C’è chi dice no: gli evangelici americani contro Trump

Nella mega chiesa che ha ospitato il comizio di Trump, l’uccisione del generale Soleimani è stata accolta con entusiasmo da migliaia di sostenitori festanti. Eppure molti evangelici hanno deciso di voltare le spalle alla politica aggressiva del tycoon. Il futuro dell’America dipende anche da loro: riusciranno a fermarlo?

di Joshua Evangelista


Un grande padre. Un grande marito. Una persona leale. Un patriota: se gli fate un taglio, ne uscirà del sangue rosso, bianco e blu. È un uomo che mantiene le promesse. È competitivo, ma compassionevole. È un uomo che ama Dio, la famiglia, le persone e, soprattutto, si batte per gli Stati Uniti ed è un campione della fede. Date il benvenuto al 45° presidente degli Stati Uniti, Donald J. Trump”.

Per il primo discorso pubblico dopo l’omicidio del generale iraniano Qasem Soleimani, Trump non poteva scegliere una presentatrice migliore per peso politico, devozione e presenza scenica. Paula White, telepredicatrice a capo del Faith Advisory Board di Trump e tra i principali esponenti della teologia della prosperità, ha aperto davanti a diverse migliaia di ascoltatori esultanti la mega convention degli “Evangelicals for Trump Coalition” che si è tenuta il 3 gennaio al King Jesus International Ministry, una mega chiesa multietnica di Miami.

Oltre alla White (che recentemente ha affermato di non tollerare i paragoni tra il profugo Gesù e i migranti di oggi, perché questi ultimi “delinquono“, mentre “il Messia non ha infranto nessuna legge anti-immigrazione“), a benedire la politica estera di Trump in funzione delle imminenti elezioni c’erano alcuni dei rappresentanti più influenti del mondo evangelico pentecostale statunitense. Come il padrone di casa Guillermo Maldonado (i cui incontri hanno una partecipazione settimanale media di circa 15-20mila persone) e il cantante Micheal Tait, frontman del gruppo rock cristiano Newsboys.

A questi “influencer” della fede viene chiesto un compito molto importante: preservare i voti di quel 79% di evangelici americani che si ritengono soddisfatti dell’operato di Trump. E, se possibile, raggiungere le nicchie di cristiani storicamente più vicini ai democratici, soprattutto tra i latinos e i neri (secondo una recente indagine di AP-NORC, il 75% dei protestanti “non-bianchi” statunitensi non condivide la politica del governo). Così si spiegherebbe la composizione eterogenea dei suoi fedelissimi ambasciatori, a cui spetta l’arduo compito di mantenere la fedeltà elettorale dei propri follower proteggendo l’immagine del presidente “campione della fede”, in contrasto con tutte le accuse di violenza sessuale, razzismo e corruzione con le quali devono quotidianamente confrontarsi i comunicatori di Trump.

A Miami, il tycoon ha ammaliato per più di un’ora i partecipanti sui temi più importanti per l’audience evangelica media: difesa della vita, rapporti con Israele e libertà di manifestare apertamente la propria fede. Il clou del discorso, inevitabilmente, è stato l’annuncio dell’uccisione di Soleimani, accolto da applausi, urla e manifestazioni di entusiasmo. Esultare per un omicidio, in chiesa: forse non è il modo più letterale per “diffondere la Buona Novella” di Gesù, ma sicuramente è un ottimo propagatore della politica della “reazione inevitabile” alle minacce esterne.

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Se ci si fermasse al discorso di Miami si rischierebbe di continuare a stereotipare gli evangelici americani come un monolite politico. Ma ci sono “voci nel deserto” sempre meno isolate che mettono a dura prova questa concezione. Hanno meno visibilità (e soldi) della coalizione di testimonial evangelici voluta da Trump, sono eterogenei per denominazione e background sociale, non sposano necessariamente la visione progressista di Ocasio-Cortez o la socialdemocrazia di Bernie Sanders. Ma manifestano apertamente il loro dissenso contro Trump e, in ultima analisi, l’escalation di violenza degli ultimi giorni. Anche quando questo vuol dire venire emarginati, scherniti, abbandonati.

Il dilemma sulla moralità

Chissà se il direttore Mark Galli si aspettava che il suo ventennale impiego nel sobrio e moderato Christianity Today sarebbe terminato in maniera così burrascosa. Che di tutti gli editoriali scritti in tutti questi anni sul suo giornale sarebbe passato alla storia solo l’ultimo, forse l’unico non conciliante. Chissà se prima di scrivere che Trump avrebbe dovuto lasciare il suo incarico per incompatibilità morale, Galli aveva previsto che circa duecento leader evangelici si sarebbero schierati contro di lui, offesi perché mettere in dubbio Trump vuol dire mettere in dubbio l’integrità morale di tutti coloro che in questi ultimi anni hanno affermato che Donald agisce in nome di Dio.

Resta il fatto che Galli, con il suo editoriale, ha provocato uno scossone non indifferente nel mondo protestante americano. Perché Christianity Today non è un bollettino religioso come gli altri. È la rivista fondata negli anni ‘50 da Billy Graham (il predicatore dei presidenti, amato trasversalmente da tutti i cristiani d’America) per informare i fedeli su quello che succede nel mondo. C’è un particolare molto importante: Franklin Graham, figlio di Billy, è uno dei più grandi sostenitori di Trump. Da subito si è fortemente opposto al processo di impeachment, definendolo “un’inquisizione ingiusta”. Addirittura, in un’intervista del 21 novembre 2019 rilasciata a Eric Metaxas, Graham ha suggerito che l’opposizione a Trump fosse opera di un “potere demoniaco”. Così, quando pochi giorni dopo Mark Galli ha pubblicato il suo editoriale, Franklin Graham ha ribattuto dicendo che la rivista fondata dal padre rappresenta l’ala liberale ed elitaria dell’evangelicalismo.

Galli non cede. È convinto che Trump debba dimettersi: “Se non invertiamo la rotta adesso, chi prenderà seriamente ciò che diremo sulla giustizia nei decenni a venire? Possiamo dire che l’aborto è un grande male che non può essere tollerato e, con la stessa faccia seria, dire che il carattere deviato del leader della nostra nazione non sia rilevante?”La domanda posta da Galli riecheggia da tempo ed è stata affrontata da molti analisti. Peter Wehner dell’Atlantic, ad esempio, si era chiesto come fosse possibile che un gruppo che per decenni ha insistito – specialmente durante la presidenza di Bill Clinton – sul fatto che l’integrità personale sia una componente essenziale della leadership presidenziale, non solo chiuda un occhio sulle trasgressioni etiche e morali di Donald Trump, ma addirittura lo difenda costantemente.

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Parte della risposta, secondo Wehner, si adagia sulla convinzione di essere impegnati in una lotta esistenziale contro un nemico malvagio: non la Russia, non la Corea del Nord, non l’Iran, ma piuttosto i liberali americani e la sinistra. “Se ascolti i sostenitori di Trump evangelici”, scrive Wehner, “sentirai applicare a quelli di sinistra degli aggettivi che potrebbero essere facilmente usati per descrivere un regime stalinista. (Chiediti quanti evangelici hanno criticato pubblicamente Trump per la sua generosa lode a Kim Jong Un, il leader del regime probabilmente più selvaggio del mondo e il peggior persecutore di cristiani al mondo)”.

C’è un altro fattore. Molti cristiani evangelici sono pieni di rimostranze e risentimenti perché sentono di essere stati derisi, disprezzati e disonorati dalla cultura elitaria nel corso degli anni. “Per loro, Trump è un uomo che non solo spingerà la loro agenda su questioni come l’aborto; sarà spietato contro coloro che essi vedono come minacce a tutto ciò che conoscono e amano”.

Gli evangelici che dicono no alla guerra

L’attacco con il drone che ha ucciso Soleimani ha creato ulteriori divisioni. Per il pastore William Barber, co-presidente della Poor People’s Campaign, l’attacco è stato insensato, come è insensato additare Trump come il responsabile unico “di dove ci troviamo ora”. In un tweet Berber ha invitato a non dimenticare “i nomi di tutti coloro che hanno mentito per lui, che lo hanno sostenuto, coperto e creatogli intorno una falsa religione. Se finiremo in guerra, non dovrà esserci alcuna amnesia selettiva. Chiunque non abbia parlato apertamente è colpevole“.

C’è chi cerca di avere un approccio più distensivo con l’establishment evangelico pro-Trump e ci dialoga attraverso l’uso del linguaggio comune della Bibbia. Come Shane Claiborne, uno scrittore evangelico pacifista: “Pietro estrae la sua spada quando i soldati vengono a prendere Gesù, e ne ferisce uno. La risposta di Gesù è sorprendente. Lo sgrida e gli dice: ‘Metti via la tua spada. Non capisci. Se raccogli la spada, muori di spada’. Disarmando Pietro, Gesù disarma ognuno di noi”.

Povertà e migrazioni: l’importanza della comunità latina

La decisione di accompagnare all’attacco di Baghdad un discorso alla presenza di migliaia di latini sottende l’importanza della comunità in termini elettorali. Le rigide politiche sull’immigrazione sono state un segno distintivo del Trump “politico” sin dal primo giorno della sua campagna presidenziale per le elezioni del 2016. Come è stato accettato dagli evangelici latini “a casa loro”?

Se in generale gli evangelici americani non sono un monolite, questo vale anche per il sotto-insieme di quelli di origine latina. Gabriel Salguero, presidente della National Latino Evangelical Coalition, ha affermato in un’intervista rilasciata a Stripes.com che, sebbene gli evangelici latini non possono accettare le offese rivolte da Trump ai messicani e l’abrogazione della legge dell’era Obama che concedeva permessi di lavoro agli immigrati privi di documenti, molti di loro apprezzano i suoi sforzi per riformare la giustizia penale e le sue politiche anti-aborto.

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C’è da capire se questo prevarrà sulle storie atroci che sentono dal confine, dove effettivamente gli evangelici hanno un ruolo di pacificazione e di abbattimento, per lo meno morale, dei muri. È il caso dei membri della chiesa El Faro: statunitensi e messicani che pregano insieme ogni domenica ai due lati della barriera che divide San Diego e Tijuana. Per molte famiglie, è l’unica opportunità di vedere i propri amati oltre confine.

Non è un caso che a Miami Trump abbia detto più volte che la lotta alla povertà è al centro del suo programma. Ispanici e neri sono stati i punti deboli della vittoria del 2016, per questo Trump si batterà per conquistarne il maggior numero possibile attraverso due altre coalizioni: Latinos for Trump e Black Voices for Trump.

La responsabilità degli evangelici

La fede continua a essere un punto focale per la politica americana, e quindi per quella mondiale. Oggi più che mai gli evangelici che danno importanza ai valori sociali contenuti nei Vangeli dovrebbero far sentire la loro voce. Per Michael Luo, direttore del New Yorker, ricostruire il senso primordiale del cristianesimo dovrebbe essere al centro dei loro sforzi: “All’interno dell’evangelicalismo, l’influenza culturale nel mondo secolare è considerata parte dell’avanzamento del messaggio del cristianesimo. I cristiani preoccupati per il trumpismo e per il futuro della loro fede, tuttavia, potrebbero aver bisogno di rivolgere la propria attenzione verso l’interno, per rimodellare la cultura dell’evangelizzazione e contrastare l’influenza corrosiva di Fox News e di altre forze demagogiche che seminano divisione e suscitano sospetto. Il cambiamento culturale è scoraggiante – gran parte di ciò che affligge i fedeli evangelici non è interamente sotto il controllo dei loro leader – ma la sfida non è così diversa da quella che Billy Graham ha contemplato più di sessant’anni fa, nel bel mezzo della notte, mentre lanciava il suo movimento per unificare i credenti cristiani e trasformarli in una forza positiva per la società”.


Profilo dell'autore

Joshua Evangelista

Joshua Evangelista
Responsabile e co-fondatore di Frontiere News. Scrive di minoranze e diritti umani su Middle East Eye, Espresso, Repubblica, Internazionale e altre testate nazionali e internazionali

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