Quello che non abbiamo voluto sapere della guerra in Jugoslavia

Una lunga lastra nera situata in una via all’interno della Baščaršija, il vero centro cittadino, definisce Sarajevo come la città in cui si incontrano culture diverse, la città dove da centinaia di anni si ha un costante “meeting of cultures”. Una città di commercio, come ce la descrive Meša Selimović nei suoi romanzi, percorsa da uomini d’affari provenienti da Istanbul, da Venezia e da Spalato, e per questo inevitabilmente aperta al mondo e a culture diverse. E dunque, al momento dello scoppio della guerra nel 1992, anche “un fattore di complessità insopportabile, una contraddizione troppo forte rispetto al concetto di società chiusa” propugnato dai serbi bosniaci: così la definisce Paolo Rumiz nel suo libro e reportage di guerra Maschere per un massacro, pubblicato da Editori Riuniti nel 1996.

“In Jugoslavia” sostiene il giornalista triestino “la città diventa oggetto prima di tutto di rancore, poi di rapina e infine di distruzione”. Non è un caso allora che nell’agosto del 1992, la distruzione della Biblioteca Nazionale di Sarajevo, “il cuore della cultura bosniaca, la materia prima della sua civiltà, il legame tra passato e futuro”, sia subito stato percepito come uno degli eventi simbolo più potenti di quella guerra che si consumò nei Balcani e che portò alla dissoluzione della Jugoslavia, agli innumerevoli massacri compiuti ai danni dei musulmani – primo fra tutti quello di Srebrenica l’11 luglio del 1995 –, all’assedio di Sarajevo e alle colonne di profughi in fuga dalle loro case e dalle loro città. Guerra che Rumiz ha vissuto in prima persona come giornalista e che ha analizzato, raccontato e spiegato nei minimi dettagli, allo scopo di portare alla luce tutte quelle “maschere” indossate dai “banditi” criminali che si sono posti a capo di questa lunga guerra alle porte dell’Europa che ha causato, secondo il Centro di ricerca e documentazione di Sarajevo, almeno 93.837 morti fra civili e soldati.

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Alle suggestive descrizioni di una Sarajevo ancora risparmiata dalla guerra, in cui, come nei migliori racconti di Ivo Andrić, il suono del fiume Miljacka è più forte delle esplosioni e la gente ancora si riunisce nei bar e nelle taverne, Rumiz alterna capitoli in cui, pagina dopo pagina, si propone di smantellare le mistificazioni che sono sorte attorno a quegli anni bui e analizza quello che lui chiama “imbroglio balcanico”, ossia “un massacro costruito in laboratorio e sdoganato ai fessi come conflitto di civiltà, scontro tribale o generica barbarie”. Se qualcuno avesse dubbi sullo scopo del suo libro basterebbe rileggere il sottotitolo: “Quello che non abbiamo voluto sapere della guerra in Jugoslavia”.

“La storia della guerra nei Balcani è la storia di una colossale fregatura”, sostiene infatti Rumiz, fregatura che è stata imbastita in modo molto semplice ed elementare da alcuni politici che, per rimanere al potere dopo la caduta del comunismo, hanno cominciato a sollecitare antichi grumi di paure e bassi istinti che erano presenti nei Balcani e si trovano, più o meno forti, in ciascuno di noi. L’odio, infatti, sostiene Rumiz, “esplode solo se c’è qualcuno che decide di servirsene”. Il giornalista triestino analizza nei vari capitoli alcuni eventi fondamentali che hanno preceduto lo scoppio della guerra nel 1992, a partire dal massacro di Timisoara, nel 1989, cittadina rumena a pochi chilometri dal confine con la Jugoslavia, in cui “tutto avviene con una facilità che non convince”, un massacro che sembra di “cartapesta”, fino ad arrivare agli scontri a Vukovar, in Croazia e al risveglio del più fanatico nazionalismo in Serbia che, secondo Rumiz, “parte dall’alto, nasce non dal popolo ma dalla testa degli intellettuali”.

La propaganda imbastisce così un enorme lavoro di falsificazione del presente e del passato, rievocando e mitizzando antiche battaglie e antiche stragi, per “far sì che il futuro aggressore si ritenga aggredito” e per instillare nella gente l’idea che la “Serbia è in ginocchio non perché è stata guidata da politici scellerati ma perché croati, albanesi, bosniaci e sloveni l’hanno sfruttata, umiliata”. E mentre “gli accademici serbi preparano la santificazione del loro popolo, un ‘popolo celeste’, avanguardia della cristianità contro il turco”, alcuni “banditi” soffiano sulla paura del diverso, sulle insofferenze etniche, sull’istinto del branco di chiudersi in sé e tagliare ogni rapporto con il resto del mondo, sul settarismo e sul mito dell’identità nazionale, ecco che allora la polveriera esplode. Nei Balcani quei banditi si chiamavano Milošević e Karadžić, ma hanno avuto altri nomi in passato e minacciano di averne ancora altri in futuro.

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Lo scopo fondamentale degli innumerevoli giochi di potere imbastiti da Milošević e Karadžić era, secondo Rumiz, quello di “rendere definitivo e inamovibile l’assetto criminale” di quel potere corrotto e tangentizio che si era consolidato sotto Tito e dunque all’interno del Partito Comunista. Così a Belgrado si cominciò a mistificare la realtà, a riscrivere il passato, a manipolare la letteratura – come nel caso del premio Nobel Ivo Andrić -, ad aizzare il popolo serbo contro i croati, gli albanesi e i bosniaci e a sostenerne la presunta superiorità con tesi pseudoscientifiche. Non a caso, infatti, a capo dei serbi di Bosnia si pose immediatamente Radovan Karadžić, il quale, prima di essere un criminale di guerra, era stato uno psichiatra.

Ed è proprio a Sarajevo che i meccanismi della guerra si svelano in maniera più evidente che in qualunque altro posto. Sarajevo è infatti “una pentola che non ha mai toccato carne di maiale e che nelle case ortodosse e cattoliche è sempre pronta per gli ospiti di religione islamica”, una città in cui la comunità musulmana descritta dallo scrittore Meša Selimović da secoli convive con la borghesia ebraica raccontata da Ivo Andrić in alcuni dei suoi Racconti di Sarajevo. A Sarajevo, inoltre, era – ed è tuttora – geograficamente evidente quell’antagonismo fra città e campagna e fra pianura e montagna che, secondo Rumiz, è fondamentale per capire la guerra nei Balcani. I serbi bosniaci, infatti, erano di solito gente dalla mentalità chiusa, profondamente religiosi e tradizionalisti, gente di montagna che con la montagna e con il bosco tende ad identificarsi – e non a caso Sarajevo è circondata da montagne su tutti i lati -, mentre i musulmani, fin dai tempi della dominazione turca, erano stanziati nel fondovalle, lungo la riva del fiume, impegnati nei commerci.

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A Sarajevo, ma in tutti i Balcani, ovunque si sia combattuto, si sia stuprato, si sia dato alle fiamme, la paura del diverso si è legata alla paura della cultura e della memoria storica, mentre si accentuavano sempre di più le differenze fra pianura e montagna, fino a sfociare nel lungo assedio della capitale bosniaca, nel tiro a segno sui civili portato avanti dai cecchini serbi arroccati sulle montagne che cingono Sarajevo da ogni lato, nel massacro di Markale, quando un colpo di mortaio colpì il mercato in pieno giorno, e nell’incendio della Biblioteca Nazionale.


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foto copertina: Odd Andersen / AFP / Getty Images


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