Su gentile concessione degli autori, pubblichiamo alcuni estratti dal primo capitolo di Alla fine del mondo, la vera storia dei Benetton in Patagonia di Pericle Camuffo e Monica Zornetta (Strade bianche di Stampa alternativa, 2020). Il libro è un’inchiesta su come si è sviluppato l’impero dei Benetton in Argentina, così tanto vasto da averli trasformati nei più potenti proprietari terrieri del Paese. Ma non solo, lo studio di Camuffo e Zornetta si concentra anche su coloro che ne hanno favorito la fortuna: corporazioni rurali locali, forze di governo, lobby imprenditoriali. Il libro è scaricabile gratuitamente dal sito della casa editrice.
Il più giovane dei quattro fratelli Benetton, Carlo, scomparso il 10 luglio 2018, aveva frequentato la Patagonia argentina fin dagli anni Settanta, e immediatamente, potremmo dire, ne aveva subito il fascino. Nel libro in cui rammentava i suoi primi entusiastici contatti con questa parte del mondo, aveva definito la Patagonia una terra «di forti contrasti, con cime innevate, pianure deserte, ghiacciai, laghi argentati, tramonti di fuoco», aveva annotato che «la nostra abituale percezione dello spazio e delle proporzioni appare come spiazzata», poiché «le distanze si moltiplicano a dismisura e si viaggia in un mare desertico di bassi rovi sotto un cielo fluido dove la notte si possono contare le stelle».
Era stato un incontro, quello con le immense distese custodite alla “fine del mondo”, che gli aveva aperto l’anima, donandogli «una ritrovata verità esistenziale»: l’aveva definito un «luogo magico», che evidentemente mancava alla sua “geografia personale”, una «terra di miti, di grandi sognatori», ma anche di grandi investitori, attratti dalle sue risorse e dalle sue possibilità di sviluppo. La Patagonia è, in estrema sintesi, una terra da non abbandonare mai. Ed è pressoché in svendita. La sua storia parte da molto lontano ma per i Benetton, come per gli altri miliardari stranieri che nei secoli ne sono divenuti i padroni, comincia con il menemismo e il suo free market gospel, il suo “vangelo” del libero mercato.
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L’attività imprenditoriale a cui il più giovane dei quattro fratelli Benetton diceva di dedicarsi «con molta passione» – e le cifre evidentemente gli danno ragione visto che, nel 2017, la CTSA ha registrato ricavi per 20 milioni di euro -, è cominciata con le buone intenzioni che da sempre sono la caratteristica, anche mediatica, della dinastia di Treviso.
L’obiettivo dell’acquisizione, è scritto nero su bianco in una nota informativa del Gruppo, era quello di “trasformare una società storica, con più di cento anni di tradizione, in una moderna azienda agricola dedicata in particolare all’allevamento delle pecore, attività sinergica con il core business Benetton, che rappresenta uno dei maggiori consumatori di lana al mondo”, conciliando innovazione, sviluppo, produttività e redditività con “il rispetto per i luoghi ed i suoi abitanti”. Probabilmente in questo senso vanno intesi gli investimenti di milioni di dollari “in varie iniziative produttive all’interno di uno sviluppo sostenibile su larga scala”, le attenzioni riservate “alla pianificazione dell’impatto ambientale” e “al controllo della gestione di consumi ed emissioni” delle loro concerie, l’impegno della Compañia “in una costante attività di forestazione” e, sul piano sociale, i “programmi di aiuto, in collaborazione con ospedali, scuole, centri per anziani e comuni”.
Una nota senza dubbio ottimistica, zeppa di propositi filantropici, ma nella realtà compilata rispettando diligentemente le strategie di marketing e di immagine del Gruppo: tattiche molto precise che prevedono, da un lato, la comunicazione di fatti autentici e dal sicuro e positivo impatto pubblicitario/propagandistico, dall’altro l’occultamento di ulteriori fatti autentici ma in netta contraddizione con i precedenti e che, per questo, metterebbero in crisi la facciata benevolente, etica e responsabile dell’azienda. In altri termini – e ciò, sia chiaro, non vale solo per i Benetton – mostrano la mano pulita e nascondono quella sporca. Gli occhi chiari e brillanti del dinamico Carlo danzavano tra pianure sconfinate e i picchi di roccia che inchiodano da secoli il cielo azzurro, si accendevano nei “tramonti di fuoco” e si socchiudevano per difendersi dal vento di ghiaccio e sale che sbatte senza sosta la terra: nonostante ciò, non trovavano lo spazio per far entrare le sagome di chi, da sempre, su quelle terre cammina e vive e muore.
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Sono presenze cangianti che sfiorano dall’esterno il suo mondo ma senza farne parte; sono come alberi e laghi e rocce: sono parte di quel paesaggio, elementi da osservare semplicemente con l’angolo dell’occhio, aspettando che il tempo li spazzi via del tutto o che, magari, li incastoni tra uno strato del suolo e l’altro, fossili viventi rigidi e senza anima. E spariscono davvero, i Mapuche, in Argentina. Sono 145 i desaparecidos da quando è tornata la democrazia. Uno di questi, un giovane bracciante di 28 anni, Eduardo Cañulef, è scomparso all’improvviso nel 1996 dopo aver richiesto al proprio datore di lavoro, guarda caso la CTSA, migliori condizioni salariali. Purtroppo sua madre è morta senza nemmeno aver potuto vedere il suo cadavere. Fin da subito le organizzazioni native hanno ipotizzato il coinvolgimento dei Benetton, ma per questa desapariciòn nessuno del colosso italiano è mai stato chiamato a rispondere. Nelle terre patagoniche made in Benetton da tempo scorre il sangue. Sono teatro di conflitti ambientali e sociali che non risparmiano i più poveri. I laghi, le montagne e le vallate, i fiumi, le strade e i sentieri che la gente Mapuche ha sempre utilizzato per spostarsi da una comunità all’altra, sono luoghi preziosi perché forniscono acqua, piante medicinali, pascoli per gli animali e campi da coltivare e, inoltre, perché rappresentano un legame sempre vivo con la tradizione ancestrale, con un passato comunitario e spirituale che viene sempre e di nuovo riattivato e ripraticato.
Alla gran parte di questo patrimonio naturale, però, le comunità ancestrali non possono più avere accesso: tutto è stato recintato con filo spinato, puntellato da cartelli che impongono il limite invalicabile di una proprietà privata, bloccato con cancelli e lucchetti e sorvegliato da telecamere in funzione ventiquattro ore su ventiquattro insieme con pattuglie di solerti vigilantes privati. È al principio del 1997 che qualcosa comincia a trapelare. Nelle terre dei Benetton, non tutto va come dovrebbe. Dalle pagine del quotidiano bonaerense “Clarìn” i lettori argentini apprendono la notizia dell’apertura di un’indagine federale sulla deviazione del grande rio Chubut, il corso d’acqua che dalla Cordigliera scorre fino all’Atlantico attraversando le proprietà dei ricchi italiani. È il primo atto d’accusa ufficiale nei loro confronti. In base a quanto raccontato nell’articolo, sarebbero loro i responsabili della modificazione del corso del fiume, in particolare nel tratto che lambisce la tenuta agricola El Maitén, attuata per aumentare l’approvvigionamento idrico e migliorare il terreno di pascolo per gli animali.
I portavoce del gruppo, interrogati dagli inquirenti, ammettono di aver effettivamente eseguito dei lavori di intervento nel corso dell’estate 1996, ma garantiscono di non aver modificato il letto naturale del fiume: il canale in oggetto, a loro dire, non sarebbe artificiale bensì una naturale ramificazione dello stesso fiume, esistente ormai da settanta anni e mai fino a quel momento utilizzato. Gli investigatori ascoltano, annotano, si consultano. Ma ad un certo punto le loro parole e la realtà divergono: si accerta infatti che l’intervento attuato dalla CTSA non sarebbe stato preceduto da alcun tipo di studio circa un eventuale impatto ambientale. Nessuna autorità provinciale, in pratica, ha concesso loro alcuna autorizzazione.
L’ecologista Alejandro Beletzky, ispettore delle Risorse naturali della provincia di Rìo Negro e coordinatore generale del corpo di Guadiaboschi delle aree protette di San Carlos de Bariloche, ritiene che tale deviazione potrebbe peraltro essere sanzionata dall’articolo 182 del Codice Penale argentino sull’appropriazione illecita di acque. È stato lo stesso Beletzky, dopo aver ascoltato le persone che vivono nella zona, a denunciare per primo i crimini ambientali commessi dai Benetton.
Nonostante l’ingegnere Carlos Vivoli, amministratore generale della estancia di El Maitén e grande esperto di ovini, si veda costretto ad ammettere di non essere mai stato in possesso dell’autorizzazione – aggiungendo, però, di essere certo che l’impatto della nuova canalizzazione sull’ambiente è a dir poco minimo poiché non va a ridurre la portata del fiume -, il giudice federale di Bariloche, Leònida Moldes, una volta vagliate tutte le informazioni ed esaminate le fotografie aeree che la Gendarmeria nazionale gli ha fornito, apre un’istruttoria per quantificare gli eventuali danni alle persone e al medio ambiente. Nel 2005, di fronte ai numerosi casi di intossicazione denunciati dagli abitanti delle zone circostanti l’estancia di El Maitèn, la Ong patagonica Amutui Quimey sollecita le autorità delle province di Rìo Negro e Chubut a svolgere gli opportuni accertamenti sull’acqua del fiume, una risorsa preziosissima per la gente, che la usa quotidianamente per fare praticamente tutto. Ma gli enti nicchiano, tentennano. Davanti alle loro “sordità”, l’Ong decide perciò di avviare autonomamente una serie di indagini, le quali dimostrano che la compagnia dei Benetton ha sversato nel tratto di fiume che scorre dentro la sua proprietà acque contaminate che poi sono rifluite nel corso principale.
Oltre ad essere usati come canali di scarico di liquidi derivanti da operazioni svolte nella estancia, i fiumi vengono in genere anche recintati dai privati per impedire che i locali li utilizzino. Laura, da quarant’anni impiegata della Compañía, ricorda che nella immensa tenuta di Leleque la strada che conduce al fiume Chubut attraversando il latifondo Benetton per una sessantina di chilometri è stata chiusa dalla CTSA, nonostante sia ad uso della comunità: per transitarvi si deve chiedere il permesso. Anche la pesca è stata arbitrariamente regolamentata così che oggi non è possibile pescare più del consentito: «In fondo alla strada vivono delle famiglie, ma non possono uscire da lì […] ora devono fare novanta chilometri in più». La zona nei pressi di Leleque negata ai pescatori è un altro motivo di scontro tra i ricchi capitani d’azienda italiani e le umili comunità originarie, come ha spiegato Enrique Cleri, presidente della Càmara de Prestadores de Servicios Turisticos del Chubut: «Non è giusto che i fiumi che si trovano dentro i suoi campi siano vietati agli abitanti. Ci obbligano ad accedere alla natura in maniera furtiva. Ci stanno rubando la nostra identità di abitanti della Cordigliera. […]. Hanno recintato buona parte del fiume e non si può entrare se non con un avvocato».
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La comunità Mapuche di Vuelta del Rìo, anch’essa nella provincia del Chubut, è composta da una trentina di famiglie ed è circondata dalle terre dei Benetton. Non è da molto che ha lamentato come la Compañia abbia interdetto l’accesso al Lepà, un torrente che rappresenta l’unica fonte di approvvigionamento d’acqua quando, d’estate, il resto dei fiumi della zona rimane asciutto. Si tratta di azioni illegali, poiché contravvengono chiaramente al Codice Civile, che obbliga invece i proprietari terrieri a lasciare aperta al pubblico una via di almeno trentacinque metri lungo un fiume, o un canale. Un altro particolare, per nulla secondario, è quello riferito dall’Organizzazione Mapuche-Tehuelche 11 de Octubre e dall’agenzia di stampa Ecupres-Prensa Ecumenica, circa il lavoro, o, per meglio dire, circa lo sfruttamento lavorativo dei Mapuche da parte della CTSA. I Mapuche – affermano quelli di 11 de Octubre e di Ecupres che hanno raccolto le segnalazioni – verrebbero sfruttati dalla Compañia come manodopera a bassissimo costo: le testimonianze riferiscono di circa 200 pesos per ogni mese di duro lavoro nella estancia, ma per i rappresentanti argentini del Gruppo veneto tutto è nella norma. Nella loro risposta tentano di togliersi di dosso anche il più minuto e seccante granello di responsabilità, tirando in ballo la legge, gli statuti e i contratti di categoria Per Mauro Millàn, portavoce della 11 de Octubre, la loro responsabilità riguarderebbe l’ammontare di ore che a quel salario vengono legalmente associate: il numero di ore effettivamente lavorate dai dipendenti, infatti, sarebbe ben maggiore di quello stabilito dai contratti, visto che, e lo hanno confermato i testimoni che lui stesso ha sentito, i turni iniziano alle quattro del mattino e terminano al tramonto.
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Nel 2004 Paolo Landi, al tempo direttore pubblicitario di Benetton Group, interviene nell’infuocato dibattito spiegando per iscritto che “La Compañia de Tierras dà lavoro in forma diretta a circa 250 persone. Parte della manodopera è discendente o relazionata ai cittadini di Colonia Cushamen e questi impiegati godono degli stessi benefici di carattere salariale e sociale di cui godono gli altri impiegati dell’azienda senza nessun tipo di discriminazione. […]. È falsa l’informazione secondo la quale il ruscello Lepa sarebbe stato interrotto ed impoverito per favorire il beneficio della tenuta della Compañia de Tierras. Quest’ultimo è alimentato dalla portata delle acque dei ruscelli Mallocco, Madera, Rodeo, La Cancha ed altri ruscelli minori, i quali durante l’estate sono praticamente secchi a causa dello scarso disgelo in annate di poca neve, elemento che origina un calo naturale del letto del ruscello Lepa. Tutto ciò è comprovato da un’indagine della polizia locale che in seguito ad un sopralluogo svolto in quella zona non ha riscontrato nessuna anomalia”.
Le garanzie che la Compañia dà in merito al rispetto delle norme statali e provinciali appaiono però strumentali: le leggi (e i poteri che le creano) sembrano essere qualcosa da chiamare in causa e a cui fare riferimento solo quando vi è la necessità di deresponsabilizzarsi, di non ledere i propri interessi, come nel caso appena ricordato; sono invece qualcosa da cui allontanarsi quando richiamano ad una chiara responsabilità, come nel pagamento delle imposte sulla proprietà.
Emblematica, in questo senso, la vicenda che nel 1997 ha coinvolto il piccolo comune di El Maitén, nel dipartimento di Cushamen, con i suoi circa 4mila abitanti e con una estensione di 60 mila ettari di cui poco meno di 48 mila in mano al Gruppo di Treviso.
Con un’ordinanza approvata nel gennaio di quell’anno l’amministrazione comunale ha deciso di aumentare l’imposta a chi possiede più di 2.550 ettari di terra. I Benetton, secondo quanto riportato dal “Clarin”, non hanno però ritenuto appropriato tale aumento omettendo quindi di pagare la differenza dovuta, circa 10 mila pesos, e proponendo di versarla sotto forma di donazione. La municipalità ha rifiutato la loro proposta, considerandola un’infrazione alla tassazione sul patrimonio fondiario, ma i Benetton – ha continuato ancora il “Clarin” – non hanno voluto sentire ragioni. L’amministratore di El Maitén, Miguel Guajardo, a quel punto ha deciso di rimettere la controversia nella mani del Tribunale di Esquel e, così, a metà gennaio del 1998 l’impresa veneta ha riconosciuto per la prima volta il debito e, contestualmente, ha promesso di saldarlo. La causa si è risolta nel febbraio dello stesso anno quando, a seguito della sentenza, gli imprenditori italiani si sono trovati costretti a pagare 100 mila pesos al comune di El Maitén come arretrati e, per di più, a titolo risarcitorio.
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