Il futuro dei siriani dopo dieci anni di guerra

A dieci anni dalle prime rivolte, c’è bisogno assoluto di un pensiero più critico riguardo alla Siria e alla politica globale di oggi. Per lo scrittore siriano Yassin al-Haj Saleh, il futuro dei siriani in Siria e nel mondo non può infatti prescindere da un cambiamento di prospettiva verso i fattori sociali e geopolitici che hanno plasmato gli equilibri tra superpotenze.

Intervista di Liam Hough (roarmag.org)*


Hai chiesto un pensiero più critico riguardo alla Siria e alla politica globale di oggi. Se guardiamo ai cambiamenti politici avvenuti altrove negli ultimi anni, insieme al ritorno di un’ampia politica di classe, c’è stata sicuramente un’impennata nei movimenti che si sono mossi per sfidare il suprematismo bianco e i continui retaggi del colonialismo e dell’imperialismo. Per quanto riguarda l’effettivo collegamento delle lotte, vediamo gradualmente rinnovati i legami tra i movimenti di solidarietà neri, indigeni e migranti e il movimento di solidarietà con la Palestina, solo per fare degli esempio. Cosa pensi di questi sviluppi e del potenziale per costruire reti di solidarietà più forti in generale?

Da molti anni ormai, il ritornello sulla Siria è che “le cose sono complicate laggiù”. Ed è effettivamente una questione complicata. Ma questo dovrebbe essere un invito a conoscere meglio, una sfida ai vecchi approcci semplicistici, piuttosto che una causa di disidentificazione e apatia, come è stato per lo più.

La natura complicata della situazione in Siria deriva dal fatto che il Paese è occupato da cinque diverse potenze e dalle ripercussioni delle guerre civili nei paesi vicini come Libano, Iraq e Turchia. Inoltre, gli osservatori esterni fanno l’errore di avvicinarsi alla nostra lotta dal punto di vista della “guerra al terrore”, che viene (erroneamente) diagnosticata come il principale male politico del mondo. Temo che la nostra sia una crisi ancora più complessa, che sarà presente per molti decenni a venire.

Con il mondo in Siria e i siriani sparsi ovunque nel mondo, penso che dobbiamo pensare alla Siria globalmente. Dal sordido accordo chimico tra USA e Russia e poi l’accordo nucleare con l’Iran – da cui entrambe le potenze imperialiste, l’Occidente e l’Iran, hanno guadagnato qualcosa, mentre i siriani erano solo tra le voci della bilancia dei pagamenti – il vero nocciolo della questione non è la Siria, ma il mondo nella sua forma attuale.

Per quanto riguarda la politica globale, sembra che ora la più alta ambizione di molti in Occidente, molti di sinistra inclusi, sia quella di tornare ai bei vecchi tempi dell’accordo nucleare iraniano dopo il ritiro degli Stati Uniti da parte dell’amministrazione Trump. Quando le alternative sono Trump o Biden, questo dimostra quanto sia patetico il mondo in cui viviamo. Il dettame TINA – There is no alternative [“Non c’è alternativa”] della Thatcher si applica nella nostra epoca più che mai. Mentre questo era lo slogan di un neoliberismo emergente in un mondo di conflitti politici e ideologici, oggi è semplicemente onnipresente.

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Il rifiuto nichilista del mondo, che raggiunge il suo apice nella versione islamista del terrore, nasce da un ambiente in cui prevale questo dogma TINA. Non sto suggerendo una spiegazione causale generale, ma il contesto in cui tale nichilismo prende piede non viene mai affrontato. Ed è così comodo oscurare le origini del terrore nella politica dei potenti, facendolo apparire come qualcosa che proviene solo dai deboli – dalla loro ignoranza o religione o fanatismo.

Questo giustifica anche la svolta genocratica che prende la forma della supremazia bianca, o l’Hindutva nell’India di Modi, o la miscela tossica di nazionalismo russo e ortodossia cristiana della Russia di Putin, o la miscela altrettanto tossica di nazionalismo persiano e Islam sciita in Iran, o Israele come uno stato puramente ebraico, o lo stesso islamismo sunnita con la sua miscela di immaginario imperialista e narrativa di vittimismo, ecc.

Credo che stiamo assistendo alla sostituzione dell’idea di demos (cittadinanza) con quella di genos (razza o parentela). Il Medio Oriente è stato in molti modi l’avanguardia o il campo di prova di questa forma di politica securitaria, ma sempre più spesso la vediamo ovunque.

In un mondo spogliato delle sue battaglie ideologiche passate – il mondo post Guerra Fredda in sostanza – il terrorismo è diventato il “male politico” universale, in un modo che oscura totalmente o addirittura premia la violenza di stato fatta in nome della soppressione del terrore. Questo vale anche quando la violenza raggiunge una scala genocida.

Quando lo stato uccide i propri sudditi, è nell’ordine naturale delle cose, questo è ciò che ci si aspetta da lui. Quando i suoi soggetti emulano questa uccisione si chiama “terrore”. Il terrorismo è stato inquadrato come il principale male politico del mondo e siamo spinti a comprendere semplicemente le sue radici lungo qualche linea culturalista di fanatismo o risentimento intrinseco.

Io credo che il principale male politico e il logico punto d’arrivo di quest’epoca sia il genocidio, qualcosa che la priorità della “Guerra al Terrore” nasconde, anzi facilita, soprattutto contro i musulmani. Il mondo appare molto diverso a seconda della nostra diagnosi del principale male politico.

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Per quanto riguarda l’avanzamento della causa palestinese negli Stati Uniti, non sono sicuro di quanto questo rientri nel paradigma della solidarietà (neoliberale) e della politica identitaria, o se esca dai suoi confini. È vitale che questi progressi si aprano a un orizzonte rivoluzionario, con il proletariato politico del Medio Oriente, palestinesi, siriani, egiziani, iracheni e così via, liberandosi dalla prigione popolare che è il Medio Oriente stesso. Qui è più utile pensare al Medio Oriente meno come una geografia che come un sistema, in cui gli USA e Israele, ora anche la Russia, sono il vero potere sovrano.

Noi, il popolo di questa regione, siamo anche un proletariato religioso, qualcosa che ha il potenziale di rivoluzionare il nostro pensiero e la nostra cultura, e si spera di rompere con le politiche identitarie.

Per ora, però, questo potenziale è stato incanalato in una proletarizzazione religiosa. Io sostengo che è la nostra proletarizzazione politica che innesca questo – lasciando l’unico spazio per qualsiasi senso appartenenza, anche nichilista, alla sfera religiosa.

La narrazione culturalista parte da questa apparizione di un unico fanatismo religioso e lo essenzializza – così ci ritroviamo con la storia dello “scontro di civiltà” che sostiene che la politica in un tale scenario è impossibile. Io sostengo che è l’esatto contrario. La negazione dell’impegno politico è ciò che porta, in un modo unico per i tempi moderni, al disperato paradigma islamista nel senso che conosciamo oggi.

Questo è ciò che dobbiamo minare, che è completamente contro gli interessi di coloro che beneficiano dello status quo in Medio Oriente.

“La Siria è nel mondo e il mondo è in Siria”. Questa tua citazione indica la natura globale dell’intera questione intorno alla Siria oggi. Quali sono secondo te i principali compiti dei siriani in patria e all’estero nella loro lotta? In termini di solidarietà, come può la gente impegnarsi sulla questione della Siria in un modo che sia più responsabile in futuro?

C’è un brutto modo di pensare alla Siria: continuare a parlare solo di Bashar e del suo regime, dell’opposizione formale corrotta e inetta, e limitare la nostra analisi alle dinamiche interne. Un modo migliore di pensare alla Siria è quello di inserirla nel mondo, che è già presente nel Paese, e trovare il modo di inserire le nostre analisi e la nostra lotta con quelle dei nostri partner nel mondo. La Siria non è un pianeta a sé, è un microcosmo, e il mondo TINA è una macro-Siria.

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Sia che pensiamo allo spostamento di circa il 30% della popolazione che vive fuori dalla Siria come una perdita per il paese o come una vittoria nella fuga da un regime genocida, l’opportunità di libertà – per imparare, disimparare e cambiare – esiste ancora. Non ignoro le sfide dell’essere un rifugiato sradicato, ma per alcuni di noi almeno c’è un’opportunità di “esilio”, una nozione simile a quella che ho chiamato enjailment: trasformare il carcere in una casa, in un luogo di emancipazione, vivere in carcere come se fosse il tuo posto preferito nel mondo. Con questo enjailment intendo beneficiare dell’essere “fuori” dal controllo del regime. Questo è già qualcosa per il futuro.

Quando si guarda la realtà siriana, essa ti infonde una profonda disperazione, ma quando si insiste sulla priorità della speranza, si pensa, si immagina e si agisce diversamente. Non posso ignorare una realtà schiacciante, ma preferisco partire dalla speranza: fare le cose in modo da mantenere viva la speranza.


*Questa intervista è una traduzione della versione inglese pubblicata dal magazine ROAR, suddivisa in tre sezioni per facilitarne la lettura:

  1. La vita sotto il regime del clan Assad
  2. La rivoluzione tradita e la cecità delle sinistre occidentali
  3. Il futuro dei siriani dopo dieci anni di guerra

[Traduzione a cura di Valerio Evangelista]


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