Ma con Biden e Harris cambia davvero qualcosa?

Come si comporterà il governo Biden-Harris nei confronti di minoranze, movimenti di lotta e questioni sociali? La risposta potrebbe emergere in queste settimane di transizione politica, cartina al tornasole di un paese ferito e lacerato.

Articolo (e foto) di Clarissa Clò, San Diego State University.  In collaborazione con The Dreaming Machine. 


Le recenti elezioni statunitensi hanno presentato non poche sorprese. La Pandemia ha costretto molti a votare in anticipo e per posta, e il numero senza precedenti di elettori ha comportato un’attesa molto più lunga per conoscere i risultati, prima che Biden fosse dichiarato l’apparente vincitore. La notte delle elezioni ha portato con sé un’inquietante sensazione di deja vu, evocando il momento in cui, quattro anni fa, Hillary Clinton perse contro ogni aspettativa lasciando molti cittadini sbigottiti e in totale afflizione.

Quest’anno le cose sono andate diversamente. Abbiamo osservato, ansiosi e ipnotizzati, il lento scorrere delle schede da uno stato all’altro muovere le elezioni a favore di Biden, controbilanciando i voti iniziali presso le sezioni elettorali che sembravano privilegiare Trump. Eppure, anche dopo che Biden si era assicurato un ampio margine di voti in diversi swing state, Trump non solo si è rifiutato di cedere – cosa che non ha ancora fatto e che probabilmente non farà mai – ma ha avviato una campagna di disinformazione estremamente dannosa, invocando non comprovati brogli elettorali e mobilitando un esercito di avvocati e sostenitori per “fermare il furto”. Nessuna di queste tattiche ha funzionato, se non per sottolineare fino a che punto si possa abbassare l’asticella e demolire la già fragile fiducia nella democrazia. Sono però riusciti a ritardare la transizione ufficiale e il trasferimento del potere, con potenziali conseguenze pericolose per la sicurezza nazionale.

[L’intervento di Clarissa Clò nel convegno “Oltre Biden e Trump: persone, comunità e movimenti verso le elezioni negli USA”, organizzato da Frontiere News e La macchina sognante alla vigilia delle elezioni]

Biden ha ricevuto ben 80 milioni di voti, molto più di qualsiasi altro presidente nella storia statunitense. Persino più di Barack Obama, detentore del record precedente. Trump ha invece ottenuto il secondo conteggio più grande di sempre. Il fatto che il tycoon abbia sfiorato la vittoria in alcune parti del Paese – con le conseguenti perdite dei democratici alla Camera e il precario legame in Senato – non è affatto rassicurante e potrebbe limitare la portata e il respiro delle riforme che l’amministrazione Biden-Harris dovrebbe mettere in atto.

La Vice Presidente Kamala Harris proietta l’ombra di Ruby Bridges, prima bambina a desegregare una scuola per soli bianchi nel 1960. [Bria Goeller]
Nonostante tutte queste incertezze e fratture, vale la pena di riflettere su ciò che, di fatto, è stato raggiunto. Soprattutto grazie all’inarrestabile sforzo da parte di una coalizione progressista e multirazziale di attivisti, composta da giovani, donne (in particolare, donne nere) e minoranze LGBTQ+. Kamala Harris sarà la prima donna di origine africana e indiana a ricoprire la Vice Presidenza, e l’importanza della sua carica rappresentativa non va affatto sottovalutata. Milioni di ragazze cresceranno con il suo esempio, sapendo che è possibile per una come loro raggiungere tale posizione e lottare per ottenere di più.

Naturalmente, non possiamo cantare vittoria troppo presto. Basti considerare che gli otto anni di Obama sono stati immediatamente seguiti da un’amministrazione opposta e avversa. Tuttavia, è anche importante celebrare questo momento e riflettere su ciò che ci ha portato qui.

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Le ceneri del ‘sogno democratico’ e i nuovi movimenti di lotta

La notte che Hillary Clinton ha perso ha galvanizzato nuove e diverse generazioni di attivisti e ha dato il via a diversi movimenti, da MeToo a Black Lives Matter. Trump aveva beneficiato del voto di molte donne bianche, è vero, ma va anche detto che le donne furono tra le prime ad organizzarsi in movimenti di lotta. Il 21 gennaio 2017, il giorno dopo l’inaugurazione di Trump, è esplosa una protesta mondiale guidata da donne, opportunamente soprannominata “Marcia delle donne“. Negli Stati Uniti, quel fiume di donne con cappelli rosa fatti a maglia si è impadronito in modo pacifico e creativo non solo di Washington D.C., ma di molte altre città. Una mobilitazione multi-generazionale, con madri che portavano figlie e figli affinché esercitassero il loro diritto di opporsi a un presidente eletto senza il voto popolare – il voto della maggioranza dei cittadini – il cui programma prometteva di smantellare i successi della precedente amministrazione e che avrebbe poi superato di gran lunga i fallimenti inizialmente previsti in materia di cambiamento climatico, relazioni internazionali e diritti umani, per citarne solo alcuni.

Fu la nascita della cosiddetta Resistenza. Negli anni successivi, diverse donne si sono candidate e sono state elette al Congresso. In particolare un gruppo multietnico e inter-religioso, soprannominato The Squad e composto da quattro giovani donne: Alexandria Ocasio-Cortez (o AOC), di New York; Ilhan Omar, rappresentante del Minnesota; Rashida Tlaib, del Michigan; Aryanna Pressley, del Massachusetts. Sono rispettivamente di origine ispanica, somala, palestinese e afroamericana. La loro politica è radicale e il loro atteggiamento feroce. Sono preparate, parlano apertamente di ciò che rappresentano e hanno un grande fascino nella cultura pop.

Una copertina di Devil’s Due Comics con un’immagine dello “Squad”: Alexandria Ocasio-Cortez (AOC), Ilhan Omar, Rashida Tlaib e Aryanna Pressley

Non c’è da stupirsi che siano state prese di mira da Trump fin dall’inizio. Durante la campagna le appellava come “AOC+3”, indicando quanto queste politiche risolute e impenitenti minacciassero lo status quo e il suprematismo bianco. Il Green New Deal potrebbe non far parte del programma di Biden, ma servirà a ricordare che sono necessarie misure drastiche per rimediare ai danni inflitti all’ambiente, e alla nostra salute, in questi ultimi anni.

Non dobbiamo mai dimenticare che, prima di approdare a Washington, la politica inizia a livello locale. Washington è il palcoscenico più visibile, ma molte cose accadono sul campo, nel paziente costruire di ogni giorno e nel rapporto quotidiano con gli elettori. Tutte cose che si svolgono lontano dai riflettori. La recente vittoria democratica in Georgia è un esempio dell’incessante lavoro svolto da Stacy Abrams e da una rete di organizzazioni “sorelle” impegnate nel garantire il diritto di voto a quegli afroamericani ai quali dei politici repubblicani hanno impedito di votare con mezzi poco legali – come se la democrazia fosse una ricerca elitaria e gelosamente custodita e non un bene comune condiviso, seppur imperfetto. Quando ogni cittadino può votare in modo facile e accessibile, e ogni voto viene contato, il risultato può essere notevole. Semmai, queste elezioni hanno dimostrato che in effetti ogni voto conta, e che un voto può letteralmente fare la differenza.


Clarissa Clò parlerà degli USA post-Trump nell’evento live “Biden e noi” in programma per il il 20 dicembre dalle 18. L’evento è organizzato da Frontiere News, Dare.ngo e Anpi Porta Venezia.


Ruth Bader Ginsburg e la battaglia per la Corte Suprema

Come si differenzierà il governo di Joe Biden e Kamala Harris? Ho già menzionato l’importanza delle donne, della rappresentanza etnica e della comunità LGBTQ+, i cui membri – soprattutto neri e transgender – sono stati profondamente penalizzati in questi ultimi anni. La corsa per la nomina del giudice Amy Coney Barrett alla Corte Suprema per assicurarsi una maggioranza conservatrice (riempiendo il vuoto lasciato dall’improvvisa perdita della giudice Ruth Bader Ginsburg, o R.B.G., come la chiamano affettuosamente i suoi sostenitori in un riferimento, come per The Squad, alla cultura hip hop) conferma i timori dei Repubblicani di perdere la presidenza e la loro ossessione per la Corte, che hanno poi ribaltato sui democratici.

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La R.B.G. ha lasciato un’eredità notevole, che probabilmente si rafforzerà. Nella sua lunga carriera ha infranto molte barriere di genere. Ha iniziato tutelando i diritti delle donne in quanto diritti umani, la cui negazione sarebbe stata dannosa per tutti, uomini compresi. Nei primi anni alla Corte Suprema le sue opinioni erano moderate; man mano che la Corte diventava più conservatrice, la R.B.G. si è progressivamente spostata sempre più a sinistra, facendosi ricordare soprattutto per le sue lucide e acute espressioni di dissenso. In altre parole, essere dalla parte degli sconfitti la rendeva più audace e incisiva. Notevole fu il suo dissenso in merito all’esito della sentenza Shelby County v. Holder del 2013, che rese incostituzionale parte del Voting Rights Act [una legge del 1965 che puntava al rispetto dei diritti civili e allo smantellamento della segregazione razziale, ndt]. La Ginsburg attaccò la decisione della maggioranza sostenendo che rimuovere le tutele del diritto voto contro le discriminazioni equivaleva a “buttare via l’ombrello durante un temporale solo perché non si è bagnati”: così facendo chiunque, prima o poi, sarà senza i mezzi per rimanere asciutti o al sicuro.

Molti temono che ora, con una nuova maggioranza conservatrice nella Corte Suprema, sarà a rischio la Roe v. Wade del 1973, la storica sentenza che ha legalizzato l’aborto. Forse è così, anche se non è questa l’unica posta in gioco. La giudice Ginsburg ha sostenuto che la citata sentenza ha cercato di fare troppo, troppo in fretta, e senza un sufficiente consenso, rendendola pesantemente attaccabile, cosa che in effetti è sempre avvenuta. Invece di farne una questione di privacy delle donne, la R.B.G. insisteva sul fatto che l’aborto dovrebbe essere tutelato in rispetto all’uguaglianza di genere, un concetto molto più ampio. Forse siamo arrivati al punto in cui questa battaglia – come molte altre – non può essere semplicemente imposta dall’alto, ma sarà combattuta altrove, nell’opinione pubblica e nella legislazione a livello statale e locale. Vedremo dove ci porteranno i prossimi anni, su questo tema. In ogni caso, vedremo un massiccio coinvolgimento di femministe d’ogni età.

Immigrazione, muri e (in)sicurezza

Un’altra questione che probabilmente Biden e Harris affronteranno è relativa al destino del DACA, o Deferred Action for Childhood Arrivals, che permette ai minori entrati negli Stati Uniti senza una documentazione adeguata, e in circostanze al di fuori del loro controllo, di rimanere nel Paese. Trump ha tentato senza successo di interrompere il programma. Se la riforma dell’immigrazione dovesse realizzarsi, i Dreamers – o “sognatori”, come vengono chiamati i soggetti sottoposti al DACA – potrebbero finalmente regolamentare il proprio status giuridico. Pur con le dovute differenziazioni, la situazione dei Dreamers condivide molte analogie con quella dei figli di immigrati di seconda e terza generazione in Italia, dove una legge sulla cittadinanza obsoleta e ingiusta tiene molti di loro ostaggio di un sistema che ha un disperato bisogno di trasformazione.

L’immigrazione è una questione scottante un po’ ovunque. Vivo in una regione di confine, una grande area metropolitana transnazionale che comprende la greater San Diego nel sud della California, negli Stati Uniti, e la città di Tijuana nella Baja California, in Messico. Vista da qui, l’immigrazione è una sfida e uno stile di vita per molti dei residenti. Anche se oggi è gravemente ridotto dal Covid-19, l’attraversamento delle frontiere è un’azione quotidiana per migliaia di persone, compresi molti dei miei studenti e le loro famiglie. Si è parlato molto del muro, che ha occupato gran parte della retorica di Trump nelle precedenti elezioni. Tuttavia, per gli Stati Uniti o il Messico il muro in sé non rappresenta un nuovo concetto o un nuovo privilegio, in una terra dove entrambi i Paesi sono ospiti dei popoli indigeni Kumeyaay che hanno vissuto qui molto prima che questa invenzione diplomatica artificiale, ma altamente consequenziale, li separasse tra due Stati-nazione.

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Dall’11 settembre e dall’istituzione del Dipartimento della sicurezza interna a metà degli anni 2000, il muro è stato sottoposto a molti controlli e a una rinnovata militarizzazione. Anche sotto il presidente Obama sono stati edificati diversi chilometri di barriera; per chi vive al confine, lo slogan “costruire il muro” aveva dell’assurdo, così come la pretesa che fosse il Messico a pagarlo. Nessuno dei prototipi annunciati è stato poi portato a compimento; ma sebbene questi siano stati poi distrutti, si continuano a costruire o sostituire segmenti del muro.

Il muro mantiene un fascino senza fine. Molti dei nostri guest speaker provenienti dall’Italia l’hanno visitato, affascinati dal suo imponente significato geopolitico e simbolico. Vi si sono recati anche i registi Andrea Segre e Dagmawi Yimer – coautori del documentario Come un uomo sulla terra (2008) sui pericoli mortali dell’attraversamento di altri confini in Africa e nel Mediterraneo nella speranza di raggiungere la Fortezza Europa – e il rapper Amir Issaa, noto per il suo impegno a favore delle seconde generazioni.

Per chi vive a Tijuana, il muro fa parte della vita quotidiana. Lo si decora e ce se ne prende cura come se fosse la propria casa o il proprio giardino. I residenti di San Diego, invece, tendono a ignorarne la presenza, e l’area circostante sul versante statunitense è militarizzata e costantemente sorvegliata da pattuglie della polizia di frontiera. Due modi molto diversi di interpretare il significato e l’imposizione dello spazio di frontiera: l’uno tenta di cancellarne la presenza impedendovi l’accesso, l’altro si appropria dei suoi confini e li sovverte creativamente.

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L’immigrazione non sarà stata nelle prime pagine dei giornali in queste elezioni, ma le immagini e le storie di bambini separati dai loro genitori e rinchiusi in gabbie al confine, in strutture non lontane da dove vivo, sono un forte richiamo a ciò che pertiene al vivere da esseri umani sulla terra, al pretendere umanità ed empatia al posto di divisione e odio.

Nel frattempo, i migranti stagionali sono considerati “lavoratori essenziali” in California. Invisibili ai consumatori, raccolgono il nostro cibo nella California Central Valley e il loro lavoro, come quello di molti altri nel settore dei servizi, fa sì che i prodotti raggiungano i negozi e i supermercati dove facciamo acquisti, per chi se lo può permettere. In ogni caso, il solido ambiente no-profit e i vari programmi di assistenza alimentare forniscono beni primari a tutti coloro che sono stati lasciati a loro stessi durante la pandemia. Qui, con “rete sociale” ci si riferisce a Facebook e ai suoi concorrenti della Silicon Valley, non al benessere di una società basata sulla solidarietà che si prende cura dei suoi cittadini.

Se le ultime settimane possono comunicarci qualcosa, è che la strada per ripristinare il senso di unità e di condivisione sarà lunga e impervia. Ma la democrazia – così come l’uguaglianza, la giustizia e il cambiamento – non è un qualcosa di facilmente ottenibile. Richiede costante attenzione e determinazione di fronte a una miriade di avversità. È di aiuto il fatto che coloro che ora sono incaricati di guidarci sono competenti ed esperti, e rappresentano veramente i tanti e diversi volti dell’America. In ogni caso, li terremo d’occhio. E ciò su cui stiamo ponendo lo sguardo è, finora, gradevole.


[Questo articolo è la versione italiana di un approfondimento pubblicato dai nostri partner di The Dreaming Machine – Traduzione a cura di Valerio Evangelista]


Profilo dell'autore

Clarissa Clò

Clarissa Clò
Professoressa ordinaria di studi italiani presso la San Diego State University dove dirige il Dipartimento di Studi Europei e il Programma di italiano. Si occupa di studi culturali, postcoloniali, femministi e queer applicati a letteratura, cinema, musica e media.
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