L’invasione sovietica dell’Afghanistan aveva spinto migliaia di persone a fuggire nel vicino Iran. Dopo decenni di angherie e ingiustizie, negli ultimi anni tanti apolidi afgani hanno provato in tutti i modi a superare i confini turchi per raggiungere l’Europa. Una situazione nota, che tuttavia si è aggravata notevolmente in seguito alle sanzioni statunitensi verso Teheran.
Le autorità turche sono alle prese con quasi quattro milioni di rifugiati. Tra questi ci sono oltre 170.000 rifugiati afgani registrati e secondo le agenzie umanitarie il numero di arrivi dall’Iran è in aumento.
Ad esempio, nella città turca orientale di Van, a circa 75 chilometri dal confine iraniano, molti rifugiati afghani sono costretti a dormire per strada e nei parchi pubblici e nei terminal degli autobus, da dove le autorità turche impediscono di spostarsi più lontano.
Questa nuova crisi è una delle conseguenze (probabilmente non previste) della campagna di “massima pressione” del presidente Trump, con la quale spera di costringere Teheran a negoziare la fine dei suoi programmi di energia nucleare e missili balistici.
La strategia include un ampio embargo commerciale con restrizioni su transazioni bancarie, esportazioni di petrolio, forniture al settore automobilistico iraniano e altro ancora. A novembre, l’Iran ha aumentato bruscamente il prezzo del gas per raccogliere fondi per distribuzioni di denaro, scatenando un’ondata di disordini a livello nazionale, anche nelle aree con grandi comunità afgane. I più poveri tra i poveri. Ultimi tra gli ultimi, senza documenti né dignità. In Iran come in Turchia.
Per capire da cosa fuggono gli afgani che vivono in Iran, proponiamo un reportage del direttore di Frontiere News pubblicato qualche tempo fa da Middle East Eye. Come potrete leggere, la situazione era già drammatica prima del definitivo colpo inflitto dalle sanzioni dell’amministrazione Trump.
Essere afgani in Iran, senza carte SIM né diritti
L’invasione sovietica del 1979 li ha cacciati dalle loro case; a distanza di decenni, oggi milioni di afghani sono perseguitati in Iran. Di Joshua Evangelista, da Middle East Eye (29/12/17) – Illustrazioni di Luca Ortello
YAZD, Iran – Abdul-Ali non conosce esattamente la sua età, ma crede di aver compiuto 65 anni qualche anno fa.
Si avvicina al carretto stracolmo, vicino a una discarica ai margini della strada. Farukh, la sua nipotina di sette anni, approfitta della sosta per mangiare delle caramelle.
È venerdì sera. Le strade dell’antica città di Yazd sono piene di bicchieri di plastica, rifiuti organici e cartoni impilati dai negozianti.
Abdul-Ali ha lavorato come spazzino a Yazd dal 1979, quando si è trasferito in Iran dall’Afghanistan all’inizio dell’occupazione sovietica. È malato. I medici gli hanno raccomandato di smettere di lavorare, ma non può farlo: i farmaci per i suoi problemi alla schiena sono troppo costosi.
Soprattutto, il suo lavoro è l’unica fonte di reddito per la numerosa famiglia di suo figlio Ashraf, che è disoccupato da due anni.
Un altro figlio, Maher, è da qualche parte in Afghanistan – Abdul-Ali non sa dove – dopo essere stato deportato dalla polizia iraniana diversi mesi fa.
Abdul-Ali non ha notizie da lui da due settimane ormai e teme che possa essere stato ucciso dai talebani o da appartenenti allo Stato islamico.
“Prego per lui ogni giorno, ma sono preparato al peggio: un’esplosione, un rapimento… solo Dio sa se è ancora vivo”, dice mentre si asciuga il sudore. “Quando ho lasciato l’Afghanistan c’era la guerra, ma non era così: ora è come l’inferno sulla terra”.
Durante gli ultimi mesi, la nipote di Abdul-Ali lo ha aiutato a raccogliere i rifiuti più piccoli, evitando che lui debba chinarsi troppo spesso.
Ma quando il dolore cresce, la sua mente è sopraffatta dalla paura di morire e di lasciare la sua famiglia senza alcun mezzo di sostentamento.
“Siamo afgani, il nostro destino è fare ciò che gli iraniani non vogliono fare”, ci dice, prima di afferrare di nuovo il carretto e continuare il suo viaggio con la piccola Farukh. “Fino alla morte”.
Obiettivi da odiare
Yazd, una città di quasi mezzo milione di persone, si trova in una remota località nel deserto dell’Iran centrale. È riconosciuta come patrimonio dell’umanità dall’UNESCO per la sua eredità zoroastriana e per l’architettura in terra.
Ospita anche migliaia di rifugiati afgani, che spesso vivono illegalmente nella città vecchia in case abbandonate fatte di fango e mattoni non cotti.
Principalmente impiegati come muratori, pulitori di fogne e facchini, sono comunemente oggetto di insulti da parte degli altri residenti, alcuni dei quali hanno organizzato negli ultimi anni diverse proteste non ufficiali contro di loro.
Le mura del centro città sono ripetutamente disseminate di graffiti contro la presenza dei rifugiati, ognuna firmata con lo stesso autografo: “Un cittadino del quartiere”.
“Non possiamo dire che tutti gli abitanti della città ci odiano”, ha affermato un mullah di quartiere di origini Hazara. “Condividiamo le stesse radici religiose e abbiamo usanze simili. Ma viviamo in un contesto di discriminazione e segregazione che consente agli estremisti di fare tutto ciò che vogliono contro di noi senza il rischio di essere puniti”.
Ciò che accade a Yazd non è così diverso da quello che i rifugiati afgani affrontano quotidianamente in tutti i principali centri urbani iraniani. Quasi quattro decenni dopo l’inizio del grande esilio, il paese ospita circa tre milioni di rifugiati tra i suoi 80 milioni di abitanti.
Nel maggio 2016, durante un incontro con il presidente afghano Ashraf Ghani a Teheran, il leader iraniano Ayatollah Khamenei ha sottolineato che “a differenza di alcuni paesi come Stati Uniti e Regno Unito, la Repubblica islamica dell’Iran ha sempre trattato il popolo afghano con rispetto, fratellanza e ospitalità”.
Un’affermazione falsa
La sua dichiarazione potrebbe essere vista come una presa in giro da parte dei rifugiati nati e cresciuti in Iran. A differenza di altre minoranze – come curdi, arabi o beluci – gli afgani non possono ottenere la cittadinanza. Subiscono anzi molta discriminazione, che spesso spinge le giovani generazioni a sognare di raggiungere l’Europa e quindi rivolgersi ai trafficanti.
Un rapporto di Human Rights Watch del 2013 affermava che negli ultimi anni l’Iran aveva limitato le vie legali mediante le quali gli afgani possono rivendicare lo status di rifugiato, sebbene le condizioni in Afghanistan siano peggiorate.
Human Rights Watch ha aggiunto che il governo iraniano non è riuscito a prendere le misure necessarie per proteggere la minoranza afgana dalla violenza legata all’aumento del sentimento xenofobo nel Paese, o per far sì che i responsabili rendano conto delle proprie azioni.
Essere un rifugiato afgano significa non poter possedere un’auto, una casa, un conto bancario o una carta SIM (se non attraverso terzi, iraniani). Un rifugiato afgano non può essere un datore di lavoro, e rischia il licenziamento in qualsiasi momento.
Un preside decide se un bambino rifugiato ottiene o meno accesso all’anno accademico successivo solo quando tutti gli studenti iraniani sono stati iscritti.
Se un afgano viene fermato senza documenti o permesso di soggiorno, potrebbe venire arrestato e deportato in aree dell’Afghanistan dove c’è un’alta e significativa presenza di militanti dello Stato Islamico.
Gli afgani corrono anche il rischio essere mandati a combattere con le guardie rivoluzionarie iraniane in Siria. Molti rifugiati lo fanno per proteggere i “santuari sacri” di quel paese, per ottenere un permesso di soggiorno di lunga durata, per puntare a un salario più elevato o per poter aprire un conto bancario.
Ma anche per quelli inviati sul campo di battaglia siriano, dicono alcuni rapporti, molte di queste promesse non vengono mai mantenute.
Jafar, 43 anni, è un costruttore afgano che si è trasferito a Isfahan quando era un bambino. A cena ci racconta la sua storia.
“Siamo come alieni, estranei sia agli iraniani che alle persone che vivono in Afghanistan”, afferma. “Viviamo con l’ansia di essere deportati, arrestati o semplicemente picchiati per le strade solo perché a un poliziotto non piace la nostra faccia. Ecco perché preferiamo rischiare la morte e cercare di raggiungere l’Europa”.
Mentre beve il suo tè dopo il pasto, riceve una chiamata Skype da due dei suoi cinque figli che si sono trasferiti in Svezia l’anno scorso. Parlando con loro, inizia a piangere.
“Entrambi sono affetti da uno squilibrio psicologico e mi stanno implorando di andare da loro. Sto raccogliendo soldi, speriamo di partire l’anno prossimo”.
Dopo aver terminato la chiamata, ci mostra la foto del figlio più giovane, un bambino di otto anni di nome Mirza, che indossa una divisa da atletica.
“Ha vinto diversi tornei, ma non vedrai nessuna medaglia o foto di lui nella sua palestra locale. L’allenatore mi ha detto che inserire nella custodia del trofeo il nome di un afghano sarebbe molto poco raccomandabile per la scuola. Così mi sono comprato una medaglia e l’ho appesa al muro di casa nostra”.
Mustafa, un video maker di 23 anni, ha raggiunto l’Europa in barca quando aveva 17 anni e ora ha la residenza danese.
“Essere un bambino afghano in Iran potrebbe essere la sfida più grande del mondo”, afferma. “Qualche esempio? Non puoi andare a nuotare in alcune piscine pubbliche, ti diranno che gli afgani sono sporchi e inquinano l’acqua. A scuola, se sei abbastanza fortunato da aver ricevuto l’autorizzazione a partecipare, gli insegnanti incoraggeranno gli altri studenti a fare meglio di te, poiché non è accettabile che un afgano ottenga voti più alti. Le cose non cambieranno se sei così pazzo da andare all’università: puoi scegliere cosa studiare solo da una piccola gamma di facoltà approvate. E poi bisogna ottenere tutti i documenti necessari. Da dove? Dall’Afghanistan, ovviamente! Il ritorno in Afghanistan per un rifugiato può essere estremamente pericoloso. Alla fine, se sei così fortunato a sopravvivere a talebani, allo Stato islamico, ai signori della guerra e agli ufficiali corrotti, puoi ottenere un visto, tornare in Iran e iniziare la tua carriera accademica”.
A luglio Mustafa è tornato in Iran per vedere sua madre. Sebbene abbia un visto regolare e un documento di identità danese, è stato arrestato a Teheran da cinque agenti in borghese e portato in un centro di identificazione ed espulsione.
“Preferirei chiamarlo un campo di concentramento”, dice. “Ho visto soldati che picchiavano anziani il cui unico crimine era la loro etnia. C’era sangue dappertutto. I bambini erano minacciati di essere inviati in Afghanistan se non si sarebbero arruolati nell’esercito per combattere in Siria. Fortunatamente, alla fine hanno deciso di non espellermi a causa dei miei documenti europei, quindi sono stato rilasciato. Ma non riesco a smettere di pensare a quello che ho visto laggiù”.
Venduto a una banda criminale
Trovare il contrabbandiere giusto per uscire dall’Iran è difficile. Gli afgani non sono autorizzati a spostarsi da una città all’altra senza permessi speciali rilasciati dalle autorità locali. Di solito il trafficante scelto è qualcuno della sua famiglia o, almeno, lo stesso clan. Ma ciò non garantisce che il viaggio avrà successo, tanto meno l’affidabilità del contrabbandiere.
I membri della comunità afgana a Kashan sono pronti a condividere la famigerata storia di Sardar, un giovane rifugiato che ha scelto il contrabbandiere sbagliato. Quando Sardar lasciò Shiraz per iniziare il suo viaggio verso l’Europa, non si aspettava che sarebbe finita in una grotta in un villaggio curdo vicino a Urumieh, l’ultima grande città prima del confine turco.
Era stato venduto a una banda che aveva chiesto un riscatto dai genitori di Sardar. Non hanno risposto in tempo, quindi i rapitori hanno tagliato due dita di Sardar dalla sua mano sinistra e hanno inviato ai genitori una foto di lui che sanguinava.
Suo fratello, che si era trasferito in Germania qualche anno prima, si indebitò per cercare di pagare il riscatto. Ma questo non era abbastanza per liberarlo. Sardar sopravvisse ai suoi aguzzini solo perché la sua famiglia raccolse abbastanza denaro dalla comunità afgana nella loro città. Ora vive in Australia e ha avuto l’opportunità di adottare due orfani afgani.
“Sebbene tutti siano consapevoli degli elevati rischi che comporta attraversare il confine, le persone continueranno a cercare di fuggire”, afferma Mustafa, che sta rimettendo la propria situazione in ordine prima di ripartire per l’Europa.
“Il motivo è piuttosto semplice: qui tutti hanno paura, difficilmente si trova qualcuno che protesta o organizza una manifestazione contro la polizia. Siamo nati con l’idea che le cose debbano andare in questo modo, che non possiamo fare nulla per cambiare il sistema. Dobbiamo solo lavorare per 12 ore ogni giorno e sperare di non attirare l’attenzione della polizia, dei soldati o dei pasdaran. Le alternative? Morire in Siria o pagare un trafficante. Ho scelto la seconda opzione e non me ne pento”.
Profilo dell'autore
- Responsabile e co-fondatore di Frontiere News. Scrive di minoranze e diritti umani su Middle East Eye, Espresso, Repubblica, Internazionale e altre testate nazionali e internazionali
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