“Mio padre è condannato a morte perché è un giornalista indipendente”

Il caso di Yahya Abdul Raqeeb Al-Jubaihi è un pericoloso spartiacque. Per la prima volta un giornalista indipendente yemenita è stato condannato a morte dai ribelli houthi, che controllano la capitale Sana’a. È accusato di essere al soldo dei sauditi, che da marzo 2015 bombardano il paese.

“Una menzogna totale”. La figlia Bushra non ha dubbi: contro il padre c’è un disegno ben preciso che mira a sradicare il giornalismo indipendente dalla città. “La verità è che mio padre ha rifiutato di lavorare per gli houthi, sotto dettatura, come avrebbero voluto. Al contrario, ha scritto molti articoli critici, per giornali locali e internazionali, sul modo in cui le forze rivoluzionarie governano la città e sulla fame di potere di alcuni di loro”.

Bushra non parla con il padre dal primo settembre 2016, quando le forze armate houthi lo hanno prelevato da casa. Una settimana prima era toccato al fratello di Bushra, Hamzah. Al contrario del padre, Hamzah è ancora in attesa di capire di cosa è accusato.

“Mio padre non ha avuto la possibilità di difendersi, hanno fatto un processo farsa veloce e senza controparti”. E in effetti secondo Reporters sans frontières il processo a Yahya al-Jubaihi è ingiusto e una violazione del diritto internazionale. All’inizio i famigliari avevano ricevuto la garanzia che sarebbe stato rilasciato, era solo questione di tempo. Poi, inaspettatamente, la sentenza di morte.

Bushra lavora come marketing manager di un piccolo teatro della periferia di Goteborg. Ha lasciato per amore lo Yemen e sin da quando è atterrata in Svezia ha provato a convincere il padre a fuggire da Sana’a e a chiedere asilo in Europa. “Invano. Ama lo Yemen, per lui è come l’aria. Ha detto che non lo abbandonerà mai. Però sono certa che se mai dovesse essere liberato, smetterà di scrivere di politica. Chi l’ha visitato in carcere dice che è provato”.

Sessantadue anni, Jubaihi è membro del sindacato dei giornalisti arabi e insegna giornalismo all’Università di Sana’a. Negli anni Ottanta era stato responsabile dell’ufficio stampa del primo ministro. Nell’ambito della catastrofica situazione yemenita quella di Jubaihi può sembrare una goccia (secondo le Nazioni Unite, dall’inizio delle ostilità sono state uccise oltre 10.000 persone e circa l’80 per cento della popolazione ha bisogno di assistenza umanitaria), ma ben rappresenta cosa vuol dire cercare di fare informazione indipendente nel paese. Secondo Rsf, al momento sono sedici i giornalisti detenuti nelle aree controllate dai ribelli.

Il caso di Jubaihi è ampiamente discusso nei paesi arabi, mentre ha avuto scarsa copertura in Occidente, in linea con il poco spazio dedicato dai nostri media allo Yemen. Anche tra gli houthi si chiede a gran voce la sua liberazione. Ex colleghi ora sostenitori dei ribelli, politici e opinione pubblica stanno cercando di intercedere con i leader locali, spesso in disaccordo tra loro e mossi da interessi personali quando c’è da prendere decisioni.

“E dalla comunità internazionale silenzio totale”. Già, ma in questo caso, qual è la comunità internazionale a cui rivolgersi? Non certo i paesi arabi che sostengono i sauditi, né gli americani e gli inglesi complici dei crimini di guerra perpetuati contro i ribelli. “Stiamo provando a chiedere l’intervento, per ora invano, dell’ambasciatore russo. Ma la nostra ultima speranza è il sultano dell’Oman. Finora ha avuto un atteggiamento neutrale ed è molto ascoltato a Sana’a”.

Intanto dal carcere Jubaihi cerca di infondere speranza ai famigliari che hanno avuto la possibilità di vederlo dopo la sentenza del 12 aprile. “Ha preteso che mi venisse detto di non preoccuparmi”, dice Bushra mentre si accarezza la pancia. “Sa che in questo momento non devo essere stressata e lui vuole uscire dal carcere e diventare un buon nonno”.

[Imagine in copertina di Anders Ylander]


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