Terapia collettiva in una Istanbul frammentata e polarizzata, la serie Ethos (Netflix) ha tenuto incollati allo schermo milioni di spettatori turchi. Cosa ci racconta della Turchia contemporanea?
Articolo di Luca La Gamma e Joshua Evangelista con contributi di Valeria Ferraro e Emre Özet
Chi ci segue lo sa: qui a Frontiere abbiamo un debole per le vicende turche, da sempre. Per questo non potevamo non interessarci alla serie Ethos (il titolo originale in turco è Bir Başkadır), disponibile su Netflix da novembre 2020. Scritta e diretta da Berkun Oya, Ethos è un dramma collettivo diviso in otto capitoli, della durata di poco meno di un’ora ciascuno.
Non è la prima opera di finzione turca che parla di religione, scontro di classe e pregiudizi. Sono temi ampiamente affrontati da Pamuk, Shafak e tanti altri. Eppure, per qualche ragione, lo sguardo di Oya nei solchi tra devoti e secolarizzati di Turchia ha avuto un impatto oltre ogni aspettativa. Al di là di polemiche inevitabili e relativamente periferiche nello sviluppo della storia (in una delle puntate il velo viene utilizzato come oggetto sessuale, in un’altra alcuni personaggi parlano in curdo), la produzione della serie ha fatto davvero discutere.
Su Gazete Duvar, un portale web indipendente, Tuba Torun ha scritto che la serie ha avuto successo perché reale. “Aspettavamo che qualcuno ci dicesse coraggiosamente cosa stia succedendo dentro di noi, cosa stia succedendo nelle nostre menti, con questo dolore e le verità amare con tutte le loro inquietudini. […] Volevamo davvero parlare di noi”. Per Emre Özet, attivista e coordinatore di progetti giovanili tra Italia e Turchia, la qualità cinematografica di Ethos è innegabile, eppure “vediamo i caratteri dei personaggi attraverso delle etichette”.
Questo articolo, che cercherà nei limiti del possibile di non fare spoiler, è la sintesi delle nostre impressioni a caldo, “mediate” dal confronto con amici turchi e colleghi che si occupano di queste tematiche da diversi anni. Più che una recensione, quanto leggerete è il tentativo di interpretare i segnali lanciati dalla serie sull’evolversi delle contrapposizioni identitarie nella Turchia contemporanea, azzardando qualche supposizione sul perché questo tipo di racconto abbia così tanto successo.
Partiamo da un presupposto: la serie ci è piaciuta. Il racconto è corale, la trama avvincente. Il fil rouge che lega le vicende è la solitudine, che emerge in ciascuno dei personaggi. Una solitudine che pervade e mette in discussione tutte le dicotomie fisse, quasi stereotipate, con cui sono stati tratteggiati i protagonisti: ricchi/poveri, centro/periferie, città/villaggio, fanatismo/secolarizzazione, pudicizia/libertinismo, fedeltà/tradimento, white/black turks.
Una trama reale nella sua improbabilità
Il fulcro è rappresentato dalle vicende di Meryem (Öykü Karayel), giovane donna proveniente da una famiglia conservatrice che da un villaggio si è trasferita in quella sterminata periferia di Istanbul dove ai bordi degli stradoni razzolano le galline e le persone non possono fare altro che aspettare gli autobus che le porta in centro.
Educata al rispetto dell’autorità dell’hoca (letteralmente “maestro”), che distribuisce consigli sulla base dei precetti islamici, Meryem inizia a frequentare segretamente le sedute della psichiatra Peri (Defne Kayalar), elegante, di estrazione alto-borghese e con una formazione statunitense alle spalle. Il rapporto tra le due donne è contrassegnato da una fascinazione ambigua che sovente diventa aperta opposizione: Peri manifesta un sentimento di superiorità nei confronti della giovane donna velata, che considera schiava della religione e arrogante nel suo bigottismo. A sua volta, quando è Peri ad andare in analisi dalla collega Gülbin, dimostra che il suo mondo costruito sui pregiudizi e su un laicismo artificiale scricchiola.
Attorno a questo doppio rapporto terapeutico gravitano gli altri personaggi: Sinan, dj playboy nella cui casa Meryem lavora come domestica, che intrattiene un rapporto superficiale con Gülbin; Melisa, attrice di una celebre soap opera e compagna di yoga di Peri, nonché amante di Sinan; il soldato in congedo Yasin, fratello di Meryem e padre di famiglia e padrone, sua moglie Ruhiye, affetta da gravi disturbi psichici. E infine l’hoca e sua figlia, studentessa universitaria che ama la musica elettronica e che vive segretamente una doppia vita.
Le vicende dei singoli personaggi si intersecano attraverso coincidenze talvolta improbabili, nello stile tipico degli sceneggiati turchi, eppure con un respiro e, come dicevamo prima, con una veridicità che fa mettere da parte i dubbi sulla trama.
https://www.youtube.com/watch?v=3xB3_v09vuw
Tra famiglia e solitudine
Ruhiye, cognata di Meryem, è una donna depressa, assente e con istinti suicidi. Il fratello Yasin in casa non collabora, si occupa di portare soldi e cibo in tavola. Come Meryem si affida completamente alla guida spirituale dell’hoca. Yasin è contrario alla terapia intrapresa dalla sorella, al punto che le vieta di continuare a frequentare l’ambulatorio.
È interessante, a nostro avviso, proprio la figura dell’hoca, che guida i giovani nella loro crescita, ma si perde totalmente a seguito di un dramma vissuto. Un vero e proprio alter ego della psichiatra Peri, che si affida alla scienza eppure va in Perù in cerca di sciamani. Accomunati da una solitudine assordante.
La stessa solitudine di Sinan, ricco, con una casa da far invidia, ma che forgiato da un rapporto difficile con la madre non riesce ad amare veramente una donna, finendo per non amare sé stesso. Così come è Gülbin, che nei ripetuti contrasti con la sorella conservatrice si scopre essere una donna molto diversa dal mondo familiare in cui è cresciuta. Ed è sola la figlia dell’hoca, che trova conforto nella musica occidentale chiusa in camera, nonostante le preoccupazioni espresse dal padre riguardanti “certa musica” che possa rovinare la sua bambina. È solo lo spettatore, sicuramente, che in un telefilm così articolato e complesso, si domanda senza ricevere una risposta chiara: “la Turchia, oggi, è davvero così?”
Le anime di Istanbul
Prima di provare a rispondere a questa domanda complicata, ragioniamo su Istanbul, dove è girata la quasi totalità della serie. “Bir Başkadır è, narrativamente e visualmente, ‘un’altra cosa’, mostrando come persone con sentimenti e valori socio-culturali differenti convivono, quotidianamente, in una metropoli che conta circa 18 milioni di abitanti”, spiega Valeria Ferraro, fotografa freelance e specialista in studi sulla Turchia contemporanea.
Si prendano i luoghi del set della serie. Da un lato abbiamo il villaggio di Öğümce Köyü nel distretto di Beykoz, nella parte asiatica della città. Qui Meryem, Yasin, Ruhiye e i bambini vivono in un casolare ai margini di una piccola comunità conservatrice. Per la cartina geografica è Istanbul, nella realtà poche case sulle colline sopra al Bosforo. Si tratta di residui rurali ricoperti, alloggi spesso illegali, senza infrastrutture e con una classe operaia invisibile proprio dietro al lusso da cartolina del lungomare.
L’altro luogo della serie è il quartiere Şişli, parte europea: 35 chilometri quadri di grattacieli, centri commerciali e… la prima Trump Tower d’Europa. Qui vive il ricco Sinan in uno splendido appartamento all’interno di un complesso residenziale di lusso.
Non è un caso che per recarvisi a fare le pulizia Meryem prenda un autobus che non esiste. Il comune di Istanbul ha dovuto addirittura fare un tweet per spiegare ai fan della serie che la fantomatica linea 24 presa da Meryem sia frutto dell’immaginazione degli autori. “Nel viaggio quotidiano di Meryem sul metrobus si ritrovano anche le tappe di un percorso personale”, spiega Ferraro. Un percorso “che porta da quella che sembra un’iniziale incomunicabilità al dialogo, che permette di affrontare insieme pregiudizi sociali, violenze, omosessualità, solitudine, sfiorando anche temi delicati come l’identità curda”.
Lo specchio della polarizzazione
Il titolo originale della serie, Bir Başkadır (che potremmo tradurre in maniera impropria “un’altra cosa” o “qualcosa di diverso”), è ispirato da un album di Ferdi Özbeğen, che compare al termine di diverse puntate con estratti dei suoi concerti. Un rimando nostalgico caro ai black turks, kara türkler, come viene definita in termini sprezzanti la parte della popolazione originaria dell’Anatolia rurale generalmente conservatrice, islamica e meno istruita. Quella parte di Turchia rappresentata da Meryem e che terrorizza la psichiatra Peri, che in uno sfogo dice che “loro controllano tutto in questo paese”. Del resto lo stesso Recep Tayyip Erdoğan si è definito più volte come un “turco nero”. Ma la polarizzazione turca rappresentata dalla serie è davvero relegabile alla dicotomia bianco/nero, musulmano/laico? Secondo Emre Özet no. “La serie rispecchia la società attraverso la polarizzazione politica e culturale. Affronta problemi sociali come il conflitto tra turchi e curdi, ricchi e poveri, le violenze sessuali sui minori e quindi il conflitto tra religiosi e secolarizzati. Lo fa con un atteggiamento equidistante verso tutti”. La stessa solitudine, quindi, in un contesto di ipocrisia, mancanza di comunicazione e alienazione colpisce tutti gli attori chiamati in causa. Ed è questa analisi senza pretesa di giudizio l’arma vincente per il successo della serie. Tutti in qualche modo si sentono coinvolti.
Secondo uno studio pubblicato nell’aprile 2016 dal German Marshall Fund, l’83% degli intervistati turchi non vuole che la propria figlia sposi un sostenitore di un partito politico da cui si sente “più distante”. Il 74% non vuole neanche che i propri figli giochino con i figli di chi sostiene quel partito “distante”. Lo studio chiedeva poi di attribuire una serie di aggettivi sia ai sostenitori del partito di appartenenza che ai sostenitori del partito “distante”. La stragrande maggioranza degli intervistati ha associato attributi positivi – come “patriota”, “onorevole”, “di mentalità aperta”, “generoso” e “intelligente” – ai sostenitori del partito a cui si sentono vicini, utilizzando invece connotati negativi – come “arrogante”, “ipocrita”, “bigotto” e “crudele” – con i sostenitori del partito a cui si sentono più distanti. In questo solco è stato scritto il soggetto della serie.
Il risultato è un’analisi che i produttori culturali vicini al governo non avrebbero mai potuto fare. Ma nemmeno i kemalisti legati alle élite progressiste. “Dopo le proteste di Gezi Park nel 2013”, spiega Özet, “è emersa maggiormente una polarizzazione di natura ideologica. Una delle conseguenze del crescente autoritarismo del potere politico è stato il passaggio di media e canali televisivi a persone conosciute per la propria vicinanza al governo. Attraverso il ‘RTÜK’ (l’agenzia governativa che regola e sanziona le emittenti televisive) la televisione è diventata uno strumento per diffondere l’ideologia del potere politico”.
L’arrivo di piattaforme come Netflix potrebbe cambiare le carte in tavola e spiazzare Ankara. “Negli ultimi anni nuove serie indipendenti sono emerse tramite le produzioni di queste piattaforme. Ethos, o Bir Baskadir, è diventata una delle serie più discusse degli ultimi anni ed è molto preziosa a questo proposito: può dare vita a una nuova tendenza e i produttori televisivi non schierati possono finalmente osare e realizzare opere più audaci”.
Un’audacia che non può prescindere dalla realtà. Scrive Ali Riza Taskale su Gazete Duvar che il pubblico che guarda la serie è nervoso perché questa racconta cose che già si sanno. “Il pubblico rabbrividisce perché non si può rilassare nell’abbraccio delle brutte città che conosce così bene, nelle molestie, negli stupri e nella violenza che gli sono così famigliari. Questo specchio ci sputa in faccia. Ci dice che non è possibile creare un nuovo popolo senza affrontare gli aspetti tossici di questa società”.
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