di alessandro pagano dritto – @PAGANODRITTO
Ancora, un’altra volta, di nuovo. È questo il significato di Otra Vez, come si intitola, anche nell’edizione italiana curata da Gianni Minà ed edita nello stesso anno dell’originale, il secondo diario di viaggio di Ernesto Guevara, scritto tra il 1953 e il 1956 (Ernesto Guevara, Otra Vez. Il diario inedito del secondo viaggio in America Latina (1953-1956), Sperling & Kupfer Editori, 2000, pp. 197).
È forse questo il viaggio meno noto compiuto da Guevara per i paesi dell’America Latina e dell’America centrale, parendo più conosciuto il primo, quello compiuto in compagnia dell’amico Alberto Granado e raccontato nel volume Latinoamericana pubblicato in Italia da Feltrinelli nel 1993. La testimonianza della diversa fortuna dei due volumi sta forse anche in un film, I diari della motocicletta, tratto dal primo volume, mentre dal secondo, da questo Otra Vez, non risulta sia stato tratto alcun che.
I motivi di questa diversa notorietà potrebbero derivare direttamente dalle pagine di Guevara e dal diverso trattamento che lui stesso riservò i due testi.
Latinoamericana è una rielaborazione letteraria degli appunti presi durante il primo viaggio e si presenta dunque al lettore in modo più organico e uniforme di quanto non faccia questo secondo volume. C’è un motivo.
Alla fine di questa seconda esperienza, quando si trovava in Messico, Guevara, che fino ad allora aveva pensato ad un modo per tirare a campare e prolungare il suo viaggio fino all’Europa e alla Cina, conobbe un giovane esule cubano, uno dei tanti che per la verità incrociò nel 1956 nel paese dell’America Centrale. Col senno di poi, sapendo che ruolo avrebbe avuto questo esule nella futura storia dell’isola caraibica, fa strano trovarselo in quattro righe – le uniche che lo nominano esplicitamente in tutto il diario – tra, parole testuali di Guevara che sarebbe inutile qui inquadrare, «palle di nafta incendiata» e «secchi di merda che ci siamo beccati noi tre», da una parte, e la «fallita scalata del Popo» dall’altra.
«Un avvenimento è aver conosciuto Fidel Castro, – scrive dunque Guevara – il rivoluzionario cubano, un ragazzo giovane, intelligente, molto sicuro di sé e di straordinaria audacia; credo che abbiamo simpatizzato reciprocamente» (p. 100)
Sarà proprio quell’incontro, chiariranno poi altrove gli storici, a convincere Guevara ad abbandonare i suoi vagabondaggi e ad unirsi alla causa rivoluzionaria cubana, che nella sua mente era solo una prima fase della causa rivoluzionaria umana. Ma questa è un’altra storia di cui, probabilmente per ovvie ragioni di sicurezza richieste dalle condizioni del momento, nel diario non troviamo traccia diretta. Nelle lettere alla madre pubblicate in questa edizione a completamento del testo, Guevara parla, con linguaggio sibillino, di un «poco di ginnastica» (p. 180) che chi ne conosce la storia non fatica a interpretare come le attività fisiche di addestramento attuate in ottica della futura guerriglia cubana.
In ogni caso il diario finisce in modo tronco, inatteso, in un momento imprecisato dopo il febbraio 1956; segno che qualcosa ha costretto l’autore a fermarsi di botto. Leggiamo infatti, prima della pagina bianca, un proposito di scrittura mai realizzata:
«Quest’anno potrebbe essere importante per il mio futuro. Ormai ho lasciato gli ospedali. Scriverò più dettagliatamente» (p. 113)
Il fatto è che i preparativi per la spedizione di Cuba sono in corso e la polizia messicana sta dietro al gruppo di Castro: sappiamo dagli articoli in appendice al diario che quell’estate Guevara e altri futuri guerriglieri vengono arrestati.
Ma pare suggestivo, anche se non necessariamente corretto da un punto di vista, per così dire, filologico, far coincidere la pagina improvvisamente bianca con quanto scrive lo storico Paco Ignacio Taibo II in una fondamentale opera biografica su Guevara, fotografando il momento del brusco abbandono del Messico. È il 24 novembre 1956:
«Il Che lascia il letto sfatto, la cannuccia per il mate rovesciata e i libri aperti. Qualche giorno dopo, quando i suoi amici si preoccupano e aprono la porta forzando la serratura, scoprono i resti delle sue ultime letture in Messico: Stato e rivoluzione di Lenin, Il Capitale di Marx, un’opera di Germàn Arciniegas, un manuale di chirurgia di emergenza e Come agisce il capitale yankee in Centroamerica» (da P. Ignacio Taibo II, Senza perdere la tenerezza. Vita e morte di Ernesto Che Guevara, Il Saggiatore, 2004 (1a ed.), p. 122)
Questa conclusione tronca, dovuta dunque a ciò che la Storia ormai racconta, appare in perfetta sintonia col carattere abbozzato, frammentario, sconnesso, tipico di un diario di appunti. Carattere che ne rende ora difficoltosa ora nebulosa ed ellittica la lettura – con personaggi che vanno, vengono, compaiono e spariscono, un po’ a piacimento – ma che d’altro canto ne costituisce per certo la cifra e il fascino. In questo senso, per questo stile, Otra Vez è forse meglio paragonabile ad un altro, ben più fortunato e noto, diario di Guevara: l’ultimo, che ne racconta la fatale guerriglia in Bolivia e che per forza maggiore seguì vicende editoriali più simili a questo.
Rispetto a Latinoamericana, Otra Vez è forse un diario più centrifugo, se il lettore consentirà il termine. Lì avevamo alcuni personaggi inseparabili, o quasi, che ruotavano stabilmente attorno a Guevara: l’amico Alberto Granado, compagno affine di avventura, desiderio e pensiero, e persino una moto entrata anche lei un po’ nella leggenda di Guevara, la Poderosa II, lasciata con nostalgia quando morì senza più avviarsi a un certo punto del percorso.
Qui, in Otra Vez, non abbiamo nulla di tutto questo, si perdono con più facilità i riferimenti. Ci sarebbe in realtà un iniziale compagno di avventure, Calica; ma sparisce presto, non può essere considerato una spalla di Guevara più di molti altri, altrettanto fuggenti, personaggi. Scriverà l’argentino alla madre Celia, ricordando l’amico del primo viaggio:
«Alberto sognava con tutta l’anima di sposare principesse inca e recuperare imperi. Calica impreca contro la sporcizia e ogni volta che calpesta una delle innumerevoli cacche che decorano le strade, invece di guardare il cielo e una qualche cattedrale stagliata nello spazio, si guarda le scarpe insudiciate. Non annusa questa impalpabile materia evocativa che è Cuzco, ma l’odore di fritto e di merda; questione di temperamento» (p. 117)
Il vantaggio di questa polifonia è la ritrattistica che Guevara si propone di fare quando le giornate diventano noiose e tutte uguali, magari in attesa che la burocrazia di una qualche dogana o di una qualche ambasciata si sblocchi e ne modifichi la condizione forzatamente immobile: sono, questi brevi e incisivi ritratti, fugaci come fugaci erano gli appunti nel taccuino, uno degli aspetti forse più godibili di queste pagine. Basti qui un esempio per tutti:
«Hugo Blanco, alias la Vecchia, giovane giovane e poeta. Cattivo poeta. Non credo neppure che sia una persona intelligente. Il tratto che sembra caratterizzarlo completamente è la bontà. Un sorriso di ragazzo buono accompagna sempre il poeta» (p. 82)
Anche in virtù dell’intelligente scelta editoriale di integrare il diario con lettere e articoli dell’epoca, Otra Vez darà al lettore l’immagine completa del Guevara immediatamente prerivoluzionario: un politico già convinto, indirizzato e intransigente, ma anche e molto più un amante dell’avventura, della scoperta, dell’arte; un fotografo e medico, un lettore, un osservatore attento della storia e della natura; insomma un poliedrico di cui qui, in una recensione, non si è potuto rendere conto.
Un essere umano per certi versi niente affatto eccezionale e fuori dal comune – quale revisione e quale pubblicazione avrebbero mantenuto, c’è da scommettersi, la «negretta […] più puttana di una zoccola» di cui si legge a pagina 32? – ma forse proprio per questo più umano, fallibile e vicino di quanto il mito successivo non possa rendere.
In una sintesi perfetta dell’irriverenza linguistica e della fermezza politica, del realismo dell’uomo e dell’iperbole dell’idealista, si legge in una lettera del 1956:
«Non solo non sono moderato, ma cercherò di non esserlo mai e quando mi accorgerò che la sacra fiamma ha lasciato il posto a un timido cero votivo, il meno che potrò fare sarà mettermi a vomitare sulla mia stessa merda» (p. 178)
Immagine di copertina: Foto di gruppo messicana. Guevara è il secondo seduto a sinistra, mentre la figura con gli occhiali da sole alla sinistra – per l’osservatore, a destra – dell’unica figura femminile dovrebbe essere Fidel Castro. Fonte: www.lavozdelsandinismo.com
Profilo dell'autore
- Il primo amore è stato la letteratura, leggo e scrivo da che ne ho memoria. Poi sono arrivati la storia e il mondo, con la loro infinita varietà e con le loro infinite diversità. Gli eventi del 2011 mi lasciano innamorato della Libia: da allora ne seguo il dopoguerra e le persone che lo vivono, cercando di capire questo Paese e la sua strada.
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