di Julio Monteiro Martins*
Nel 1981 ero tornato in Brasile dopo aver passato qualche anno nelle università degli Stati Uniti imparando le tecniche dei laboratori di scrittura, i writers workshop, una vecchia tradizione anglo-sassone allora ancora sconosciuta in Brasile. Proprio in quegli anni un anziano critico letterario e allora professore alla Universidade di Rio de Janeiro, Afrânio Coutinho, aveva trasformato la sua propria casa, in Ipanema, in una Scuola di Scrittura, la OLAC, la prima del paese, e mi ha invitato a creare lì il mio Laboratorio di Narrativa. I suoi figli erano già grandi, e lui ormai vedovo e, già ottantenne, era quasi cieco. Dormiva in una brandina messa tra due librerie al terzo piano, tutto il resto della grande casa era dedicata alla scrittura, e quell’amore e sacrificio per lo sviluppo della letteratura in Brasile mi hanno così colpito che non mi sono mai scordato di quell’esempio di letteratura vissuta non come parte dell’industria dell’intrattenimento, ma come missione e sacerdozio.
Tra i libri scritti dal Professor Coutinho, che negli anni, dopo un lungo periodo negli Stati Uniti aveva introdotto il new criticism in Brasile, ce n’era uno sulla famosa polemica Alencar/Nabuco, una discussione pubblica tra due grandi intellettuali brasiliani dell’Ottocento, combattuta sulle pagine dei giornali nell’anno 1875, su quale dovrebbe essere l’identità della futura letteratura brasiliana. La questione centrale dell’identità si faceva presente per la prima volta in quella polemica, per diventare la grande questione della letteratura brasiliana fino ai giorni nostri. Partita come “ricerca di un’identità”, la nostra letteratura finisce con creare e costruire brillantemente questa stessa identità.
La cultura brasiliana si rivolge al futuro, non perché abbia paura o vergogna del proprio passato, con cui fa i conti tutti i giorni, ma perché è innamorata del progetto del Brasile, dell’idea stessa di Brasile, di ciò che il Brasile ha la possibilità, anzi la forte probabilità, l’intima certezza di diventare, di essere.
Tornando alla polemica Alencar/Nabuco, non era la prima volta che quella polemica era stata oggetto di studio e di analisi. Già negli anni ‘50 Múcio Leão, e in seguito Brito Broca avevano sottolineato la sua importanza germinale per la nostra letteratura. Ma senz’altro il libro di Coutinho è stato quello più completo a riguardo.
La polemica coinvolgeva due grandi scrittori: José de Alencar, romanziere del Ceará, accusato dagli avanguardisti di essere ancora troppo legato ad una visione romantica della letteratura. Autore dei grandi classici dell’Indianismo, “Iracema”, “Ubirajara”, “O Guaraní”. Opere che dipingevano con tinte eroiche e sentimenti nobili, da paladini del medioevo, i nativi del Brasile di allora, in realtà a quel punto ormai sconfitti dal conquistatore europeo e in via di estinzione come cultura incontaminata.
Dall’altra parte c’era
Joaquim Nabuco, intellettuale di Recife, città dello stato di Pernambuco. Aveva vissuto all’estero, in Europa, dal 1873 al 1878.
Portava a Rio de Janeiro le idee più moderne del suo tempo, un uomo di cultura cosmopolita, era stato il più grande teorico dell’Abolicionismo, il movimento per l’abolizione della
schiavitù in Brasile, che aveva dato origine alle potenti poesie di Castro Alves, come “Navio Negreiro” e “Vozes D’Africa”, un poeta di ferventi convinzioni anti-schiaviste, morto “romanticamente” all’età di 24 anni.
Joaquim Nabuco, il mentore di Castro Alves, era un cittadino del mondo, attratto dallo “spettacolo del suo secolo” come ha scritto in “Minha Formação”. E al contrario di José de Alencar, non dava particolare enfasi all’ambiente brasiliano, ma cercava nel Brasile quello che lo accomunava alle nazioni sviluppate dell’Occidente, la Francia, l’Inghilterra e già gli Stati Uniti, dove sarebbe stato ambasciatore negli anni successivi. Le sue idee accentuavano e valorizzavano la dipendenza occidentale della cultura brasiliana. Un’influenza secondo lui fortunata e benedetta per il futuro del Brasile.
Erano due visioni diverse, in conflitto tra di loro, che cercavano di conquistarsi il territorio dell’immaginario nazionale: La visione “nazionalista” e la visione “occidentalista”.
Il grande romanziere Joaquim Maria Machado de Assis, che ancora giovane aveva accompagnato da vicino la polemica tra Alencar e Nabuco, anni più tardi, già alla fine dell’Ottocento, avrebbe costruito un’opera che sarebbe stata la sintesi di queste due posizioni apparentemente inconciliabili, un’opera allo stesso tempo universale e profondamente brasiliana. Susan Sontag considera Machado il più grande scrittore delle Americhe del Diciannovesimo secolo, una sorta di Balzac del Nuovo Mondo, superiore a Melville o a Hawthorne, costruttore di una narrativa ancora più alta. Il romanzo “Memórias póstumas de Brás Cubas”, per esempio, ha anticipato alcune grandi innovazioni nella narrativa, presentando una sofisticazione psicologica che sarebbe riapparsa soltanto alcuni decenni più tardi nelle opere di autori come Svevo, Marcel Proust o Virginia Woolf.
La ricerca tormentata di un’identità nazionale finisce per diventare – e questa è la grande fortuna della letteratura brasiliana – un esercizio straordinario di creazione di un’identità, utilizzando i fatti storici e sociali come spunto per una vera effervescenza dell’immaginario collettivo, ancora oggi attiva, e cercando di stabilire – e qui uso le parole dell’antropologo Roberto da Matta: “Ciò che rende il brasile, Brasile”. Una ricerca dell’identità che si trova per esempio in un libro magnifico dell’antropologo Darcy Ribeiro, “O Povo Brasileiro”, e nell’opera che in un certo senso è stata la sua origine e ispirazione, “Casa Grande e Senzala” di Gilberto Freyre, pubblicato in Italia col titolo di “Padroni e schiavi”, due libri stupendi, in cui il Brasile si spalanca dinanzi a noi, sensuale, molteplice e pieno di energia storica, gravido di futuro, con l’odore delle sue piante, delle sue spiagge, delle sue case, dei suoi corpi lucidi di sudore.
Agli albori del Novecento è apparso un altro grandissimo romanzo, “Os Sertões”, de Euclides da Cunha, che lo scrittore argentino Jorge Luis Borges considerava il più bel romanzo delle Americhe, era il suo romanzo preferito. Da Cunha racconta la guerra intestina al Brasile del 1896, più tardi riproposta da Mario Vargas Llosa in “La guerra della fine del mondo”, tra i fanatici religiosi di Antônio Conselheiro, leader carismatico e messianico del territorio libero di Canudos, e l’esercito dell’appena nata Repubblica del Brasile. Dopo diverse battaglie in cui l’esercito repubblicano è stato sconfitto, alla fine c’è il ribaltamento della situazione e il completo annichilimento di Canudos, una Cartagine in pieno sertão di Bahia. Su quel Brasile profondo, sulla gente che l’abitava, Euclides da Cunha scrisse: “O sertanejo é antes de tudo um forte!” (L’uomo del sertão è innanzitutto un forte.) E potrebbe aver detto lo stesso, per estensione, del popolo brasiliano nel suo insieme, che con quell’opera era emerso in modo dirompente nella nostra letteratura, e da quel momento in poi sarebbe stato il protagonista indiscusso.
Questo crocevia delle possibili identità del Brasile si è manifestato fortemente un’altra volta all’inizio degli anni 20, nel Centenario dell’Indipendenza del paese, quando dei giovani intellettuali e artisti, soprattutto di São Paulo, tornati dall’Europa dove erano stati a contatto con le avanguardie nascenti, con il Futurismo soprattutto, ma anche con il Surrealismo, il Dadaismo e il Cubismo, hanno allestito la Settimana di Arte Moderna a São Paulo, un evento sconvolgente per l’epoca, che sovvertiva il gusto e il canone fino ad allora imperanti, con accesi scontri tra i suoi difensori e i suoi detrattori, un po’ come era avvenuto a Parigi nella prima mostra degli Impressionisti al Salon des Refusées.
* Dalla conferenza di Apertura del Seminario “Storia della letteratura brasiliana”, all’Ambasciata del Brasile a Roma, il 15 Ottobre 2009.
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