Nati e cresciuti da esuli, non si sentono rappresentati e sono disposti a tutto per raggiungere l’Europa
Rama è una ragazza palestinese che vive in un campo profughi del Libano e sogna di diventare una giornalista. È allieva di Luca Steinmann, che alla Scuola del giornalismo per i giovani palestinesi del Libano sostenuta da Lebanon Support e Majed Abu Sharar Foundation insegna fotogiornalismo e film-making.
Rama sa che dentro un campo profughi non potrà mai essere una giornalista professionista. Ma lei sogna l’Europa. Nei suoi racconti spesso parla della Palestina e del desiderio di tornare in quella che sente essere la sua terra, pur non avendola mai vista. Migrando in Europa, dice, un giorno potrebbe ottenere un passaporto europeo con il quale recarsi in Israele, cosa che oggi le viene impedito. In Europa, dice, otterrebbe i diritti che qui le sono negati.
“Mi piacerebbe raggiungere i miei fratelli in Germania, lì potrei ricevere un’educazione migliore da mettere a disposizione della causa palestinese” ha spiegato a Luca Steinmann, che da tempo documenta la situazione all’interno dei campi profughi palestinesi del Libano. Una situazione incandescente, che può portare a una nuova stagione di sangue all’interno dei campi stessi. E che sta spingendo tanti giovani nati e cresciuti lì a sfidare il mare per raggiungere l’Europa. Abbiamo chiesto a Steinmann di raccontarci l’impasse politico e sociale che ha di fatto trasformato i campi in Libano in una polveriera da cui tutti vorrebbero fuggire.
Perché in Occidente sappiamo poco della situazione nei campi profughi palestinesi in Libano?
Perché generalmente la stampa e la politica occidentale si interessano dei conflitti che coinvolgono militarmente le potenze occidentali, che generano morti di persone occidentali o che si manifestano in terra occidentale. Non è il caso dei campi profughi palestinesi del Medio Oriente, all’interno dei quali è in atto una conflittualità che lascia a terra solo i suoi abitanti. Ci sono però anche altri motivi: i campi profughi palestinesi del Libano, ma anche della Siria e della Giordania, sono abitati dai discendenti degli esuli che dovettero abbandonare la Palestina a partire dal 1948 a seguito della fondazione di Israele e delle guerre ad essa connesse. Gli accordi di pace tra Israele e le autorità palestinesi del 1993 hanno visto l’accettazione da parte dell’OLP della cosiddetta soluzione a due Stati, cioè il riconoscimento della legittimità di Israele ad esistere. Questa scelta impedisce di fatto il rimpatrio degli esuli palestinesi, che sono stati dunque abbandonati totalmente a se stessi e tra i quali la fiducia verso l’OLP è oggi ai minimi storici.
Parlare dei loro campi profughi significherebbe ricordare al mondo che la risoluzione del conflitto arabo-israeliano è lontana. Significherebbe fare sapere che è da questi campi che partono decine di migliaia di migranti per l’Europa e che quindi l’immigrazione è fortemente collegata anche al conflitto arabo-israeliano. Significherebbe fare sapere che il consenso tra i palestinesi verso le proprie autorità è ai minimi storici e che il vuoto di potere da esse lasciato, figlio della decisione di riconoscere la legittimità dell’esistenza di Israele, rischia di venire colmato da compagini terroristiche islamiste. Significherebbe ricordare a tutti gli arabi, che mai come oggi sono stati in conflitto tra loro, che hanno tutti un nemico, cioè Israele, e una causa, quella palestinese, che li accomuna. Finché i palestinesi “si ammazzano tra di loro” difficilmente ci sarà l’interesse occidentale di parlare dei loro campi. Eppure parlarne sarebbe nell’interesse dell’Occidente, perché la loro esistenza è uno dei motori dell’immigrazione dal Medio Oriente verso l’Europa.
Chi controlla i campi profughi?
I campi profughi palestinesi sono fin dalla loro nascita dei veri e propri stati nello stato all’interno dei quali le autorità dei paesi ospitanti de facto non hanno giurisdizione. Gli esuli vivono nell’eterna attesa di tornare in Palestina, obiettivo condiviso da tutti i governi che li ospitano. Ogni tentativo di assimilazione all’interno della società ospitante è stato sempre visto come una minaccia per i diritto al ritorno. I campi sono da sempre sotto il controllo armato delle autorità palestinesi, che negli ultimi anni stanno perdendo però piede.
Ci sono infiltrazione dell’Isis o di altre formazioni fondamentaliste all’interno dei campi?
Sì, i gruppi terroristici sono composti principalmente dall’Isis e da Jabhat al Nusra, che hanno preso il controllo di alcuni campi o di parti di essi. In Libano la loro presenza è forte soprattutto all’interno del campo di Ein el Hilwee, dove è in corso una continua conflittualità che coinvolge tutti: l’Isis, al Nusra, gruppi legati a Hezbollah, al Fatah e tanti altri gruppi. Si tratta di un vero e proprio territorio di guerra, tanto che le Nazioni Unite hanno temporaneamente dovuto abbandonare le proprie postazioni perché non in grado di difenderle. Non c’è da stupirsi se molti giovani vogliano fuggire per migrare in Europa. Dobbiamo riconoscere un dato di fatto: il vuoto di potere lasciato dalle autorità palestinesi, la presenza dei terroristi e lo sradicamento dei palestinesi sono tra i principali motori dell’immigrazione.
Non va dimenticato che prima che scoppiasse la guerra in Siria vi fu un analogo tentativo di rivoluzione islamista in Libano, quando 300 terroristi legati ad al Qaeda e provenienti da tutto il mondo (Siria, Libano, Kuwait, Marocco, Giordania, Afghanistan, Arabia Saudita) presero il controllo del campo profughi palestinese di Nahr el Bared, a Tripoli, vicino al confine tra Siria e Libano. In quell’occasione i terroristi diedero vita ad una guerra contro lo Stato libanese in nome del diritti dei palestinesi e della loro causa. Dopo diversi mesi le truppe libanesi li sconfissero e li cacciarono, radendo però a suolo Nahr el Bared a suon di bombe e missili. La gravità di quanto avvenuto non è da sottovalutare. Ciò mostra chiaramente come tra le strategie dei terroristi vi sia quella di occupare gli spazi vuoti nei campi palestinesi per concretizzare i propri progetti.
Possiamo dire che nei campi profughi palestinesi in Libano è in corso una guerra civile?
Si tratta di una guerra civile all’interno di una guerra civile più ampia. Tutto il Medio Oriente è dilaniato dal conflitto tra sciiti e sunniti, i palestinesi dei campi profughi non hanno preso un’unica posizione a favore dei primi o dei secondi ma si sono divisi in diverse fazioni che hanno giurato fedeltà agli sciiti piuttosto che ai sunniti. In diversi campi, dunque, si sta assistendo ad una guerra tra diverse fazioni di palestinesi con diversi vincoli di fedeltà. Alcuni gruppi hanno giurato fedeltà all’OLP, altri ai jihadisti, altri ai partiti sunniti radicali vicini all’Arabia Saudita, altri ancora al regime siriano e a Hezbollah. Le varie componenti antagoniste del mondo islamico si stanno combattendo all’interno dei campi tramite le proprie braccia armate palestinesi, a pagare col sangue sono gli esuli che si trovano in casa una guerra non propria.
Cosa rappresenta l’Europa per i giovani palestinesi che vivono lì?
L’Europa rappresenta la possibilità di avere una patria alternativa rispetto a quella che, secondo loro, gli ebrei non permettono loro di avere. Parlando con molti giovani palestinesi è evidente che le sofferenze che sentono maggiormente non sono né la guerra né le difficili condizioni nei campi, bensì l’assenza di una patria, l’assenza di un posto in cui poter far ritorno e poter chiamare casa. I giovani palestinesi si sentono abbandonati da tutti: dai governi dei Paesi che li ospitano che non li considerano come propri figli, dalle proprie autorità che hanno accettato la soluzione a due Stati, dalle Nazioni Unite che hanno loro promesso il ritorno in patria ma che non vedono agire concretamente perché mettano in atto quanto dicono.
In questo contesto le parole di alcuni politici europei sentite in televisione o sui social che dicono di voler garantire ai migranti un futuro dignitoso rappresentano uno stimolo fortissimo che spinge tantissimi palestinesi a raccogliere tutti i soldi che hanno per darli ai trafficanti e attraversare il Mediterraneo su una barca. Possiamo dire che le condizioni di spaesamento e assenza di una patria in cui vivono sono gli elementi più forti che li rendono facili vittime dello sfruttamento dell’immigrazione. Sono persone che sentono di non avere nulla da perdere, dunque dei clienti perfetti per i trafficanti. Ciò fa si che nei campi ognuno viva nell’opzione migratoria. E per questo spesso si crea un’idea paradisiaca di Europa che difficilmente combacia con quanto poi si trova una volta migrati.
In che modo i media libanesi raccontano l’odissea dei migranti che dalla Siria e dal Libano si dirigono verso l’Europa?
I media libanesi ripropongono generalmente l’immagine di Europa che viene proposta dalle grandi tv mainstream. La descrizione che la stragrande maggioranza dei giovani percepisce dell’Occidente è di un mondo ricco e dalle infinite possibilità. I messaggi che ricevono dalle televisioni internazionali creano in loro aspettative enormi. Tantissime persone sono salpate per l’Europa rischiando la vita e spendendo migliaia di euro solo dopo aver visto in televisione la famosa foto di Angela Merkel che fa un selfie con un migrante. Una foto del genere fa passare l’idea che in Europa tutto sia possibile e che le possibilità di successo siano enormi e rapide. Raramente i media si soffermano a parlare delle difficoltà che processo di integrazione. Quasi tutti coloro che ho conosciuto lamentano le difficoltà nell’integrarsi, tant’è vero che non sono pochi i casi di persone che, una volta migrate, decidono di tornare indietro.
Ciò nonostante l’attrazione che l’Europa esercita è ancora fortissima e passa molto anche dai social. Vedendo le foto postate su Facebook dei propri coetanei migrati in molti decidono di partire a loro volta. Ci sono anche tanti casi di persone che in Europa si trovano in condizioni ben peggiori rispetto a quelle originali, ma che non fanno marcia indietro per non disilludere le aspettative della famiglia o per non infrangere la descrizione positiva con cui raccontano la propria vita attraverso i social.
I giovani palestinesi che sognano l’Europa continuano la loro battaglia contro lo Stato d’Israele. Che forma prende la militanza in seguito alle migrazioni?
Né la politica europea né i grandi media hanno mai affrontato una questione fondamentale per tutta l’Europa. Decine di migliaia di persone arrivate nel 2015 in occasione dell’apertura delle frontiere promossa da Angela Merkel non sono in realtà siriani, ma palestinesi nati e cresciuti in Siria. Tutte queste persone vedono in Israele il proprio principale nemico e dicono di essere determinate a combatterlo per poter tornare in Palestina. In molti motivano la propria scelta di migrare in Europa con il fatto di voler ricevere un’educazione da mettere a disposizione della propria lotta e per ottenere con gli anni un passaporto di una nazione europea che permetta loro di tornare in Palestina.
Ora, non è detto che tutti loro poi mantengano quanto detto. Si tratta però di un fatto che, se diventasse noto, avrebbe un significato politico centrale per tutta l’Europa. La Germania, nazione leader nel processo di formazione di un’identità europea che ha accettato decine di migliaia di palestinesi, ha un rapporto molto stretto con Israele e con la sensibilità ebraica, figlio soprattutto del forte senso di colpa e di vergogna che la maggior parte dei tedeschi prova da dopo la Seconda Guerra Mondiale. La vicinanza con Israele è anzi una delle assi portanti della reinvenzione identitaria che le autorità germaniche stanno promuovendo e sulla quale si basa il processo di integrazione europea. Rendendo noto che tantissimi militanti palestinesi fortemente anti-israeliani sono entrati in terra tedesca si metterebbe sotto attacco chi ha permesso tutto ciò, ossia Angela Merkel e la sua amministrazione.
Può l’educazione essere la soluzione per dare una prospettiva ai giovani palestinesi dei campi profughi?
L’educazione è la base per poter garantire un futuro a questi ragazzi. Non serve mandare nei campi aiuti alimentari, lì nessuno muore di fame. Sarebbe più importante creare delle iniziative che responsabilizzino le nuove generazioni e puntino alla formazione di una classe dirigente. È questo ciò che manca veramente.
Tanti palestinesi dei campi profughi del Libano vivono nell’eterna attesa che qualcuno faccia qualcosa per loro, è importante invece che capiscano che hanno tutte le qualità e i mezzi per diventare padroni del proprio destino. È importante investire sulla loro formazione. È importante impegnarsi per decolonizzare la loro mentalità, per renderli protagonisti del proprio futuro. È importante trasmettere loro il messaggio che l’immigrazione può essere una soluzione qualora sia una scelta responsabile e con alle spalle un progetto lungimirante e che non deve essere una fuga. Questo non è solo nell’interesse loro, ma anche di noi europei che con i processi migratori siamo sempre più parte delle logiche che interessano il Medio Oriente. Logiche che possono sembrare oggi lontane, ma che sono l’origine dei dibattiti e di molte delle contraddizioni che interessano le nostre società.
Profilo dell'autore
- Corrispondente dall'Italia per vari media della Serbia degli altri paesi dell'ex Jugoslavia, vive in Italia dal 2006 e da allora ha collaborato con molte riviste di geopolitica italiane e internazionali. Attualmente scrive per Al Jazeera Balkans e per la versione in serbo della BBC. È membro dell'International Federation of Journalist e dal marzo 2020 è il Consigliere Delegato dell'Associazione Stampa Estera Milano
Dello stesso autore
- Italia8 Novembre 2020Il bosco della droga di Rogoredo, oggi
- Europa2 Ottobre 2020Gli interessi della Casa Bianca dietro l’accordo tra Serbia e Kosovo
- Europa12 Luglio 2020Serbia, una rivolta contro le bugie del governo sul Covid-19
- Europa8 Febbraio 2020Il neofascismo croato e i muri dell’odio