“Io, afghano, in Siria per evitare il carcere iraniano”

di Hamid Abdullah

Incontro Mohammad mentre sto pranzando a Stoccolma con degli amici. Introducendolo, mi dicono che per un periodo è stato in Siria a combattere contro l’Isis. E’ arrivato da poco e, come tutti, e vive le difficoltà di essere un posto nuovo dove non conosce nessuno e non capisce la lingua locale. In più, rischia di essere mandato in Afghanistan. Un paese che non ha mai visto, essendo nato e cresciuto da rifugiato in Iran. Dove, dopo torture e il carcere, è stato costretto ad arruolarsi per combattere in Siria, a fianco del regime. La sua storia mi incuriosisce. Il modo in cui è arrivato in Svezia è incredibile e ci permette di conoscere la quotidianità degli afghani d’Iran obbligati a combattere.

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Partiamo dalla fine. Sei contento di vivere in Svezia?

Non posso che essere felice se paragono la vita di oggi con quello che ho vissuto nel passato: qui vengo rispettato come uomo.

Se potessi tornare indietro, partiresti ancora?

Non so che dire! A volte la vita ti costringe a fare cose che in una situazione normale non faresti. Certo, se avessi saputo dei problemi che avrei incontrato, probabilmente avrei optato per un’altra soluzione.

Quali problemi?

Ho ricevuto una risposta negativa dalla commissione che valuta il mio caso all’ufficio immigrazione e rischio di essere rimandato in Afghanistan.

Perché?

Devi chiederlo al giudice (sorride). Un giorno il mio avvocato mi ha detto che gli era arrivata una mail dalla commissione secondo la quale ero riuscito a ottenere la protezione internazionale. Così siamo andati in commissione, ma lì mi hanno detto che c’era stato un errore e che io non avrei ricevuto protezione.

Com’è possibile  che succeda una cosa del genere, in Svezia?

Non ci credeva nemmeno il mio avvocato. Ho fatto appello e da quasi un anno aspetto la risposta.

Cosa succede se ti danno un’altra risposta negativa?

Mi manderanno in Afghanistan. Non so cosa fare lì, non ci sono mai stato e non conosco nessuno. Mio padre mi aveva mandato con mia madre in Iran e lui è morto in Afghanistan a causa della guerra.

Cosa facevi in Iran?

Sono cresciuto lì, vivevo con la mia madre e le mie sorelle a Bagher abad (periferia di Teheran). Non abbiamo avuto una vita facile, in realtà nessun afghano in Iran ha una vita facile. Tutti i giorni dovevamo combattere per la sopravvivenza: in fila per prendere il pane, sull’autobus, per strada. Ho lavorato sin da piccolissimo. Lavori difficili, come muratore dovevo portare sacchi di cemento più pesante di me.

Ma perché hai scelto di venire qui?

Non immaginavo un mondo fuori da Bagher abad.

Sono molto curioso di sapere che cosa ti ha spinto a partire, per rimanere qui devi avere una ragione da spiegare alla commissione.

Ho combattuto in Siria.

Come sei arrivato lì?

Un tipo mi aveva proposto di lavorare per lui: mi avrebbe dato tanti soldi se l’avessi portato in giro con la moto. Era proprio il lavoro che mi piaceva: adoravo guidare nel traffico di Teheran. Lui mi dava le indicazioni e io guidavo, mi diceva di essere un postino. Un giorno fummo pedinati da una macchina e lui mi disse di fuggire. Poi ha tirato fuori una pistola e mi ha detto: “Noi non ci conosciamo, non dimenticarlo se vuoi che tua madre viva”.

Avevi paura?

Tanta. Volevo tornare a casa ma ho sentito la sirena di una voltante di una polizia. Così ho accelerato con la moto e sono caduto all’altezza di una curva. Avevo tutto il corpo pieno di ferite. Mi sono alzato e ho iniziato a correre, nello scavalcare un muro mi sono appoggiato su dei vetri messi a protezione, tagliandomi le mani. Mi sono ritrovato in una villa. Sono entrato e subito dopo sono svenuto.

Cosa hai trovato al tuo risveglio?

Ricordo due poliziotti che mi conducevano verso una stanza dove un altro mi faceva delle domande. Sono svenuto un’altra volta. Quando mi sono risvegliato, mi hanno portato in un’altra stanza. Ricordo bene che sul muro c’era scritto: qui non c’è né dio e né profeta.

Ti hanno picchiato?

Il poliziotto mi picchiava e mi chiedeva di parlare ma io sapevo che non avrei dovuto dire niente . Mi hanno appeso con una mano. Non ho capito più niente finché mi sono svegliato all’ospedale.

Quali prove avevano contro di te?

Il giudice mi ha dato sei anni di carcere, ma mia madre ha fatto ricorso così me ne hanno tolti due. Non avevano nessuna prova contro di me ma poiché non avevo nessuno documento d’identità mi hanno identificato come maggiorenne e mandato in carcere.

Quanti anni avevi?

Meno di 16 anni.

Come era il carcere ?

I primi giorni ho pianto tanto. L’unica cosa che mi dava speranza era il venerdì, quando potevo vedere mia madre. Era un posto terribile che condividevo con trafficanti di droga, criminali e guardie. Ho visto tante persone in attesa di essere giustiziate.

Come sei uscito dal carcere?

Mi hanno detto che se avessi imparato il Corano sarei potuto uscire prima. Un giorno il mullah del carcere ci propose di partire per la Siria per difendere i luoghi santi. In cambio ci avrebbe liberato. Non potevo crederci: ho subito accettato, così mi hanno portato in una caserma.

Quanti eravate?

Una ventina di persone. Ci hanno addestrato per circa un mese. Poi ci siamo imbarcati per Damasco e dopo qualche giorno ci hanno portato in un campo di Hezbullah.

Quando siete entrati in azione?

Alcuni sono stati mandati nella regione di Aleppo per liberare gli sciiti circondati dai terroristi. Altri sono invece rimasti a Damasco per difenderla tagli attacchi che arrivavano dalla periferia.

La brigata afgana durante un'operazione militare a Nubel
La brigata afgana durante un’operazione militare a Nubel

E tu?

Io ero troppo piccolo, quindi non mi hanno mandato in prima linea. Facevo il guardiano e sparavo solo per fare paura. Damasco è una bella città, mi sono divertito lì. Per alcuni giorni sono stato di guardia a Sayyidah Zaynab, periferia della capitale, dove c’è l’omonimo santuario dedicato alla nipote del Profeta. Lì ho conosciuto tanti combattenti afghani della brigata di Fatemiun. Poi sono stato ad Aleppo.

Chi sono i Fatemiun?

I combattenti sciiti dell’Afghanistan sono per la maggior parte residenti in Iran e sono in Siria per difendere sciiti e santuari.

Chi combattevate ad Aleppo?

Ahrar al Sham, Fath al Islam, Jabhat al Nusra. Sono tutti salafiti e wahabiti, quasi tutti stranieri. Ci sono migliaia di europei (per lo più francesi), sauditi, tunisini, russi e combattenti provenienti da paesi dell’Asia centrale. Molti dei loro cecchini sono donne.

Ti è mai capitato di affrontarle?

Una volta abbiamo catturato una donna cecchino. L’abbiamo consegnata ai siriani e loro l’hanno investita con una scavatrice. La Siria è un disastro, la gente è diventata selvaggia.

I siriani come vi trattavano?

Benissimo, ci amavano. Quando ci incontravano ci pulivano le scarpe.

Contro chi combattevate, se i siriani vi amavano?

Per la mia esperienza posso dirti che la gente ci amava e i terroristi erano stranieri. Una volta ad Idlib eravamo così vicini ai terroristi che potevamo sentirli parlare. Erano afghani, così abbiamo iniziato a parlare con loro. Ci dicevano: “Perché combattete per l’Iran, venite da questa parte e combattete con noi. Qui vi danno i dollari, che ci fate con i toman iraniani”. Ci dicevano che c’erano anche delle schiave.

Quanto vi pagavano gli iraniani?

Due milioni di toman iraniani e 50 sterline siriane. Ma io non ho mai preso quei soldi.

Con che strategia portavate avanti la guerra?

Quelli di Fatemiun conquistavano territorio per poi dare il controllo all’esercito siriano. Ma questi scappavano e lasciavano tutto ai terroristi.

C’erano tanti afghani dall’Iran a combattere?

Sì, forse 5 mila. Non c’è un giorno in cui nelle città iraniane manchi un funerale per qualche afghano morto in Siria.

Come arrivano generalmente in Siria?

Per quanto riguarda i volontari, in Iran e in Afghanistan ci sono delle persone che ti mettono in contatto con il Corpo delle Guardie della rivoluzione islamica e questi ti mandano in Siria dopo qualche giorno di preparazione.

Chi sono quelli che combattono per costrizione?

Ci sono tante persone che, come nel mio caso, sono in carcere. Ad esempio trafficanti di droga o persone indebitate. C’era un ragazzo che era stato denunciato dalla moglie perché era in debito con lei. Ma, ripeto, c’erano anche persone che avevano le loro motivazioni per essere lì.

Per esempio?

Il nostro comandante era un bravissimo ragazzo. Non era un militare ma un ingegnere. Era molto bravo a trovare soluzioni in battaglia e tra i ragazzi c’era l’idea che le sue operazioni fossero infallibili. Alcuni lo prendevano in giro dicendogli: “Noi siamo qui perché non abbiamo un lavoro. Tu che fai qui, ingegnere?”

In effetti…

Era molto gentile con noi. A noi più piccoli impediva di andare al fronte. Anche i siriani lo amavano e, pensa, era gentile anche con i terroristi. Passava del tempo a parlare con loro. Ma detestava gli iraniani. Una volta venne a trovarci nel campo il generale Sulejmani. Tutti erano in fila per fare le foto, tranne lui.

Curioso, per uno che si arruola volontariamente.

Quando gli abbiamo chiesto spiegazioni ci ha detto di aver vissuto per una vita intera discriminazioni da parte degli iraniani. “E allora perché sei qui e combatti per questi stronzi”, gli abbiamo chiesto. Ci ha risposto che lo faceva perché tutti i giorni in Iran nascono bambini apolidi senza alcun diritto. “Non voglio che crescano come me, anche se il prezzo per la dignità è combattere per la dittature iraniana”.

Che fine ha fatto l’ingegnere?

Una notte, nel bel mezzo di un’operazione, ci siamo trovati con le armi fuori uso a causa della pioggia. Eravamo 200 persone contro migliaia di nemici che urlavano Allaho Akbar. Era una notte da incubi, non funzionava nemmeno la radio. Loro si avvicinavano. Fino alla mattina seguente ci siamo trascinati nel fango. Quando siamo riusciti a raggiungere il nostro fronte, l’ingegnere non c’era più. E’ stata l’ultima volta in cui ho partecipato a un’operazione. Dopo sono tornato a fare il guardiano.

Di cosa?

Dalla base potevamo vedere i movimenti dei terroristi anche di notte grazie a una videocamera speciale controllata da due tecnici siriani di cui ci avevano detto di non fidarci. Una notte ero di guardia mentre gli altri dormivano. Uno dei siriani ha spento la videocamera. Gli ho detto di riaccenderla ma lui non non lo faceva. Così ho chiamato gli altri e uno dei miei compagni gli ha puntato la pistola contro. Gli ha detto: accendi sennò ti ammazzo.

Perché aveva spento la videocamera?

Dopo qualche minuto ho visto una fila di carri armati seguiti da tante persone a piedi. Così abbiamo capito il loro piano. I due siriani erano scappati e noi ci siamo trovati in cinque contro centinaia di persone. Abbiamo iniziato a sparare alla cieca, perché nel buio non vedevamo niente. Forse abbiamo fatto tanto rumore, perché i terroristi sono scappati.

Per quanto tempo sei stato di guardia?

Per sei mesi, poi mi hanno dato un mese di congedo così sono tornato in Iran.

Tua madre sapeva che eri in guerra?

No, non sapeva nulla. Le ho fatto credere che mi avevano scarcerato. Avevo paura, non volevo più tornare in Siria.

Sei stato riconvocato?

Dopo un mese mi hanno telefonato per chiedermi di andare a prendere il mio permesso di soggiorno. Ma sapevo che si trattava una bugia.

Quale permesso di soggiorno?

Quelli che combattono in Siria ricevono un permesso di un anno, così se muoiono le loro famiglie ricevono la cittadinanza iraniana. Quindi conviene morire.

E intanto la tua famiglia non sapeva niente.

Un giorno sono venuti a casa a cercarmi, così mia sorella ha scoperto che ero stato in Siria. Se mia madre avesse capito che sarei dovuto tornare a combattere sarebbe morta. L’unica soluzione era fuggire dall’Iran.

Come?

Mia sorella mi disse che i nostri vicini di casa erano in procinto di partire per l’Europa. Così qualche giorno dopo sono partito con loro.

Come ti sei potuto permettere il viaggio?

La mia famiglia ha venduto tutto. Le mie sorelle hanno lasciato gli studi e si sono messe a lavorare.

E tu sei arrivato sano e salvo.

Con tanta difficoltà. Ho visto morire diverse persone durante il viaggio. E alla fine sono arrivato in Svezia. Mi piace tanto, ma ora non so cosa fare.

Che ti succederà in caso di un’altra risposta negativa?

Non lo so, forse mi suiciderò? Mi manderanno in Afghanistan. Lì non conosco nessuno quindi sicuramente tornerei in Iran, qualora riuscissi ad arrivarci vivo. In Iran potrebbero rimandarmi a combattere in Siria dove, con buone possibilità, potrei morire. In questo caso le mie sorelle riceverebbero la cittadinanza e potrebbero tornare a studiare. Ma io voglio vivere.


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