L’attore Mohamed Ba racconta il suo coinvolgimento in Tolo Tolo di Checco Zalone, tra stereotipi sugli africani e risposte alle critiche
In Tolo Tolo Mohamed Ba recita la parte di un saggio dottore diretto in Europa, che nel bel mezzo della traversata del Sahara dice a Zalone che questi è “malato di fascismo”. Poi lo rivediamo in Italia come scrittore affermato e infine come papa. Scrittore, attore e musicista senegalese, Mohamed si esibisce in Italia da oltre vent’anni. Ha visto tante fasi della società italiana, subìto un attacco in cui è stato accoltellato e ridotto in fin di vita, prodotto un video che ha superato tre milioni di visualizzazioni e infine recitato a fianco di Zalone nel suo film più politico. Che difende a spada tratta dalle critiche perché, secondo lui, questo film – seppur comico – non può non indurre alla riflessione. Siamo stati a cena con lui prima che si esibisse in una delle tappe del suo spettacolo “Invisibili”. Partendo da Zalone, siamo finiti a parlare di Senegal, immaginario sugli africani e molto altro.
di Joshua Evangelista
Come prevedibile, Tolo Tolo ha fatto molto parlare di sé. Decine di recensioni, un dibattito accesissimo sull’efficacia di un prodotto del genere nel contrastare il razzismo o comunque di far riflettere l’italiano medio. Secondo te il film è riuscito ad andare verso quella direzione?
Questo non saprei dirlo, anche perché non sta a me dirlo. Una cosa è certa: so che l’arte, nella sua immediatezza, riesce a ribaltare alcuni paradigmi, a rovesciare la prospettiva. È una proposta, non è una soluzione – perché in effetti la soluzione non c’è – però è possibile anche cambiare prospettiva e porsi queste domande: “Io sono quello che sono per scelta mia, o per la fatalità del caso che mi ha fatto nascere qui? Che ne sarebbe stata della mia vita se non fossi nato qui, ma là?”
E questo film riesce a indurre lo spettatore a porsi questa domanda?
Certo. Non è un film in difesa dei migranti o sull’aprire i porti. È un film sulla prospettiva limitata, superficiale ed effimera che la società occidentale utilizza nei confronti dei migranti. C’è una scena che è passata inosservata, ma che ha il suo significato.
Quale?
Io mi chiamo Mohammed, Maometto. Ebbene, ad un certo punto del film interpreto il papa. Abbiamo fuso insieme Maometto e il papa.
Cosa significa?
Significa che noi partiamo dall’idea che i problemi tra gli uomini di oggi non siano imputabili a Dio. Ma al limite all’uomo che non si fa scrupoli a usare il nome di Dio per altri fini. E noi non ci stiamo. Perché il rapporto intimo che io ho con Dio, Allah o Buddha che sia, riguarda me. Ma il mio rapporto con il signor Brambilla va coltivato ogni giorno. Dobbiamo scoprirci, io e il signor Brambilla. E quello non c’entra niente con il mio credo religioso. Alla fine la confusione è tale che diventa molto accomodante accodarsi al sentito dire, perché il pregiudizio si alimenta proprio di questo.
Tolo Tolo fa satira sugli italiani e non sui migranti, ma è inevitabile che l’Africa andasse raccontata. Perlomeno per creare un contesto credibile alla storia. Alcuni hanno criticato proprio il modo in cui è stato costruito il background: non si parla di un paese specifico ma di una fantomatica “Africa”, quasi fosse un’unica entità socioculturale. Inoltre, molti personaggi parlano un improbabile swahili, assente nei paesi del versante occidentale. Più in generale, la descrizione degli africani sembra molto stereotipata.
Sai perché lo si è fatto in questo modo? Per favorire la comprensione da parte del pubblico italiano. Perché andando a diversificare le Afriche lo manderemmo in tilt, scapperebbe. Si riconosce in questa Africa che, guarda caso, è quella che è stata partorita dopo il Congresso di Berlino del 1884. Se noi dovessimo partire dai regni pre-coloniali, il cittadino italiano si sentirebbe smarrito, non capirebbe nulla. Significa scendere a patti con il corso degli eventi per favorire la comprensione. Tuttavia è chiaro che la scelta è sempre individuale. Uno può dire: “Ok, non lo sapevo. Ora lo so e non me ne frega niente”. Oppure: “Porca miseria non ci avevo mai pensato. Forse è il momento di cambiare”. Tutto qui.
A onor del vero, nel film si fanno anche delle citazioni di geopolitica internazionale che – ahinoi – forse sono sconosciute anche al giornalista italiano medio. Si cita Haftar, si spiega il ruolo di smistamento di Agadez…
Si cita anche Primo Levi. Sono degli indicatori molto precisi. Perché il film non è rivolto all’africano, che non per forza conosce Primo Levi. Magari Malcom X sì, o altri, ma non Primo Levi. Ma se la gente non riesce ad andare oltre non possiamo farci niente.
Oltre cosa?
Resta un film diretto da un comico. Che chiaramente non può permettersi la licenza di far ridere per oltre un’ora su un dramma così profondo. Perché si sorride, sì, ma si pensa anche. E nessuno è obbligato ad andarlo a vedere. Chi ci va lo fa perché c’è una storia raccontata. Ma non solo: vede se stesso, i suoi limiti.
In che modo il Checco di questo film rappresenta i limiti degli spettatori stessi?
Io penso che le cose siano fatte per essere usate, le persone per essere amate. Ma ora nella società occidentale si amano le cose, mentre le persone vengono usate. In questo film, nel bel mezzo dei bombardamenti si vede “questo qua” che si preoccupa per la sua scarpa firmata. Ecco dove c’è il distacco. Oggi c’è un istinto di sopravvivenza che spinge milioni e milioni di giovani dovunque a ricercare una loro terra promessa. E tu che sei chiamato a dare loro delle risposte, ti perdi nelle tue scarpe firmate.
Hai avuto modo di confrontarti sul film anche con rappresentanti delle comunità migranti?
No. Assolutamente no. Io non pretendo di essere rappresentativo dell’Africa. Tuttavia, il film è stato anche un’occasione per incontrare un centinaio di comparse. Ragazzi giovanissimi. Ho avuto la possibilità di parlarci guardandoli negli occhi e raccontando loro esattamente quanto sia illusorio immaginarsi che l’Europa risolva tutti i loro problemi. E mi ha emozionato il fatto che l’ultimo giorno sul set alcuni di loro mi abbiano ringraziato e garantito che, una volta finito il lavoro, sarebbero ritornati a casa loro. Se il film ha avuto un merito, è stato quello di evitare alcune potenziali morti in mare.
Parliamo dello spettacolo di oggi, perché si chiama “Invisibili”?
È un percorso tra passato e presente attraverso le memorie che hanno accompagnato l’umano. Non mi riferisco in modo particolare a un popolo ben definito: “Invisibili” è un invito a leggere la storia alla luce dei fatti. E non possiamo ritenerci contenti, soddisfatti o fiduciosi, perché quelli che ci hanno preceduto non hanno seminato convivenza o amore. Anzi, tutt’altro.
E perché secondo te non hanno seminato?
Perché a un certo punto della nostra comune storia gli interessi sono andati oltre il valore umano. Il riferimento ha smesso di essere l’integrità, la sacralità della vita, la dignità dell’essere umano. Tutto ciò è stato sostituito con il suo potere d’acquisto. Quando è l’avere che condiziona l’essere, chi non ha non è.
Come è avvenuto questo cambiamento?
Grazie all’uso spropositato della Parola di Dio. Nel nome di Dio si è andati a evangelizzare. Nel nome di Dio e si è andati a islamizzare. E nel nome della civiltà si è andati anche a colonizzare. Gli africani che vivono in Occidente guardano gli occidentali col sorriso e li chiamano fratelli. Per un africano è normale. Eppure se dovessimo soffermarci soltanto su ciò che la nostra comune memoria ci ha lasciato, questo sarebbe impossibile.
E allora perché accade?
Perché è la dimostrazione che è possibile guarire dall’odio. Eppure l’africano che arriva in Europa si sente additato come fautore di tutti i mali. Vuol dire che non abbiamo imparato niente dalla storia. “Invisibili” vuole rispolverare il fil rouge che ci collega. Partendo dalla schiavitù, passando per la Shoah e arrivando al dramma dei migranti di oggi.
Sei in Italia da oltre venti anni. Hai attraversato vari momenti socioeconomici e politici dell’Europa. Com’è cambiato il nostro continente? I pregiudizi verso gli stranieri erano così marcati anche quando sei arrivato?
Così marcati… non penso proprio. Sta di fatto che le responsabilità vanno condivise. Non credo che gli stessi migranti arrivati prima di me abbiano fatto quanto dovuto per favorire il nostro inserimento. In quell’epoca hanno avuto il gioco facile. Perché bastava avere la pelle scura per “avere il ritmo nel sangue” o per essere “un cugino di Bob Marley”. Invece di usare la loro presenza per un investimento culturale che portasse poi all’apertura e alla resilienza, l’hanno sfruttata per il tornaconto economico. Alimentando quell’idea malsana del vu cumprà. Ecco perché per noi è molto più arduo rovesciare la prospettiva e arrivare al vu pensà.
Come si rovescia questa prospettiva?
Sfruttando l’occasione dell’incontro. Non sforzandosi di rincorrere chi ti tratta da cane. Ma facendo in modo di non trovarsi mai a mangiare nella ciotola del cane.
Dal punto di vista degli italiani, noti maggiore consapevolezza (ad esempio quando partecipano ai tuoi spettacoli) rispetto a quando sei arrivato?
C’è sempre stata consapevolezza. È solo che non basta avere gli occhi per vedere. Così come non basta avere orecchie per ascoltare, a volte ci si limita a sentire. Noi dobbiamo superare la fase del sentire e arrivare al momento dell’ascolto. Favorendo il confronto tutte le tematiche che riguardano la contemporaneità. La società è una sola, non ve ne sono due. Condividendo questa medesima società, ognuno dovrebbe cercare di dare ciò che sa fare meglio. Il mio impegno è seminare questa visione, che secondo me è percorribile perché meno costosa. Basta semplicemente mettersi all’ascolto dell’altro. Dovunque provenga.
Del tuo Senegal si dice che è dinamico, che eccelle per l’innovazione in tutta l’Africa occidentale. Allo stesso tempo molti cosiddetti “migranti economici” raggiungono le coste europee.
Il mio Paese? Non so più quanto sia mio perché vivo fuori dal Senegal da ventun anni. Il punto è che nonostante il dinamismo, nonostante il tentativo della società civile di mettere sotto pressione i governanti gridando forte le varie forme di ingiustizia e di corruzione, rimane ancora una costola della Francia. Il nostro problema maggiore deriva dal fatto che non abbiamo nessuna autonomia. Né economica, né culturale, né monetaria, figuriamoci politica. Per raggiungere l’indipendenza, la nostra scelta è stata diversa da quella degli algerini che hanno imbracciato il fucile e sono andati a far la guerra per prendersela. Noi abbiamo trattato. E in quei negoziati abbiamo riconosciuto alla Francia quella che ancora oggi è una nuova forma di schiavismo. Se non hai una sovranità monetaria e non controlli le tue riserve, come puoi pensare di fare liberamente e autonomamente degli investimenti di fondi pubblici? Chi ti fa da garante per la conversione della moneta controlla le tue riserve. E quindi controlla anche le tue scelte politiche. Siamo un paese libero? No, assolutamente no. I nostri sono come dei bambini nati dalla Francia, e l’ostetrica si è scordata di tagliare il cordone ombelicale. Abbiamo un tasso di crescita che si avvicina al 7%. Ma i senegalesi soffrono la fame.
C’è qualcosa che stona.
Siamo stati cresciuti da un sistema politico che fa sì che le nostre economie rispondano a criteri che ci sono estranei. In modo tale che ci sia un asservimento – impossibile da spezzare o rallentare – ai desideri della Francia. Il problema è tutto qui. Se uno Stato non è libero di vendere le sue materie prime fissando liberamente il prezzo e con chi trattare, non è un paese libero. Noi dobbiamo riconoscere alla Francia la precedenza. Che avrà anche il diritto di determinarne il prezzo. Allora che sovranità abbiamo noi? No, noi siamo una provincia. Noi siamo i Galli della pelle nera. È una battaglia lunga, e sarà difficile arrivare a spezzare la catena. Anche perché coloro che hanno rappresentato la speranza per tutto il continente africano non hanno fatto in tempo a vivere il loro sogno, assassinati con la collaborazione e la complicità dei paesi confinanti, come per Thomas Sankara.
Il Senegal è anche il paese dei griot e dei grandi raccontatori di storie. A livello culturale, com’è la situazione nel Paese?
Fortuna vuole che il nostro primo presidente fu un poeta, Senghor, padre della negritudine. Aveva investito molto nell’arte e nella cultura. Fu lui per primo ad organizzare il Festival mondiale delle arti negro-africane. Ha investito tanto nella cultura e quello ci ha salvati; ecco perché non c’è mai stata una guerra civile in Senegal. Né interetnica né interreligiosa. Ma quello non toglie nulla al fatto che la politica sia venuta meno alle sue responsabilità. Avrebbe dovuto avere il coraggio di dire di no alla Francia e fare una collaborazione sincera con gli altri paesi africani, perché la crisi del continente africano è una crisi strutturale. Mentre in Europa i popoli diventavano nazioni, in Africa sono diventati agglomerati di etnie. Che non hanno mai avuto nulla da spartire nella loro storia. Le regole democratiche quindi così come noi le conosciamo, e che l’Occidente ha imposto ai paesi africani, non sono funzionali. Mio nonno voterebbe sempre e comunque Abdoulaye Wade. Mai e poi mai accetterebbe che a governarlo sia uno di un’etnia minoritaria.
In Senegal ci sono i movimenti indipendentisti della Casamance.
Volevano obbligare il governo centrale a fare una scelta drastica. Cioè, permettergli di nutrirsi da ciò che si produceva in loco. Perché è una delle anomalie dell’Africa. Siamo l’unico continente al mondo che produce quello che non consuma, e consuma quello che non produce. Si è creata un’emulazione che è diventata patologica. Un africano quando è ricco investe i suoi soldi in Europa. Consegna e affida i suoi soldi alle banche e agli istituti di credito occidentali. I suoi figli studiano nelle università occidentali. Va in vacanza nei paesi occidentali. Quando poi si avvicina alla morte, nelle sue ultime volontà chiede di essere seppellito in Africa. Per loro l’Africa è solo un cimitero; ma non si può sviluppare un cimitero.
Un tuo video molto virale che hai girato qualche tempo fa smontava alcuni luoghi comuni sulle migrazioni partendo dai numeri. Mi ha colpito il fatto che è stato condiviso anche da tante persone che non appartengono alla bolla di chi si occupa di migrazioni. Secondo te video del genere riescono a cementarsi nel pensare delle persone? Oppure siamo così distratti che dimentichiamo subito dopo e finisce tutto con un like?
No, anzi. A onor del vero quegli elementi incidono molto nell’immaginario collettivo. Io più di quello non posso fare. Non sono un cittadino italiano. Io non posso votare, non posso andare in Parlamento a fare proposte di legge. Nessuno mi ascolta perché io sono un numero. Non ho neanche un nome e un cognome. Io non ho un pensiero. L’immigrato in Italia è perennemente un immigrato. Non c’è un punto oltre al quale il migrante diventa parte del tessuto sociale. Anche perché non vi è mai stata una volta, nemmeno una volta, in cui dopo le elezioni un governo subentrato abbia mantenuto in toto tutti i provvedimenti sui migranti presi dal governo uscente. È significativo, perché per un periodo il migrante è abituato ad essere governato con determinate leggi e all’improvviso arriva un altro che ne fa altre totalmente diverse. Nelle elezioni successive il migrante, non avendo il diritto di voto, si dovrà ritrovare con la valigia pronta perché non saprà che ne sarà della sua vita dal giorno dopo le votazioni. Non penso sia un segnale di un desiderio di inclusione. È un limite.
Hai avuto modo di parlare di queste cose con Checco Zalone durante le riprese del film?
No, perché non c’è stato tempo. Anche perché io cerco sempre di scindere le cose. Quello che è il mio lavoro sul piano professionale ed etico va portato a termine. Poi se c’è un rapporto personale che ti permette anche di andare oltre ciò che succede in quel momento, le cose cambiano. Sappiamo tutti che girare un film del genere non consentiva questo rapporto, perché a fine riprese si tornava stanchi morti e si andava a letto. L’unica cosa che mi posso permettere di dire è che io sono fortunato ad aver conosciuto l’uomo, prima dell’attore. E l’uomo Checco Zalone per me è stato una gradevole scoperta. Di una semplicità, umiltà, elasticità e generosità incredibile. Uno arrivava sul set e non riusciva a capire chi fosse il regista. Bisogna essere umili, per agire in determinati modi e garantire a tutti la possibilità di sentirsi anche padroni di quello che si faceva lì. Ed era bello. E il risultato non poteva essere diverso. Andiamo prima a scoprire la persona, poi soffermiamoci sul personaggio. Ma qui spesso si cerca di conciliare i due, e non necessariamente ci arricchiamo.
A livello professionale cosa è cambiato? Dopo Tolo Tolo hai avuto qualche richiesta particolare?
Non l’avrei neanche accettata. Se mi arrivasse una richiesta partendo da questo film direi di no. Io sono come un falegname. Fa una sedia oggi, domani fa un tavolo, dopodomani fa un letto. Se vedi solo quella sedia allora non hai capito. Io faccio l’attore. Semplice, basta. Checco Zalone non aveva bisogno di Mohamed Ba per essere quello che è. Ma è vero anche il contrario. Ci siamo incontrati e abbiamo fatto un percorso insieme. Muore lì. Ognuno torna alle sue cose quotidiane. Per me la vita va avanti.
Profilo dell'autore
- Responsabile e co-fondatore di Frontiere News. Scrive di minoranze e diritti umani su Middle East Eye, Espresso, Repubblica, Internazionale e altre testate nazionali e internazionali
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