La tragica vita nelle mani dei trafficanti di esseri umani, lo sfruttamento dei latifondisti, la profonda fede popolare… Il racconto che vi proponiamo – tratto dal libro “Effetti collaterali” – ci proietta nella Colombia rurale, rivelandone gli aspetti più pericolosamente autentici.
di Pablo Besarón*
Non so se cominciare dicendo che ho rivisto Delia due mesi dopo la sua morte. Non so nemmeno se lamentarmi del fatto di non averne parlato con nessuno, ma lamentarsi non cambia ciò che è stato. Forse la cosa più semplice sarebbe raccontare che Delia era una signora di circa ottant’anni che abitava al mio stesso piano, il ventiduesimo. Vedova da tempo immemorabile, viveva da sola e aveva un figlio che andava a trovarla ogni quindici giorni. Il figlio arrivava con le buste del supermercato e si fermava un paio d’ore, prendevano il mate insieme, guardavano le fotografie dei nipoti. E dopo due settimane, quando i viveri erano finiti, tornava di nuovo con la spesa dal supermercato.
L’affitto dell’appartamento lo pagava lui. Il portiere mi aveva raccomandato Delia in caso avessi avuto bisogno di fare l’orlo dei pantaloni, cucire maglioni o rammendare vestiti. Nei giorni in cui faceva molto freddo, Delia suonava al mio campanello per chiedermi di comprarle le medicine contro l’ipertensione, il bismuto o le pastiglie di Dorixina.
L’ultima volta che l’ho vista prima di venire a sapere della sua morte, suonò agitata alla mia porta. Il suo televisore non prendeva nessun canale, la telenovela delle cinque stava per cominciare, aveva bisogno di aiuto. L’appartamento di Delia aveva due ambienti; mi riportava a un’altra epoca con il suo odore di naftalina, le tazzine di porcellana, le fotografie color seppia nelle cornici di legno intagliato e le poltrone decorate ad arabeschi. Il segnale dell’antenna non era configurato. Risolsi la questione e me ne andai.
Una volta, rincasando dopo aver camminato senza una meta precisa (camminare sotto le intemperie in un tempo che sta fuori del tempo, come mi piaceva pensare), sentii il portiere dire a una vicina che l’appartamento di Delia era stato messo in affitto. Lei era morta due mesi prima, suo figlio aveva receduto il contratto, e l’appartamento era vuoto. La notizia mi rattristò. Non chiesi nulla e me ne andai.
Una sera, entrando nel palazzo, mi sembrò di vedere Delia in attesa dell’ascensore. Dico che mi sembrò, anche se non c’erano dubbi: gli occhiali di tartaruga, il maglione beige a crochet, il modo in cui si sfregava le mani. Arrivò un ascensore, e lei entrò rapidamente. Il portiere che mi aveva annunciato la sua morte si trovava all’entrata del palazzo. Forse avrei dovuto dirgli qualcosa.
Aspettai l’altro ascensore. Un uomo entrò prima di me. Non lasciò che fossi io a chiudere la porta, anche se entrai per ultimo. Scese alcuni piani prima di me, dandomi il tempo sufficiente per domandarmi se fosse il caso di suonare al campanello di Delia. Desistetti.
Quel giorno, alle cinque meno dieci del pomeriggio, suonarono al mio campanello. Era la stessa Delia di sempre: gli immancabili occhiali, il tono inquieto della voce, la richiesta di aiuto per l’inizio imminente della telenovela delle cinque.
Ancora una volta, il televisore non era configurato. Non so se le si fosse staccato il cavo, ma dovetti riprogrammare i canali. Quando ebbi risolto la questione, cominciò la telenovela.
«Si fermi a vederla con me, figliolo» mi propose.
Non mi sembrò una cattiva idea, dunque accettai.
Era una telenovela colombiana. Si chiamava Por siempre Ana.
Nonostante la sua abituale riservatezza, mentre guardavamo la presentazione Delia mi raccontò la trama. Una donna (Ana) si sposa con un uomo (Carlos Alberto) molto facoltoso, titolare di una fabbrica di caffè. Sono molto innamorati e hanno tutta la vita davanti. Una volta lei intraprende un viaggio in aereo per incontrare suo padre, che vive nel nord del Paese. L’aereo va in avaria e precipita in mezzo al mare. Muoiono tutti tranne Ana, che si salva per miracolo. La corrente la trascina sulla costa. Perde conoscenza. Alcuni uomini la portano con loro. Quando si sveglia, si accorge di essere stata reclutata per lavorare in un bordello. Passa un bel pezzo della sua vita circondata da fatti atroci. Progressivamente, una dopo l’altra, le passano davanti, sconnesse, le immagini della sua vita trascorsa. Adesso non sa più chi sia. Riesce a fuggire dal bordello. Comincia a lavorare in casa di un latifondista produttore di cotone, che la tratta quasi come una schiava. Carlos Alberto si rifiuta di credere che Ana sia morta. Entra in depressione, si sente perso, comincia a bere, dorme tutto il giorno. Sua madre, donna molto credente, chiede a Padre Luis, che lo aveva battezzato, comunicato e sposato, di andare in aiuto del figlio. Questi si salva grazie al supporto spirituale, e si sente utile facendo opere di carità per conto della Chiesa. Tutti gli dicono di dimenticare la moglie, di rifarsi una vita, ma lui si rifiuta. Di notte sogna che Ana è viva, ferita, che chiede aiuto.
Nella puntata che vedemmo, Carlos Alberto prende un aereo per il nord del Paese. Una parapsicologa gli dice che sua moglie è viva, che lui dovrebbe dirigersi verso un paese al nord, sul mare.
Alle sei del pomeriggio mi congedai da Delia.
«Se le fa piacere» propose «la aspetto domani alle cinque».
Non vedevo una telenovela da quando ero ragazzo; la proposta mi sembrava allettante. Inoltre, condividere questo momento con Delia mi aiutava a smentire le chiacchiere del portiere e, a questo punto, sicuramente anche di molti altri. Era un modo per tenere in vita Delia.
La mia vita si ridusse ad aspettare ogni giorno che arrivassero le cinque del pomeriggio. Avevo trovato un senso al tragitto senza meta che mi accompagnava da chissà quanto.
Nella bacheca al piano terra si cercavano affittuari per l’appartamento di Delia. Arrivati a quel punto, mi sembrava una cosa di cattivo gusto.
Pensai di raccontarle qualcosa circa tutte queste chiacchiere, ma nella telenovela successero dei fatti importanti. Carlos Alberto va in giro nei primi posti della costa in cui si trovava la moglie dopo l’incidente aereo. Ogni donna che vede in spiaggia gli sembra Ana. Chiede informazioni alla gente del posto, finché incontra un pescatore che aveva visto quei bruti portarsi via Ana. Dopo vari giri di parole, il pescatore gli confessa il rapimento, e la puntata finisce così.
Col passare dei giorni, la telenovela andava avanti. Carlos Alberto segue le tracce della moglie, rischia varie volte la vita, uccide un uomo, viene catturato, fugge. Anna è costretta a fare sesso con il padrone, si rifiuta, viene punita, rinchiusa in una gabbia alle intemperie, alimentata per diversi giorni con acqua e pane secco.
Ormai si intravedeva il finale. Tutto andava confluendo in un punto in cui la felicità stava per imporsi. Anche il nostro rituale incontro alle cinque del pomeriggio avrebbe avuto termine. Che ne sarebbe stato di Delia, del suo appartamento, delle voci messe in giro dal portiere? Avrei preferito che la telenovela fosse eterna, una telenovela in cui l’amato cerca l’amata per l’eternità, gli sembra di incontrarla ma non arriva mai a scovarla.
*Pablo Besarón è nato nel 1974 a Buenos Aires, dove si è laureato in Lettere. Su riviste letterarie, cartacee e digitali, ha pubblicato saggi su Omero, Esiodo, Petronio, Ovidio, Machiavelli, Shakespeare, Sade, Stendhal, Tolstoj, Conrad, Lascano Tegui, Cortázar e Borges (tra gli altri). I suoi scritti teorici vengono utilizzati nelle università di Spagna, Brasile, Messico, Cile, Venezuela e Argentina. Ha tenuto corsi di letteratura e di metodologia della ricerca. Ha pubblicato la raccolta di saggi La conspiración. Ensayos sobre el complot en la literatura argentina (Simurg, Buenos Aires 2009). Alcune delle sue opere sono state tradotte in inglese e portoghese. Effetti collaterali è la sua prima raccolta di racconti.
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[Traduzione a cura di Livio Santoro]
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