Probabilmente nessuna icona politica del 20esimo secolo ha raggiunto lo spessore di Fidel Castro. La sua morte risveglierà molte questioni importanti e ancora irrisolte sul suo ruolo nella Storia e sulle idee rivoluzionarie che lui sembra aver incarnato.
La sua figura ha ricoperto un ruolo particolare nell’immaginario collettivo di molti della mia generazione, per quanto potesse essere stato in realtà immeritato. Il regime irrimediabilmente corrotto che lui ha rovesciato (insieme all’ancora più affascinante co-cospiratore Che Guevara) era la quintessenza della repubblica delle banane. Non che la causa sia stata indegna, quindi.
Il regime parassitario di Fulgencio Batista fornì una comoda valvola di sfogo per gli statunitensi dissoluti in fuga dalla stucchevole moralità degli USA degli anni ’50. Per quel poco che sapevamo sulla Cuba di allora, Fidel sembrò essere inequivocabilmente dalla parte giusta della storia. Ma non è così che sarà ricordato.
A differenza del Che, Fidel ha vissuto abbastanza da vedere il decadimento della sua eredità, il capovolgimento del suo modello e addirittura la normalizzazione delle relazioni con il suo arci-nemico. In tali circostanze, i veri traguardi raggiunti dal regime di Castro verranno probabilmente dimenticati.
Eppure la realtà è che un poverissimo paese del terzo mondo è riuscito a creare un sistema medico ed educativo di tutto rispetto. Possono esserci stati delle perplessità sui programmi proposti, ma gli indicatori sociali fondamentali hanno retto dignitosamente il confronto con altri stati della regione. Come fatto notare dal regista Michael Moore – con un approccio quasi iconoclasta – il sistema medico di Cuba è stato sotto molti aspetti migliore di quello degli stessi Stati Uniti.
Niente male per un paese fiaccato da oltre mezzo secolo di sanzioni economiche statunitensi. Persino il mio paese, l’Australia, avrebbe sofferto in circostanze analoghe. E noi siamo dall’altra parte del pianeta con delle situazioni economiche di partenza sicuramente migliori. Quindi ciò che i cubani sono riusciti a fare è assolutamente eccezionale.
Non è arduo comprendere perché gli USA abbiano detestato Castro, provando innumerevoli volte – non senza un pizzico di comicità amara – ad assassinarlo o destituirlo. La fallita invasione della Baia dei porci nel 1961, manovrata dalla CIA, terminò con una sonora umiliazione degli Stati Uniti; questo rinforzò la posizione di Castro e rese il suo carisma ancora più apprezzato dal suo popolo e da alcuni stranieri che vedevano il suo regime in modo particolarmente favorevole.
Neppure la crisi dei missili di Cuba del 1962 – in cui gli USA e l’Unione Sovietica sfiorarono la guerra nucleare nel tentativo dei secondi di posizionare missili balistici su suolo cubano – fece cadere Fidel. Cementò anzi la sua reputazione di personaggio più scomodo per l’egemonia degli Usa in un’area geografica che gli States consideravano, ad ogni modo, loro.
In quella che probabilmente è stata l’ultimo respiro dell’idealismo rivoluzionario in America Latina – e forse nel mondo – la cosiddetta Pink Tide che ha investito la regione negli anni ’90 e i primi anni 2000 ha rappresentato un’altra sfida al dominio statunitense e all’ordine politico-economico da esso rappresentato.
In America Latina abbiamo assistito all’ascesa e al declino (o – nel caso di Nicolas Maduro, successore di Hugo Chavez in Venezuela – alla potenziale fuga) di una serie di leader socialisti. Anche in Brasile, l’eredità dell’ex presidente Lula da Silva è stata colpita a morte dallo scandalo della corruzione e della triste evoluzione dell’economia brasiliana.
Paradossalmente, il futuro di Cuba potrebbe essere più roseo di quello di altri paesi del Sud America. Nessuno può prevedere cosa farà in questo contesto (e in altri) il futuro regime di Trump; ma se il fratello di Fidel, Raul Castro, dovesse continuare sulla via della liberalizzazione economica e del miglioramento delle relazioni con i loro “ingombranti vicini”, Cuba potrebbe attirare flussi interessanti di investitori e turisti.
Questo potrebbe però anche riportare la situazione a condizioni simili a quelle della Cuba pre-rivoluzione castrista, il che sarebbe un’ironia della Storia. E sorge spontanea la domanda sulla capacità dei “grandi uomini della Storia” di lasciare un impatto duraturo, di fare la differenza a lungo termine, e di consegnare alle generazioni a venire un’eredità stabile.
Adesso conosciamo tutti quanto Mao Tse-tung fosse un mostro maniacalmente megalomane, nonostante la grande popolarità del Libretto Rosso nei burrascosi anni ’60. Oggi in Cina non sono rimasti poi così tanti comunisti, e nessuno sta pensando di tornare alla pianificazione centralizzata.
Fidel Castro è dunque un anacronismo, un simbolo di un tempo specifico e di un luogo specifico. Il socialismo resta un’idea accattivante, in teoria. Ma anche i suoi più grandi ammiratori devono ammettere che quando è stato messo in pratica le cose non sono andate poi così bene.
La celebre definizione di Robert Michels della “legge ferrea dell’oligarchia” sembra più appropriata e convincente che mai, e non solo nelle presunte repubbliche delle banane. L’ascesa del nazionalismo negli Stati Uniti fornisce un quadro (che fa riflettere) sulla difficoltà di presentare il cambiamento progressista in un modo che “le masse”, come siamo abituate a conoscerle, possano apprezzare.
Come ci ricordano la vita e l’epoca di Fidel, modificare radicalmente l’approccio repressivo e iniquo della politica sembra essere più difficile e improbabile che mai.
[Traduzione dall’inglese a cura di Valerio Evangelista]
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