai caduti in Siria come ai “difensori del sacro santuario”, mettendo enfasi sull’urgenza di proteggere le comunità sciite nella regione.
Un documentario iraniano mostra un comandante afgano nella brigata Quds spiega che “gli sciiti dell’Afganistan hanno sentito la propria responsabilità e sono corsi in Siria per difendere la propria religione ed il santuario di Zainab”. Alcuni afgani intervistati dal citato rapporto di HRW hanno dichiarato di essere partiti volontari per difendere i luoghi sacri e le comunità sciite in Siria. In un video diffuso online dal Free Syrian Army alcuni soldati afgani fatti prigionieri elencano le ragioni socio-economiche, legali e settarie per cui hanno combattuto con l’esercito iraniano. Un giovane combattente afgano descrive così la sua versione della dinamica di reclutamento: “Sono stato imprigionato per traffico di stupefacenti, mi hanno dato una sentenza di sei anni di carcere… ci hanno detto che il santuario di Zainab verrà distrutto… io sono arrivato dall’Iran per combattere con la promessa di un salario mensile di 600$”. Lasciando intendere alla presenza di qualche intermediario nel suo passaggio dall’Iran alla Siria, la versione di questo soldato permette di comprendere meglio il complesso processo di reclutamento degli afgani.
Carne da macello
L’affiliazione settaria in questo caso non sostituisce una gerarchia sociale basata sull’identità nazionale. La conta dei soldati afgani caduti in Siria mostra una realtà meno gloriosa del fronte unito sciita. Secondo un rapporto dello Spiegel, sono circa 700 gli afgani morti, nelle sole Daraa e Aleppo, per combattere al fianco di Assad. Recentemente il ricercatore Ali Alfoneh del Washington Institute ha tentato di definire il numero delle vittime afgane e iraniane in Siria attraverso i dati dei funerali in Iran. Il suo lavoro ha rivelato che almeno 255 afgani e 342 iraniani siano caduti tra il 2012 e marzo 2016, con una notevole impennata quest’anno. Sebbene recenti statistiche indichino che gli iraniani siano sempre più coinvolti nel conflitto, negli ultimi mesi gli afgani continuano a costituire metà delle morti ufficiali delle forze iraniane. “La Repubblica Islamica sta limitando la propria esposizione e le proprie perdite”, ha dichiarato Alfoneh, “facendo combattere una guerra per procura a non iraniani, anche in quelle situazioni in cui i propri uomini si potrebbero rivelare più efficaci”.
L’idea secondo la quale i giovani combattenti afgani rappresenterebbero delle vite sacrificabili da schierare in prima linea, è confermata da altre testimonianze personali. Un adolescente afgano che ha abbandonato i suoi commilitoni in Siria ed è giunto a Lesbo, in Grecia, ha dichiarato a un giornalista della BBC che i combattenti afgani in Siria vengono usati come “prima ondata di truppe d’assalto”, considerati quasi come soldati “usa e getta”. Lo Spiegel ha menzionato un ufficiale siriano al comando di una brigata afgana: “Fate di loro ciò che volete. Potete persino ucciderli, sono solo mercenari. Possiamo mandarvene a migliaia”. Lo stesso report sostiene che il regime siriano faccia spesso degli scambi di prigionieri per salvare soldati iraniani o di Hezbollah, ma che non faccia nulla di simile nei confronti di afgani e altri mercenari della brigata Fatemiyoun. Nello stesso articolo un ex combattente afgano della Fatemiyoun ha dichiarato: “Quando parlavamo farsi tra di noi, loro [i soldati del regime siriano] ci urlavano contro”. Queste parole lasciano intendere che il senso di solidarietà degli afgani non è necessariamente corrisposto dai loro “clienti sul campo di battaglia” del regime siriano. L’antropologo Darryl Li ha scritto un articolo molto interessante sul ruolo degli “stranieri nelle guerre altrui”. I foreign fighters non hanno la licenza nazionale per uccidere, come richiesto dal diritto internazionale. Come conseguenza vengono trattati da “macchine da guerra” e il loro non essere riconosciuti dall’ordine nazionale li riduce a mero strumento.
È ironico che i mercenari siano utilizzati soprattutto i contesti di guerra interventista, dove le pretese nazionali di sovranità vengono spazzate via da una cacofonia trasnazionale di bande armate.
Manodopera a buon mercato
I mercenari non sono soltanto delle vite sacrificabili. Anche la loro economicità conviene quando sono in esecuzione delle missioni all’estero su larga scala. Un comandante ribelle siriano ha così descritto i soldati afgani contro i quali ha combattuto: “Sono incredibilmente tenaci, corrono più veloci di noi e continuano a sparare anche dopo essere stati circondati. Ma non appena perdono il contatto radio con i loro quartieri generali, entrano nel panico”. Questa descrizione ricorda quella rilasciata dalle autorità coloniali francesi, che vedevano le proprie truppe mercenarie senegalesi come fisicamente forti ma mentalmente deboli. Le truppe coloniali erano, similmente a quelle afgane in Siria, all’ultimo livello della gerarchia militare, nettamente separate dai soldati nazionali e usati come pedine sul campo di battaglia. L’esercito coloniale francese reclutò soldati senegalesi promettendo un salario stabile e, per pochi fortunati, la residenza nella patria coloniale. Come documentato dalla storica Myron Echenberg, l’esercito coloniale francese impose una doppia “condotta discilpinare” per i senegalesi arruolati: non solo erano addestrati per compiere azioni militari, ma la loro mente venne plasmata per servire ed onorare il progetto coloniale. Con la promessa del riconoscimento e dell’appartenenza politica, la coscrizione rappresentò un efficiente modo per assicurarsi la lealtà della popolazione colonizzata.
Per i rifugiati intrappolati in un’ostile economia globalizzata del lavoro migrante, che fronteggiano il dramma delle frontiere chiuse, la situazione non è cambiata poi così tanto dai tempi delle colonie. In Iran gli afgani non sono discriminati soltanto perché non ricoprono alcuna posizione nell’immaginario nazionale, ma anche perché sono diventati il simbolo del lavoro a buon mercato che facilmente si presta allo sfruttamento. Questo tipo di sfruttamento del lavoro migrante nel mondo contemporaneo non è certamente un fenomeno esclusivamente iraniano. I regimi del Bahrain e della Libia hanno usato truppe africane e sud-asiatiche per reprimere le proteste del 2011 (Li 2011), e l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti hanno assoldato centinaia di eserciti privati dell’America Latina e dell’Africa Occidentale per combattere gli Houthi nello Yemen (NYT; Al Monitor). Li ha documentato come anche le forze statunitensi abbiano fatto grande affidamento sul lavoro migrante per portare avanti alcune attività su fronti di guerra (Aikins 2016; Stillman 2013).
Sono chiari i vantaggi che hanno gli stati nell’usare queste “truppe fantasma”: sono economiche e non figurano nelle statistiche dei propri caduti. I mercenari godono inoltre di una sorta di impunità, dal momento che le truppe nazionali non vengono ritenute responsabili delle azioni degli eserciti privati. I mercenari vivono dunque in un limbo giuridico in cui non vengono né perseguiti né protetti dalla legge. Ma al contrario dei mercenari al soldo degli Stati Uniti, che non sono ufficialmente registrati nelle forze armate per le quali combattono (né tantomeno godono degli onori ad esse riservati), i combattenti afgani della brigata Fatemiyoun non sono delle mere truppe ombra. Gli esempi delle cerimonie funebri e delle campagne social in onore delle truppe afgane mostrano come i combattenti afgani uccisi in Siria vengano pubblicamente e apertamente considerati dei martiri in Iran. Un video condiviso su Facebook mostra degli afgani della brigata Fatemiyoun commemorare i propri compagni uccisi in Siria, onorando le loro bare in varie città dell’Iran, spesso in compagnia di comandanti iraniani.
In questo modo la presenza degli afgani in quanto truppe mercenarie della controffensiva di Assad complica e sfida l’attuale considerazione che è riservata ai foreign fighters, spesso associata ad una non meglio specificata “galassia del Jihad”. Il mercenario e il jihadista vengono spessi contrapposti lasciando intendere che siano necessariamente degli opposti: l’uno è associato alla disperazione socio-economica, l’altro è invece un combattente imbevuto di ideologia. Si sta sviluppando però una cospicua letteratura sui foreign fighters (confr. The Soufan Group 2014; Small Arms Survey 2015; The Atlantic 2015; The New Yorker 2016) che indica come, proprio come la solidarietà settaria ed ideologica abbia un importante ruolo nel reclutamento di afgani, anche i nordafricani e gli arabi che dopo la fase decadente delle proteste del 2011 si sono uniti ai ribelli in Siria e in Iraq siano spesso intrappolati in simili spirali di povertà, disoccupazione e mancanza di opportunità. Esattamente quello che affrontano i rifugiati afgani in Iran. Un giovane tunisino disoccupato che si unisce al Daesh o a Nusra per trovare un’impiego e uno scopo potrebbe avere molto più in comune con un giovane sciita afgano che contribuisce alla missione iraniana in Siria di quanto le opposte categorie vogliano far credere.
Ripensare la categoria del combattente
I migranti mercenari potrebbero non rappresentare altro che vite sacrificabili agli occhi dei loro padroni, ma spesso condividono storie di transizione coloniale e violenza con le persone con combattono fianco a fianco, o contro. Per molti afgani il conflitto siriano è sin troppo famigliare. Secondo il ricercatore Ahmad Shuja, citato dal Washington Institute, circa 2mila afgani sciiti (principalmente di origine Hazara) hanno lasciato l’Afghanistan per andare in Siria prima dello scoppio della guerra civile. E la manodopera afgana rappresenta un aspetto fondamentale del pesante investimento dell’Iran in Siria. Come dimostrato più volte, molti iraniani facoltosi hanno acquistato terreni e proprietà nelle zone sotto il controllo del regime siriano e, secondo l’analista iraniano Fariborz Saremi, gli imprenditori iraniani portano con sé lavoratori afgani per costruire le proprie case. Gli iraniani stanno aprendo attività commerciali in Siria, nonché investendo in programmi governativi di sviluppo. Preparandosi quindi ad una presenza a lungo termine, se non permanente, nel Paese. Grazie anche all’estrema flessibilità del lavoro degli afgani e di altri migranti.
Gli afgani hanno una storia fatta di migrazioni fisiche, religiose ed intellettauli, e questo dimostra come i migranti mercenari siano spesso contemporaneamente esterni e pienamente coinvolti nelle battaglie che combattono. Come documentato da Engseng Ho, i legami economici e religiosi nati da secoli di viaggi nell’Oceano Indiano hanno creato rapporti di solidarietà – tra gruppi religiosi in Afghanistan, Yemen ed Africa orientale – diventati strumento dell’imperialismo occidentale nel 21esimo secolo. Le battaglie dell’Impero per la conquista del territorio afgano ha consentito la formazione di foreign fighters transregionali che hanno combattuto dalla parte dei talebani contro vari tentativi di invasione. Gli afgani hanno viaggiato a lungo per dare il proprio supporto alle varie lotte regionali. Durante la guerra tra Iran e Iraq degli anni ’80, una forza indipendente comporta da afgani sciiti – la brigata Abouzar – ha sostenuto la lotta dell’Iran contro Saddam Hussein. Queste linee transnazionali di solidarietà contro le diverse forme di interventismo coloniale e imperialista hanno complicato l’approccio interpretativo del contributo afgano alle ambizioni regionali dell’Iran.
La relazione tra i mercenari afgani, l’esercito iraniano e il regime siriano delinea modelli di aspirazione nazionale e lealtà già visti in precedenti casi di servitù coloniali. Ma nello stesso tempo il senso di appartenenza settaria con i propri compagni, e l’ottenimento dello status di martiri in Iran, differenzia gli afgani da altri mercenari che invece operano nell’ombra. Se insisto su questo punto non è per mettere in discussione i racconti di sfruttamento testimoniati da molti afgani. Gli afgani sono sicuramente sfruttati, in quanto rifugiati di guerra a cui è negato riconoscimento legale e politico e in quanto lavoratori migranti che devono competere in un mercato che accumula capitali grazie alla loro discriminazione. Ma la loro espropriazione socio-economica non sminuisce in alcun modo la loro potenziale fedeltà alla causa per cui combattono.
Il conflitto siriano, con il suo flusso di armate internazionalizzate, richiede uno studio che riconsideri le attuali categorie di soldati e combattenti. I molteplici canali di smercio di armi, uomini e idee che alimentano la guerra in Siria fanno riflettere gli studiosi che approfondiscono sul ruolo del combattente straniero; non in quanto sia un fenomeno eccezionale o nuovo, ma in quanto fondamentale per una guerra coloniale, imperialista e apparentemente senza fine. Piuttosto che chiederci perché ci sono foreigner fighters, dovremmo chiederci: cosa definisce il combattente straniero in battaglia? In una guerra in cui ogni esercito locale riceve rifornimenti e uomini dall’estero, che rilevanza ha la categoria del foreign fighter? Forse non è ogni combattente contemporaneamente esterno e familiare alla battaglia in cui sta lottando?
*Una versione in inglese di questo articolo è stata pubblicata su Ajam Media Collective
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