Christy Lefteri è cresciuta all’ombra del trauma che i propri genitori, in fuga nel 1974 dopo l’invasione turca di Cipro, portarono con loro nel Regno Unito. Il suo romanzo L’apicultore di Aleppo (Piemme, 2019) nasce da questo trauma e dalle decine di storie che ha raccolto durante un lungo periodo di volontariato con i migranti ad Atene nel 2016.
Premio Aspen 2020 e best seller in tutto il mondo, il romanzo racconta la storia di Nuri, apicultore, e della moglie Afra, pittrice diventata cieca dopo che una granata ha ucciso davanti a lei il figlioletto Sami. Il viaggio della coppia da Aleppo al Regno Unito è un’odissea infinita in cui le insidie della guerra e dei muri si intersecano con i traumi, silenziosi ma assordanti, delle loro vite distrutte. Lefteri ha deciso di raccontare ai lettori di Frontiere News e The Dreaming Machine il percorso creativo e umano che ha fatto nascere il romanzo.
Intervista di Joshua Evangelista e Pina Piccolo
Christy, iniziamo dalla tua esperienza di volontariato in Grecia: in che modo ha influito sul modo in cui hai elaborato il romanzo?
Forse dovrei iniziare dal mio background famigliare.
Questa in effetti sarebbe stata la nostra seconda domanda…
Inizierò con la storia dei miei genitori perché porta al motivo per cui sono finita in Grecia. I miei genitori erano dei rifugiati: raggiunsero il Regno Unito nel 1974 dopo lo scoppio della guerra a Cipro. Mio padre era un ufficiale dell’esercito e, nella fuga attraverso l’Europa, per sopravvivere fu costretto a mangiare frutta dagli alberi, in Francia. Poi raggiunse il Regno Unito, dove i suoi genitori si erano già stabiliti e conobbe a Londra mia madre. La sfida era integrarsi e provare a lasciarsi alle spalle i traumi.
Ci riuscirono?
È qui che entra in gioco la psicoterapia. I traumi non vanno da nessuna parte. Vivono sotto la superficie e finiscono per traboccare come dei vulcani. Penso di aver vissuto all’ombra di quella guerra e di quel trauma. Sebbene i miei genitori non parlassero della guerra,c’erano delle reazioni, una certa iper-protettività e talvolta una rabbia che non capivo. Poi sono entrata in terapia e questo mi ha aiutata a capire che mio padre da ufficiale in comando doveva essere stato davvero traumatizzato da quella guerra. Non c’è da stupirsi che durante la mia infanza ci fossero state alcune reazioni che non riuscivo a capire.
Tuo padre è tornato a vivere a Cipro.
Mia madre è morta nel 2008 e mio padre è tornato a Cipro. Nel 2016, a Pasqua, sono andata a trovarlo. Vive nell’estremo oriente di Cipro, proprio di fronte alla Siria. Da lì, se prendi una piccola barca riesci a raggiungere la Siria. Mi sono seduta di fronte al mare, bellissimo. Ho iniziato a pensare alla guerra in corso: “È così vicina a dove sono. E, appena poco più a nord di dove sono, c’è una linea che divide l’isola”. E ho pensato ai miei genitori, ai miei nonni, ai miei zii e a quello che avevano vissuto. E ora, appena oltre questo lembo d’acqua, c’erano persone che stavano vivendo così tanta morte e devastazione che qualcosa dentro me mi ha quasi costretto a volere andare ad aiutare.
Ed eccoci, quindi, alla tua esperienza in Grecia.
Non potevo andare in Siria perché era troppo pericoloso. Quindi ho pensato: “Beh, parlo greco, ho già lavorato con bambini”. Così sono finita in un centro per donne e bambini, ad Atene, all’interno del Faros Hope Center. Un posto caotico ma sicuro rispetto ai campi profughi nelle vicinanze. C’era persino l’aria condizionata (l’estate greca è rovente).
Per il Centro passano anche i due protagonisti del tuo romanzo, Nuri e Afra.
Esatto, da qui vengono allontanati dopo che lo staff si rende conto che non hanno bambini con loro. Nel libro parlo del vecchio aeroporto, lì è stato orribile. C’erano insegne duty-free illuminate, così come i cartelli dei taxi all’uscita dell’aeroporto. All’interno era come una serra, perché tutto il sole entrava dalle finestre. Si cuoceva, non c’era aria condizionata. E c’erano tende ovunque…migliaia e migliaia di tende. E poi naturalmente c’erano persone anche fuori, che appendevano i loro vestiti ad asciugare tra gli alberi. Il caldo e l’odore erano terribili. Non era un buon posto per le persone, ma era meglio della strada. E poi c’era Pedion tou Areos, che ho menzionato nel libro, l’accampamento nel parco.
Il parco diventa centrale nel racconto.
Ho deciso di inserire un pezzo di storia nel parco, perché volevo far emergere la questione della prostituzione minorile e le altre cose che stavano accadendo. Durante la mia esperienza nel campo ero sopraffatta delle emozioni e quando questo capita, la prima cosa che sento è che voglio scrivere. Così ho deciso di intervistare le persone. Di sera, e non al centro, perché quello doveva essere un posto sicuro per loro. Dopo il lavoro incontravo gente in giro in piazza Vittoria e chiedevo di raccontarmi le loro storie. La maggior parte delle persone voleva davvero parlare e in questo modo ho raccolto tante storie.
È molto interessante il modo in cui strutturi la narrazione. Il libro è diviso in 14 capitoli numerati e poi ha tanti paragrafi che hanno come titolo una parola che è la continuazione dell’ultima parola del capitolo precedente. Come si è sviluppato il processo creativo per raccontare la storia in modo che venisse ricevuta anche da persone che non hanno vissuto questo tipo di esperienza?
Dopo la morte di mia madre mi capitava che mentre parlavo con delle persone, durante un brindisi o sorseggiando una tazza di tè, dopo una parola detta da qualcuno immediatamente era come se non ci fossi. Per l‘altra persona ero ancora regolarmente lì, eppure quella parola funzionava come un fattore scatenante che mi riportava nel passato. E improvvisamente stavo bevendo una tazza di tè con mia madre da qualche parte e potevo vedere il suo viso. E mi sentivo triste, mentre provavo a mantenere la concentrazione sulla persona con cui stavo parlando. Così, mentre stavo scrivendo questo libro ho pensato a quello che aveva perso il protagonista Nuri: la sua casa, suo figlio, i suoi affari, le api, suo cugino, il rapporto che aveva con sua moglie, il suo paese. Quindi ho pensato di sperimentare, ricordandomi di quella sensazione di “cadere” nella memoria. Così ho deciso di prendere una parola che avrebbe portato Nuri nel passato. E funzionava. Quindi ho continuato e ho deciso di strutturare il romanzo in questo modo, così che dal presente si cada nel passato, e poi torniamo al presente e nuovamente cadiamo nel passato.
Perché hai deciso che il tuo protagonista è un apicoltore? È incredibile il modo in cui hai approfondito le dinamiche tecniche di questa professione.
Mi sono svegliata una mattina e ho detto: “Wow, Nuri diventerà un apicoltore”. Non so da dove provenga. Quindi ho iniziato a documentarmi sull’apicoltura in generale e poi ho cominciato a studiare l’apicoltura e l’agricoltura in Siria. E poi mi sono imbattuto in un articolo su un uomo, il dr. Riyad Alsous. A Damasco era professore di agricoltura all’università oltre che proprietario di alveari. Una volta raggiunto il Regno Unito come rifugiato insiemealla sua famiglia, si è stabilito a Huddersfield, nel nord dell’Inghilterra. Qui ha creato un progetto chiamato Buzz Project in cui insegna a rifugiati e persone in cerca di lavoro come mantenere le api. Avevo già creato il personaggio di Mustafa e quello di Nuri. Quando ho visto l’articolo, ho pensato: “Oh mio Dio, devo contattare quest’uomo”. Quindi l’ho trovato su Facebook e gli ho inviato un messaggio sperando che avrebbe risposto, e lo ha fatto. Mi ha detto: “Perché non vieni a trovare me, la mia famiglia e le api?” Ovviamente ho detto di sì. È stata la mia prima volta con le api, c’erano almeno 10.000 api. Ryad ha detto: “Non preoccuparti, semplicemente rimani ferma”. E ancora “Non aver paura. Saprò quando si arrabbieranno. E io risposi: “Come fai a saperlo?” E lui: “Perché inizierà a puzzare di banane”. Mi sono fidata ed è stato bellissimo, stupefacente. Quindi, per raccontare quando Nuri da giovane incontra le api sulle montagne per la prima volta insieme al cugino Mustafa, ho usato quell’esperienza.
Negli apiari Ryad mi ha insegnato come funziona un alveare, le api regine, le stagioni: mi ha raccontato così tante cose che le ho dovute registrare. Siamo ancora amici. È un uomo adorabile.
Torniamo alla scena nel parco, le voci di tutte le persone arrivano al lettore come il ronzio delle api. È un effetto voluto? Del resto qui nel parco Nuri, che sembra un uomo contemplativo e che tiene tutto sotto controllo, subisce un rovesciamento della situazione e non si sa chi veda davvero, tra lui e la moglie. Come hai creato questa atmosfera, rilevando il “bene e il male” in maniera non manichea?
Mi ero ripromessa che non avrei lasciato Atene fino a quando non avessi finito di scrivere il pezzo lì ambientato. Quindi questo significa che ero circondata da quell’atmosfera. Insegnavo inglese alle donne e ai bambini e quando non insegnavo assorbivo e scrivevo. E le persone mi vedevano scrivere e volevano saperne di più, così quando spiegavo cosa stessi facendo loro iniziarono a condividere con me le loro storie migliori. E mi hanno raccontato cosa succedeva nel parco, come ad esempio il mercato nero: c’erano molte storie su come le persone rapivano i bambini per ottenere i loro organi e venderli. Ho pensato che questo non potesse essere reale. Ma facendo ricerche trovavo informazioni su giornali e sulle riviste. “Maledizione”, pensavo, “quello che mi hanno detto è vero!” In questa atmosfera, con il caldo e i locali che mi dicevano cosa significasse per loro aiutare i rifugiati, mi sono fatta assorbire dalle storie. Così, quando non insegnavo scrivevo dalle nove e mezza del mattino fino alle cinque e mezza del pomeriggio. Di solito non sono così strutturata ma ho dovuto farlo perché sapevo che lasciando la Grecia non sarei stata in grado di trasmettere la stessa atmosfera.
Quanto sono stati importanti i feedback da parte dei migranti, mentre e dopo aver scritto?
Davvero molto importanti. Dopo essere tornata, decisi di imparare l’arabo e conobbi un insegnante di nome Ibrahim Othman, di Aleppo. Per più di un anno ci siamo visti un’ora e mezza a settimana. Quando gli dissi cosa stessi scrivendo lui mi rispose che gli stavo toccando il cuore perché anche i suoi genitori erano rifugiati. Così, ogni lezione diventò 45 minuti di arabo e 45 minuti di lettura del manoscritto. Ibrahim mi diceva cosa era realistico e cosa no. Con la mappa di Google, con i nomi arabi, abbiamo ripercorso le strade che hanno fatto i personaggi per raggiungere ilconfine turco. E poi gli chiedevo come erano i fiori. E il suolo? Di cosa odora? Tutte queste cose. E poi mi ha insegnato molto sulla Siria prima della guerra. Ogni domenica mattina andavamo in un ristorante siriano ed era una grande festa, dove provavo tanti cibi diversi. È stato meraviglioso, ma senza Ibrahim non avrei potuto farlo. Per lui è stato difficile: doveva ricordare la sua casa sapendo di non poterci tornare.
È stato difficile risultare convincente nel rappresentare l’empatia senza farla sembrare una predicazione? Nel libro c’è un episodio: mentre scappano con il camioncino, danno a un uomo che incontrano per strada una bottiglia d’acqua e del pane. Lui dice loro di non proseguire per quella strada perché ci sarebbe stato un cecchino pronto a ucciderli. Come hai fatto a raccontare questi episodi con profondità e autenticità? In altri romanzi simili questo non succede.
Non avevo nessuna intenzione di trasmettere un messaggio che invitasse i lettori a essere empatici. Ero solo sopraffatta dalle emozioni. In un certo senso stavo solo scrivendo quello che vedevo, sentivo e capivo. Penso che è ciò che accade naturalmente con la letteratura quando si ha una relazione intima con i personaggi. Uno scrittore potrebbe far entrare in empatia il lettore perfino con uno psicopatico se lo volesse davvero, perché ha una relazione intima con quel personaggio.
Per creare dei personaggi convincente noi scrittori possiamo aiutarci vedendo attraverso i loro occhi o annusandoli, per capire il mondo attraverso i loro sensi. L’empatia viene dopo. Quindi quando scrivo non mi fermo a pensare se ho creato empatia o meno. Penso solo: ho creato personaggi convincenti? Se non mi importa di loro, allora c’è qualcosa che non va.
Come è andata per Nuri e Afra?
All’inizio qualcosa in Nuri ha preso una piega leggermente diversa e ho pensato che non avrebbe funzionato. Volevo che avesse questa distanza da Afra e che si perdesse in se stesso. Per farlo ho preso delle decisioni il cui funzionamento ha a che dare l’aiutare i lettori a camminare nei panni di quei personaggi.
Sebbene il tuo romanzo non sia politico, i lettori scoprono come funzionano le interviste per concedere l’asilo nel Regno Unito e, più in generale, sono portati a riflettere sul loro modo di essere europei in relazione alle persone che arrivano da altri paesi. Come reagiscono a tutto questo? Hai avuto feedback da lettori che avevano un’altra idea sull’accoglienza e sul proteggere i confini e che dopo aver letto il libro hanno cambiato idea?
Ho fatto molte presentazioni, specialmente durante il periodo della Brexit. Quando si trattava di ascoltare le domande dal pubblico, in qualche modo si finiva sempre con il discutere sui confini, sulla Brexit, su cosa significa essere migranti o rifugiati, sulla guerra, sull’eventualità che i rifugiati non si sentano benvenuti. È fantastico che le persone facciano queste domande, tuttavia mi infastidisce il fatto che spesso questo tipo di domande proviene da persone che già mettono in discussione le cose. È improbabile che qualcuno che odia gli immigrati o che ama la Brexit si procuri il mio libro o un altro libro che ha a che fare con questo tipo di argomenti. Sono contento che il libro sia stato letto e che le persone si siano immedesimate nei personaggi. Ma spero anche che possa raggiungere persone che normalmente non penserebbero queste cose. Ma non so quanto sia possibile.
Perché viviamo in un contesto polarizzato?
Assolutamente! Sai quanti dottori del sistema nazionale pubblico che sono morti in questi giorni erano immigrati? Eppure prima della Brexit la gente voleva mandarli via perché ci stavano rubando il lavoro. Quello che sta succedendo oggi farà capire qualcosa alle persone? Non lo so. Prima della Brexit il Regno Unito era estremamente polarizzato. È stato terribile. L’ho odiato. Mi sono vergognata del mio paese. Stavo male per quello che stava succedendo, c’era una tale divisione, una tale polarizzazione, un tale odio diffuso.
Sembra che, in Italia come nel Regno Unito, non ci sia alcunalcun tipo di riflessione al riguardo, nessuna autocritica.
È quella mancanza di riflessione che mi manda in crisi, viviamo in tempi molto strani.
Afra fa la pittrice e diventa cieca. Nuri ha il controllo. Eppure, mentre la storia si sviluppa, c’è un’inversione di tendenza. In realtà si scopre che quella che vede veramente è lei. Parlaci di questo personaggio.
C’era quest’uomo che sedeva in piazza Vittoria e non parlava con nessuno. Ogni giorno si tagliava i polsi. Teneva in mano una fotografia con sua madre e due fratelli che aveva perso in guerra.Non parlava mai ma un giorno mi dissero che guardando le foto aveva detto “mi mancate”. Che storia straordinaria! Anche se sembra una piccola cosa, non lo è. Quest’uomo è passato dal non parlare mai al dire “mi mancate”: mostra una forza straordinaria. C’è una storia straordinaria che viaggia attraverso i suoi polmoni e la sua mente per passare da nessuna a tre parole. Così ho pensato a questa donna cieca, mentre preparavo i personaggi, e ha preso la luce. E dopotutto ho pensato che probabilmente era un’artista, altrimenti non avrebbe avuto questa forza per passare dal non vedere al vedere. Nel corso della storia scopre di avere questa forza. Che ad esempio le permette di seguire le linee del foglio e disegnare senza vedere.
Tra i personaggi secondari è molto interessante Angeliki, perché in un certo senso riesce a fare uscire Afra dal suo isolamento. Così come l’uomo marocchino che incontrano nel bnb e che alla fine diventa il mentore di Muri.
Ho notato che a volte l’aiuto e le amicizie arrivano da luoghi inaspettati. Ad Atene ho visto persone che stringevano nuove amicizie e come quelle amicizie le facessero ridere. E ho anche ricordato i miei genitori che quando arrivarono nel Regno Unito conobbero degli amici che li introdussero a cose che li portò ad avere più gioia o forza nella loro vita. L‘uomo marocchino ha osservato Nuri e ha pensato: “Oh, lasciami fare qualcosa per quest’uomo”, è uscito e ha comprato delle piante. È il genere di cose che forse mio nonno avrebbe fatto. Angeliki invece mi ricorda molto una donna del Kenya che ho incontrato ad Atene, il cui bambino le è stato portato via. Aveva una certa bellezza, questa donna, qualunque cosa avesse passato. L’ho inserita nella storia, c’era così tanto calore in lei che mentre parlava con altre donne dava anche a loro tutta questa bellezza in esse.
Di solito, quando si tratta di letteratura sulla migrazione, c’è latendenza a polarizzare i personaggi. Ci sono i buoni, poveri migranti e poi ci sono i malvagi: trafficanti, poliziotti e così via. Questo non succede nel tuo romanzo, dove anche le figure negative hanno lati estremamente umani. Anche i trafficanti sono migranti con i loro problemi interiori irrisolti. Persino Nadeem, che spinge due adolescenti a prostituirsi, è un personaggio a tutto tondo, da approfondire.
Avrei potuto scrivere un intero libro su Nadeem. Non avevo intenzione di creare personaggi complessi. Stavo solo pensando alle persone che ho incontrato, tra cui uomini che erano stati in qualche modo attratti da questo orribile modo di vivere perché volevano sopravvivere. Come nel caso dei due gemelli del romanzo, che stanno lì senza niente da mangiare. E poi qualcuno viene e dà loro un telefono, il dopobarba, delle scarpe da ginnastica: loro vengonoattratti e quindi risucchiati.
Molte persone sono state risucchiate in questo modo per poi venir coinvolte più profondamente. Quindi volevo avere questo tipo di nozione sullo sfondo, che forse è quello che è successo a Nadeem. Ed è per questo che gli ho fatto tagliare i polsi. E non volevo far dire a Nadeem che si sentisse in colpa, però potevo mostrare che si sta facendo del male. Ma anche che è un uomo che ama la musica e ha amato la sua famiglia e che gli piace suonare da solo. Incontrando le persone ad Atene, pensavo a chi siamo noi e quale percorso potremmo fare e chi possiamo diventare. In queste situazioni, inizi a vedere il tessuto della vita che inizia a sgretolarsi e inizi a interrogarti: “Qui ci sono tutte persone buone? Ci sono solo persone cattive?“ No, non funziona così.
Ci si chiede se questa situazione di quarantena sia così diversa dal disfacimento che vivono le persone che migrano. Cosa può dire questo romanzo alle persone che lo leggono in questo periodo? E quale può essere il contributo di scrittori e giornalisti in questi tempi?
La cosa che mi ha colpito è che all’inizio ero terrorizzata quando ho visto i luoghi chiudersi: i negozi, i pub. Al supermercato non c’era carta igienica, ho pensato: “Oh mio Dio, stiamo per entrare in un’apocalisse”. E per un momento ho pensato a quelle persone che vivevano in Siria dove il mondo stava già crollando. Molte persone sui social media si lamentano di tutto questo accanimento verso la carta igienica. È anche un po’ divertente, ma in realtà significa anche che le persone hanno paura, sono terrorizzate, non sanno cosa fare. Spero solo che quando questo sarà finito, le persone capiranno cosa significa la paura di perdere tutto. Anche se sono stata ad Atene e ho parlato con la gente e ho visto quello che i miei genitori avevano passato, c’è stato un momento al supermercato in cui quella paura ha afferrato anche me. E all’improvviso ho sentito ancora più comprensione della paura che altre persone avrebbero attraversato nel momento in cui pensavano che il loro mondo stesse andando in pezzi.
So che forse suona un po‘ come una predica, ma basterebbe riuscire a capire che siamo tutti solo umani.
Ti è stato assegnato l’Aspen Award, che è associato a un tipo di letteratura impegnata. Come promuovere questo tipo di letteratura che non è legato solo all’ego dello scrittore?
Mi sento così onorata di averlo vinto per la natura del premio, perché mette in risalto quella narrativa che fa luce su questioni contemporanee: uno dei premi più importanti che avrei potuto vincere. Ma quando stavo scrivendo non mi rendevo conto di cosa stessi cercando di fare. Stavo solo creando. Ma una volta che l’ho scritto ed è uscito e ha fatto parlare le persone ho pensato: “Beh, è sorprendente che la letteratura possa essere un tale catalizzatore”.
Come ho detto nel discorso per accettare il premio Aspen, la mia convinzione è che il cambiamento può iniziare con un cambiamento di percezione e prospettiva. E penso che sia qui che entra in gioco la letteratura. Hai è l’opportunità di camminare nei panni di altre persone in cui potresti non aver mai camminato e vedere le cose attraverso i loro occhi. Qui che entra in gioco l’empatia. Ilprofessore Paul Slovic, dell’università dell’Oregon, dice: “Le statistiche sono gli esseri umani con le loro lacrime asciugate“. Ora suppongo che ciò che accade con la letteratura sia restituire le lacrime e la complessità delle storie individuali. Non deve nemmeno essere un cambiamento ma un piccolo spostamento. Ma penso che sia qui che la letteratura è importante e dove può essere un catalizzatore per il cambiamento.
Profilo dell'autore
- Responsabile e co-fondatore di Frontiere News. Scrive di minoranze e diritti umani su Middle East Eye, Espresso, Repubblica, Internazionale e altre testate nazionali e internazionali
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