I rifiuti tossici italiani stanno avvelenando la Bulgaria

La Bulgaria è invasa da migliaia di tonnellate di rifiuti italiani potenzialmente tossici. Un’inchiesta rivela lo schema operativo di un business tanto sporco quanto redditizio, dai contorni agghiaccianti, che sta creando una nuova “terra dei fuochi” nei Balcani. (Foto copertina: БГНЕС)


SOFIA – Una maxi operazione della polizia bulgara ha portato, nei primi giorni del 2020, al sequestro di un vero e proprio giacimento di rifiuti provenienti dalla Campania e accumulati in un deposito nella città di Pleven, a 130 km dalla capitale Sofia. Circa novemila tonnellate di metallo, plastica e carta destinate, ufficialmente, a essere riciclate. Il complesso che ospitava i rifiuti era però privo di sistemi idrici ed elettrici adeguati a sostenere un’attività di riciclo ed è plausibile che il sito servisse per lo stoccaggio illegale di rifiuti.

Il segretario generale del Ministero degli Interni Ivaylo Ivanov sospetta fortemente che l’attività sia legata agli interessi della criminalità organizzata italiana nella nazione balcanica: “Abbiamo inviato alle autorità italiane una richiesta formale”, ha dichiarato Ivanov, “per sapere se i rifiuti sequestrati in Bulgaria hanno qualcosa a che fare con le operazioni condotte per arrestare i membri della mafia coinvolta in questo tipo di attività”. A quali operazioni si riferisce?

Antonio Nicaso, considerato uno dei massimi esperti di ‘ndrangheta nel mondo, intervistato dalla bulgara Nova Tv sui possibili sviluppi del traffico di rifiuti nella nazione balcanica.

A dicembre i Carabinieri del Noe di Milano hanno sequestrato a Lecco 815 tonnellate di rifiuti destinati a uno stabilimento di recupero in Bulgaria. La documentazione d’accompagnamento sosteneva che si trattasse di materiale recuperabile, ma il carico –  da un valore complessivo di oltre 130mila euro – era invece composto da materiali industriali, plastica, gomma e tetrapak già trattati in appositi impianti e privi di frazioni riciclabili.

Pochi giorni dopo i Carabinieri hanno effettuato delle retate che hanno portato all’arresto di 330 persone, molte delle quali legate alla ‘ndrangheta. L’operazione Rinascita Scott, che il procuratore distrettuale di Catanzaro Nicola Gratteri ha definito “la più grande operazione dopo quella che ha portato al maxi-processo di Palermo a Cosa Nostra“, era volta a recidere i legami tra cosche, massonerie, imprenditoria e politica. Un puzzle mastodontico, in cui gli interessi legati ai rifiuti rappresentano solo uno dei tanti tasselli. Il New York Times dichiara che l’operazione abbia incluso anche interventi in Germania, Bulgaria e Svizzera, notizia confermata da alcuni media bulgari, ma poi liquidata dal Ministro degli interni Mladen Marinov. Antonio Nicaso, considerato tra i più grandi esperti di ‘ndrangheta al mondo, ha commentato l’operazione dichiarando alla bulgara Nova Tv che “la mafia vede i rifiuti come la nuova cocaina, e la Bulgaria è una destinazione appetitosa per lo stoccaggio“. Già nel 2015 aveva dichiarato che in Bulgaria operano “almeno sei clan ‘ndranghetisti, coinvolti con il traffico di droga e il riciclaggio di denaro sporco”.

Una nuova terra dei fuochi

Lo schema operativo di questa possibile gestione criminosa dei rifiuti, di cui analizzeremo a breve gli attori in gioco, prevede una dinamica molto semplice. L’azienda A ha l’incarico di riciclare il materiale di scarto (e per questa mansione è pagata profumatamente con soldi pubblici). Ma in Italia i costi sono esorbitanti e le strutture necessarie richiedono molta manutenzione. Sorge dunque l’esigenza di un luogo dove riversare e nascondere i rifiuti, col beneplacito di società complici e autorità locali conniventi. Qui entra in gioco l’azienda B, che per cifre relativamente basse accetta l’onere, e onore, di smaltire gli imballaggi. Il risultato? L’azienda A mantiene altissimi profitti scaricando il problema all’azienda B, che per un pugno di soldi è disposta a distruggere il materiale di scarto in modo irregolare o sotterrarlo, avvelenando la propria terra e chi vi abita.

Nell’intervista sopra citata, Nicaso parla senza mezzi termini del possibile coinvolgimento in Bulgaria: “Durante una conversazione telefonica tra membri della ‘ndrangeta, intercettata dalle autorità diversi mesi fa, sono emersi nuovi fatti piuttosto inquietanti. Vale a dire, sono alla ricerca di nuovi luoghi per lo stoccaggio di rifiuti tossici e industriali. Il nome della Bulgaria, come potenziale destinazione, è stato menzionato frequentemente nella conversazione. Ciò significa, tra l’altro, che il legame tra ‘ndrangeta e il crimine organizzato bulgaro starebbe diventando sempre più solido“. Tra i motivi che spingerebbero le cosche a puntare alla nazione balcanica vanno considerati i controlli, facilmente eludibili in una nazione dove la corruzione è ancora endemica, e la tassazione particolarmente favorevole.

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L’intercettazione a cui fa riferimento Nicaso è quella del 18 gennaio 2018 tra Giuseppe “Pino” Benincasa e Pasquale Nicola Profiti, arrestati nel blitz di dicembre e ritenuti tra i vertici di una rete di ‘ndrine attiva tra la Calabria e l’Umbria. All’indomani della maxi-retata, il Corriere dell’Umbria ne riporta uno stralcio:

Pasquale: “Tu trovami un’aziendella qua in giro che raccoglie rifiuti, la pigliamo, nel senso che ci mettiamo dentro noi…abbiamo uno sfogo in Bulgaria”
Pino: “Mh”
Pasquale: “Qualunque tipo, i rifiuti non partono, ci sono i documenti, ci danno i soldi, possiamo fare un bel business”
Pino: “Beh non è semplice, non è una cosa semplice”.
Pasquale: “Tu trovami qualcosa, guarda che c’è bisogno, perché in Italia non sanno a dove pigliarli”.

Per il quotidiano umbro queste organizzazioni “puntano ad aggiudicarsi un appalto per lo smaltimento dei rifiuti da trasferire nel paese est europeo, la Bulgaria, mediante un’azienda trovata ad hoc da Benincasa, incassare il corrispettivo dovuto per il servizio ed in realtà sotterrare i rifiuti in siti non autorizzati”. Ma qual è l’origine di questi rifiuti? Nicola Gratteri e i sostituti titolari delle indagini, continua il giornale nell’edizione del 16 dicembre 2019, segnalano che “sono sorti elementi indiziari circa un possibile traffico di rifiuti speciali provenienti dall’Ilva di Taranto“.

Mancano ancora troppi anelli concettuali e sarebbe probabilmente errato collegare i puntini in maniera frettolosa. Le varie operazioni antimafia sono state condotte poco più di un mese fa ed è ancora difficile comprendere quanto i vari episodi siano collegati tra loro. Bisognerà attendere eventuali sviluppi processuali prima di giungere a determinate conclusioni. Ma scavando ulteriormente negli archivi italiani e bulgari, emerge un disegno che appare strutturato e studiato nei minimi dettagli. Andiamo con ordine e facciamo un passo indietro.

Pezzetti di puzzle

Le novemila tonnellate di rifiuti rinvenuti a Pleven agli inizi di gennaio erano stoccate in un deposito dell’azienda Phoenix Pleven EOOD, il cui oggetto sociale prevede effettivamente anche la gestione di rifiuti di varia natura. La Phoenix ha ricevuto il materiale dalla Vibeco Srl (che non risulta coinvolta in indagini in corso) tramite i servizi di trasporto di varie ditte, tra cui la Bm Service Srl. L’operazione Metauros della Direzione investigativa antimafia ha portato, nel 2017, al fermo di vari imprenditori e politici per vari reati legati alla gestione dei rifiuti. Tra questi Francesco Barreca, gestore della Bm Service – alla quale, peraltro, è stato presentato nella medesima operazione della DIA un decreto di sequestro preventivo d’urgenza. Il procedimento risulta essersi definito con decreto di archiviazione. Le menzionate aziende sono inoltre, insieme alla Sirio Ambiente, vincitrici di un appalto da 30 milioni di euro per la rimozione dei rifiuti campani.

Secondo il portale bulgaro di giornalismo investigativo Bivol – dal 2011 partner di Wikileaks per l’area balcanica – i rifiuti rinvenuti a Pleven avrebbero seguito la seguente rotta:

La Vibeco Srl ha consegnato le ormai famigerate novemila tonnellate di rifiuti italiani trovati a Pleven alla società Phoenix Pleven EOOD. Si tratta certamente degli stessi rifiuti relativi all’appalto del 2016, poiché da allora non ne sono stati indetti degli altri. Il carico ha viaggiato via mare dal porto di Napoli al porto di Varna. Il corriere per il porto di Napoli è la Bm Service (Bivol è in possesso della documentazione e può mostrarla su richiesta).

Il piano iniziale per la spedizione prevedeva un tragitto via nave da Napoli al porto di Costanza, in Romania, e quindi lungo il Danubio fino al porto bulgaro di Svishtov. Si evince dalla notificazione IT 010846 del Ministero dell’Ambiente italiano ai loro omologhi rumeni e bulgari.

[…]

Le autorità rumene, che hanno avuto esperienze negative con l’importazione di rifiuti italiani, erano pronte a effettuare controlli rigidissimi del contenuto delle balle di rifiuti. Questo è il motivo più probabile per cui la notifica verrà annullata dalla parte italiana l’1 agosto 2018. […] Il governo italiano ha emesso una nuova notifica con lo stesso numero e per la stessa spedizione, ma con una rotta diversa: dal porto di Napoli al porto di Varna, dove il primo carico di rifiuti è arrivato alla fine del 2018. Non esiste documentazione che dimostri se le autorità bulgare abbiano controllato le balle all’arrivo.

Nel febbraio 2020, i rappresentanti legali della Vibeco hanno dichiarato a Frontiere News la loro posizione in merito, che risulta essere la seguente:

“Vibeco si è occupata unicamente della gestione della spedizione transfrontaliera del rifiuto, nel pieno rispetto della vigenti normative, sia italiane che bulgare. L’idoneità del sito di destino e per le attività di recupero, impianto di Pleven, veniva confermata dal competente Ministero bulgaro, Ministry of Enviroment and Water of Bulgaria (MOEW), che approvava e consentiva formalmente la spedizione.

I rifiuti erano oggetto di tre distinte spedizioni navali, per ognuna delle quali veniva data, come previsto, ogni informazione alle competenti Autorità con il dovuto preavviso, e senza ricevere alcuna comunicazione contraria alla movimentazione stessa. La medesima destinataria Fenix Pleven EOOD forniva, all’esito, ogni dovuta documentazione e certificazione, comprovante la regolarità del conferimento. Vibeco non ha dunque alcun riscontro diverso rispetto al corretto e conforme esito della movimentazione transfrontaliera in questione, rilevandosi altresì come la stessa abbia operato in maniera corretta e conforme al ruolo, secondo la legislazione vigente, nonché come da autorizzazioni, previamente ottenute, previste dall’ordinamento giuridico di settore.

La rinnovazione della notifica è dipesa unicamente da una obbligata modifica del percorso individuato, in quanto l’indicata navigazione sul fiume Danubio era divenuta impossibile in ragione di un imprevisto ed eccessivo abbassamento del livello idrico del fiume stesso che non consentiva la navigazione ad imbarcazioni adeguate. Il cambiamento obbligato di itinerario veniva comunicato alle Autorità, con nuova notifica, e dalle stesse approvato, come in precedenza”.

Ad ogni modo, la “scoperta” delle balle a Pleven non va inquadrata come un caso isolato nel contesto bulgaro. Rifiuti sospetti sono stati recentemente rinvenuti anche nell’oblast di Montana (la più povera regione dell’Unione Europea), a Vratsa, nella città di Varna e a Pernik. Questa invasione tossica ha gettato l’ormai ex Ministro dell’ambiente bulgaro Neno Dimov in un vortice di polemiche che, sommate ad altri scandali di malagestione, hanno avuto il culmine nel suo fermo amministrativo (e conseguenti dimissioni). Dimov è accusato di aver deliberatamente garantito l’uso di acqua potabile per motivi industriali nella città di Pernik, dove lo scorso inverno la siccità ha costretto la popolazione a una rigida razionalizzazione delle risorse idriche. Si tratta del primo caso, nella storia post-comunista bulgara, di un ministro che ha passato una notte in prigione. Poche settimane dopo le dimissioni, un’altra bufera investe Dimov, questa volta accusato di coinvolgimenti in concessioni poco trasparenti relative ai resort di Bansko, nota località sciistica a sud di Sofia.

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Chiusa una porta, si apre un portone

Un caso slegato dalla vicenda sopra menzionata, ma da approfondire per comprendere la complessità della questione dei rifiuti italiani in Bulgaria, è quello dell’imprenditore Sergio Gozza, coinvolto da anni nello smaltimento dei rifiuti e posto nel 2010 agli arresti domiciliari durante un’operazione guidata dai pubblici ministeri di Napoli e Ancona. Era accusato, insieme ad altri 15 sospettati, di classificare i rifiuti imballati in modo errato e quindi smaltirli illecitamente traendone un ingiusto profitto. Una delle tesi sostenute dall’accusa riteneva che il gruppo di Gozza avesse falsificato i risultati di un test sui livelli di arsenico in 150.000 tonnellate di rifiuti destinati in Sassonia, in modo da aggirare i severi controlli tedeschi. I pubblici ministeri sostenevano che gli imputati erano “pienamente consapevoli del ruolo svolto nella complessa filiera dello smaltimento illecito praticato”. Tuttavia, dopo ben otto anni di indagini, analisi e ricostruzioni, nel novembre 2018 tutti i capi di accusa cadono in prescrizione e nessuno viene condannato.

Un’indagine congiunta di IRPI e Rise Romania, coordinata dall’Organized Crime and Corruption Reporting Project (OCCRP), rivela che Gozza sarebbe stato anche dietro lo scandalo del 2013 relativo all’uso di rifiuti italiani come combustibili per delle fabbriche di cemento in Romania: nel porto di Costanza fu sequestrata la nave Volgo Balt, la cui responsabilità cadeva sulla società bresciana Ecovalsabbia, intestata a Sergio Gozza. La nave rimase ferma per due mesi, trattenuta dalle autorità rumene perché trasportante 2700 tonnellate di rifiuti dell’impianto Deco, in Abruzzo, non adeguatamente trattati e classificati.

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Non potendo portare avanti i propri affari in Romania, Sergio Gozza manderà quindi il carico di rifiuti in Bulgaria. Specificatamente, le attività dell’imprenditore bresciano troveranno un nuovo, importante sbocco negli impianti di Hristo Kovachki, magnate bulgaro del settore energetico nonché  – con circa 850 milioni leva di patrimonio netto, cioè 425 milioni di euro – secondo uomo più ricco della Bulgaria. WikiLeaks ha diffuso questa indiscrezione trapelata da conversazioni riservate tra diplomatici statunitensi:

21. (C) […] Le radici di Kovachki vanno associate, più direttamente, al crimine organizzato. Era uno stretto collaboratore di Konstantin Dimitrov (conosciuto come Samokovetsa) che, prima di essere assassinato ad Amsterdam nel 2003, è stato uno dei maggiori trafficanti della Bulgaria. Alcuni, come Dyulgerov, credono che le attività illecite di Dimitrov abbiano rappresentato la fonte del capitale iniziale di Kovachki, che poi ha usato per investire nel settore energetico. Altri, che hanno più familiarità con i canali di contrabbando usati da Dimitrov e dalla Bulgaria in generale, vedono nella Russia e nel crimine organizzato russo la base della ricchezza di Kovachki. Indipendentemente da quale sia la fonte della sua ricchezza iniziale, l’attuale impero di Kovacki è vasto. Oltre ad essere il proprietario dell’unica fabbrica di mattoni nei Balcani (Brikel), con la sua azienda principale, la “Atomenergoremont”, Kovachki possiede almeno quattro miniere, cinque impianti di teleriscaldamento (a Burgas, Pleven, Veliko Turnovo, Gabrovo e Vratsa), diverse centrali termoelettriche (possiede anche una quota del 51% nella centrale mini-Martisa East 3 di Dimitrovgrad), oltre a controllare cinque società di carbone ed essere un azionista di minoranza della banca comunale di Sofia. […]

Il principale finanziatore delle imprese associate a Hristo Kovachki è la First Investment Bank bulgara (FIB o Fibank). Uno dei proprietari della banca, Ivaylo Mutafchiev, è stato testimone di nozze di Kovachki. Nel 2018, Greenpeace – Bulgaria ha pubblicato un rapporto sull’attività di Kovachki, intitolato Financial Mines (“Miniere finanziarie”), sostenendo che in realtà l’oligarca – che in passato è stato accusato di aver evaso 8 milioni di euro di IVA – non sia altro che una marionetta nelle mani di gruppi imprenditoriali e politici intorno alla FIB.

La combustione dei rifiuti italiani, spiega Bivol, è una nuova tappa nei progetti energetici di Kovachki e ha senso dal punto di vista finanziario. In Italia ci sono diverse aziende che vendono vari tipi di rifiuti urbani, domestici e industriali per un valore compreso tra gli 80 e i 140 euro a tonnellata.

Smaltire rifiuti senza il rispetto delle dovute procedure lascia segni visibili. L’aria si riempie infatti di fumo giallo-marrone – a volte persino nero – dall’odore pungente. Ma a far temere sono soprattutto gli effetti invisibili: “La mancanza di controllo sull’importazione di rifiuti dall’estero e sulla loro combustione”, scrive Ivailo Stanchev su Capital.bg, “può portare al rilascio nell’atmosfera di composti cancerogeni e all’assorbimento di acque tossiche nei terreni. Il vantaggio per Kovachki è evidente: incassa i soldi per gestire i rifiuti, risparmia sulle quote [sulle emissione di Co2, ndt] e rivende a caro prezzo elettricità così prodotta. Il rischio di tutto il processo ricade su coloro che vivono vicino alle centrali elettriche”. Nonostante la pressione dei media e il malcontento della popolazione, il Ministero dell’ambiente bulgaro continua a mantenere il segreto su quale tipo di rifiuti venga incenerito e tramite quali tecnologie.


Profilo dell'autore

Valerio Evangelista
Valerio Evangelista
Dal suo Abruzzo ha ereditato la giusta unione tra indole marinara e spirito montanaro. Su Frontiere, di cui è co-fondatore, scrive di diritti umani e religioni.

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