di Daniele Bordoli
È il quarto anno che il rally Dakar attraversa la Bolivia, ma mai come quest’anno le polemiche e le proteste sono state così accese. Per il primo anno, infatti, la rassegna ha interessato non solo la zona del deserto di sale di Uyuni, ma tutta la Bolivia, entrando da Tupiza e tagliandola fino a Oruro e alla sede di governo La Paz, per poi ritornare in argentina proprio nei pressi del salar.
E la vittoria dell’idolo di casa Walter Nosiglia (successivamente ritiratosi), su quad, nella prima tappa boliviana, ha acceso gli animi di appassionati e sostenitori della kermesse giunta ormai alla trentasettesima edizione. Forte, infatti, l’afflusso di pubblico per le strade di La Paz il 7 gennaio. Plaza S. Francisco e avenida Camacho sono colme di gente per acclamare e sostenere i piloti al loro passaggio, per sventolare il tricolore dello Stato Plurinazionale di Bolivia. Intensa è stata, infatti, l’azione di propaganda del governo che dipinge l’arrivo della Dakar come un momento storico per il paese, una sorta di riconoscimento internazionale che porterà visibilità e ricchezza al secondo stato più povero dell’America Latina.
Ma è davvero così? Secondo i “dissidenti”, che si sono dati appuntamento all’avenida Montes, sul percorso della tappa poco prima della passerella nella piazza centrale, no. Recuperando i temi delle proteste che già sono state presenti lungo il tragitto (a Tucuman, Argentina), la Dakar è descritta come “il più recente episodio di colonialismo, dove alcuni ricchi giocano all’avventura inquinando vite e ambiente”. L’opposizione si sviluppa su due macroargomenti principali: quello ambientale e quello economico.
Nel comunicato dei contestatori sono diversi i punti sviluppati, corredati da numerosi dati. 69 sono gli uomini morti dal 1979 ad oggi a causa del rally, migliaia di animali selvatici vengono colpiti ogni anno dalle auto in transito, più preoccupate di rispettare i tempi che la natura, e 200 sono i siti archeologici distrutti o rovinati.
Sebbene l’organizzazione finanzi un progetto per pareggiare i danni ambientali causati, sostenendo progetti in Amazzonia e riciclando quasi il 100% dei rifiuti, è comunque forte l’impatto di diossido di carbonio rilasciati in luoghi naturali che dovrebbero essere protetti con maggior cura, come il Salar de Uyuni, la più grande distesa di sale sulla terra, e in diverse comunità che eviterebbero volentieri il passaggio della carovana ma che vi sono costrette. C’è anche chi sostiene che l’evento sia più che altro utile per esperimenti militari, al fine di testare veicoli, sospensioni e altri trasporti su ogni tipo di terreno e che proprio per questo si svolga da sempre in paesi ritenuti instabili dal punto di vista politico. È inoltre da tenere presente che il governo boliviano spende diversi milioni di dollari (l’anno scorso circa 4.000.000) per ospitare la Dakar, in logistica e pubblicità all’evento e il ritorno in visibilità e turismo è poco rilevante, viste anche le nuove norme che prevedono una tassa extra all’ingresso per gli stranieri. E in un paese dove l’acqua scarseggia, la sanità pubblica è inadeguatamente sviluppata e le scuole vedono costantemente superare il numero di 40 alunni per classe, forse le priorità dovrebbero essere altre.
E proprio questo chiedevano i quattro attivisti arrestati e rilasciati dopo qualche ora nel giorno della festa per aver mostrato cartelloni di contestazione. I muri di La Paz sono ormai colmi di scritte pro e contro Dakar, ma la vita nel bivacco ufficiale allestito al collegio militare di Irpavi, nella zona Sur, scorre tranquilla, tra una partita a biliardo e un nuovo settaggio dei mezzi, piloti e meccanici hanno altro a cui pensare, e il circo proseguirà, mentre da fuori continueranno gli slogan “Fuori la Dakar dalla Bolivia, fuori dall’America Latina”.
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