Nel 2016 Anas Al Mustafa è stato uno degli ultimi a lasciare Aleppo sotto assedio. A Konya, in Turchia, ha fondato una organizzazione umanitaria, ma a maggio 2020 – mentre era in attesa della cittadinanza – è stato espulso dalla polizia e abbandonato nella polveriera di Idlib, tra terroristi islamici e forze assadiane. Dopo essere tornato a Konya pagando dei trafficanti, vive sospeso in un limbo, con la paura costante che la polizia torni da lui.
Intervista e foto di Giulia Bernacchi
Maggio 2020. Per i paesi musulmani si apre il mese di ramadan. Ma a causa della pandemia, invece di invitare alla preghiera, in Turchia i minareti delle moschee amplificano il messaggio di rimanere a casa, di non incontrare gente, di non riunirsi per la cena che interrompe il digiuno quando cala il sole.
Il ramadan non è solo un momento di riflessione religiosa, ma di socialità, di gioia e comunione con il prossimo, qualcosa di veramente difficile nell’isolamento, soprattutto per i più deboli. Per Anas Al Mustafa, un rifugiato siriano quarantenne proveniente da Aleppo e residente a Konya, il ramadan 2020 è l’inizio di un incubo senza fine. Di una incredibile sospensione dei diritti umani e di una attesa di giustizia che tarda ad arrivare. Ripercorrere la sua storia vuol dire fare luce sui tanti casi di siriani costretti a ritornare in Siria, nonostante la guerra ancora in corso, attraverso il dibattuto “rimpatrio volontario”. Ma partiamo dall’inizio.
Dall’assedio di Aleppo a una nuova vita in Turchia
Nel 2016, mentre il conflitto siriano da civile era diventato sempre più internazionale, coinvolgendo Russia, Iran e Stati Uniti, era chiaro che non ci sarebbe stato ritorno dall’assedio di Aleppo. Anas non voleva abbandonare la sua città. Solo dopo che le Nazioni Unite hanno fatto da intermediario per spronare gli ultimi a lasciare la città, Anas ha passato due mesi vicino al confine con la Turchia, senza tuttavia mai oltrepassarlo. “Forse le cose si sarebbero sistemate, forse era questione di aspettare ancora un po’ che gli scontri si calmassero”, ci racconta. Alla fine anche lui è stato costretto a scappare, e della sua casa in Siria non è rimasta traccia. Trasferitosi nella città turca di Konya, luogo storico di sufi e profeti, ha cominciato a lavorare nel settore umanitario per aiutare le famiglie siriane più svantaggiate.
Nel frattempo la Turchia si è aggiunta alle potenze straniere che hanno condotto iniziative militari in Siria. Dapprima l’operazione “Scudo dell’Eufrate” a nord di Aleppo nel 2016, a seguire nel 2018, l’operazione “Ramoscello d’ulivo” ad Afrin, e ancora, nel 2019 l’operazione “Primavera di pace”, alla quale è conseguito un accordo tra Russia e Turchia che garantisce alle forze turche il pieno controllo di oltre 20 miglia all’interno del territorio siriano. L’obiettivo della Turchia è quello di allontanare le forze curde siriane dai propri confini e nel frattempo creare una cosiddetta safe zone per il rimpatrio dei profughi, un cuscinetto di terra, teoricamente demilitarizzata, dove la propalazione siriana possa fare finalmente ritorno in modo sicuro. La safe zone è ad oggi un territorio capillarmente controllato dalle forze turche, dalle scuole, agli ospedali, ai supermercati, alla valuta: nelle regioni settentrionali tra Idlib ed Aleppo viene usata la lira turca. Ancora più controversa è la questione riguardante il rimpatrio dei profughi. Sebbene siano in molti i siriani residenti in Turchia a voler tornare finalmente in Siria, il paese non è ancora un posto sicuro per loro. Oltre alle numerose milizie terroristiche che ancora si trovano in Siria, il potere è tornato, almeno formalmente, in mano ad Assad, che ha tutti gli interessi nel perseguire brutalmente i cittadini che non hanno preso la sua parte all’interno del conflitto. Ciononostante, la Turchia ha dichiarato il rimpatrio di 315 mila persone che si sarebbero mosse su base volontaria. Tra quelle centinaia di migliaia c’è anche Anas. In verità, le organizzazioni internazionali per i diritti umani denunciano da anni questa pratica come illegale, raccogliendo la testimonianza di molti siriani che dichiarano di essere stati forzati dalle autorità turche a firmare un documento per il loro rimpatrio assieme a deportazioni, detenzioni arbitrarie ed abusi.
Tra le storie che stanno dietro ai fatti geopolitici c’è proprio quella di Anas, che ha avuto il coraggio di raccontare ciò che gli è successo per dare voce a chi ha vissuto tragedie simili alla sua. Come molti altri, Anas ha chiesto giustizia, ma è ancora in attesa.
Il rimpatrio “volontario”
Nel maggio 2020, durante il ramadan e in piena pandemia, Anas era impegnato attraverso il suo progetto A Friend Indeed ad aiutare 175 famiglie, a cui era solito fare la spesa e a contribuire con i costi di affitto e bollette.
Da qualche anno Anas non lavora più con le grandi organizzazioni umanitarie. Dopo il fallito colpo di Stato nel 2016, l’aggravarsi della crisi economica e il crescente numero di rifugiati, la Turchia ha puntato ad accentrare il potere, ha limitato drasticamente la presenza delle ONG che possono operare nel territorio turco, ha diminuito la concessione della cittadinanza e dei permessi di lavoro per gli stranieri. È così che Anas, come tanti, non ha mai ottenuto la cittadinanza e ha perso il lavoro.
Molti siriani richiedono la cittadinanza turca per godere di più diritti e libertà, soprattutto per spostarsi e per poter lavorare con un contratto legale. Tuttavia è un procedimento molto lento, che dura anni, e sono pochi i casi in cui la si riesce ad ottenere. Quando la polizia si è presentata a casa di Anas lui ha spalancato la porta proprio per questo, sperava di avere finalmente buone notizie sulla sua pratica per diventare cittadino turco. Ma si sbagliava.
“Mi hanno fatto delle domande sulla mia richiesta di cittadinanza. Ero felice e li ho seguiti alla stazione di polizia, ma quando sono arrivato mi hanno detto di lasciare a loro i miei effetti e mi hanno portato in prigione”, ci racconta Anas. Lì incontra altri tre siriani, come lui portati dentro per ricevere qualche informazione sulla richiesta di cittadinanza. Il giorno dopo ad Anas viene detto di firmare un documento con il quale verrà rimpatriato in Siria. Lui si rifiuta, chiede di riavere il suo telefono, di contattare un avvocato, senza risposta. Sei giorni dopo Anas viene di nuovo prelevato dalla cella, gli agenti gli presentano il solito documento. “Se non avessi firmato mi avrebbero lasciato sei mesi o un anno nei campi o in galera a Gaziantep. Li ho pregati, non trattatemi come un musulmano, non trattatemi come un rifugiato, trattatemi come un essere umano”.
Il 22 maggio alle 5 del mattino Anas e gli altri tre siriani vengono portati a Darkush con una macchina civile senza targa, in quello che molto probabilmente è un centro di detenzione gestito dalle milizie che occupano la provincia di Idlib. “Alla frontiera ho chiesto una copia dei fogli che mi hanno fatto firmare, mi hanno detto di no. Ci hanno gettato come la polvere in un posto sporco, veramente sporco”. Idlib è un luogo molto pericoloso per Anas, dove varie milizie terroristiche potrebbero rapirlo per chiedere il riscatto. Inoltre, visti i numerosi contatti internazionali che è solito avere con il suo progetto umanitario, rischia anche di essere catturato dal regime di Assad, scambiato per una spia e fatto sparire in qualche prigione governativa. Dopo cinque mesi Anas riesce a fuggire pagando dei trafficanti. Cammina trenta ore senza cibo né acqua attraverso le montagne per tornare in Turchia.
La nuova vita in Turchia
La pratica del rimpatrio volontario è resa estremamente controversa e poco controllabile proprio perché gestita discrezionalmente dalle forze di polizia e non dagli organi governativi locali o nazionali. Sebbene le ostilità nei confronti degli immigrati possano sembrare, almeno in Europa, fortemente enfatizzate dal presidente Erdoğan, è bene notare che dal punto di vista della politica interna tutti i partiti sono coinvolti nel respingimento dei profughi, anche l’attuale amministrazione di Istanbul, nelle mani dell’opposizione. Nel 2019, il sindaco Ekrem Imamoğlu ha spinto centinaia di siriani, che vivevano nella capitale ormai da anni, a tornare nelle prime province turche in cui si sono registrati al loro arrivo dalla Siria.
Dal ritorno a Konya non passa molto prima che la polizia bussi di nuovo alla sua porta. Stavolta Anas non apre e si nasconde, è costretto a farlo. Lo ospitano amici e parenti, ma non tutti possono rischiare la loro già precaria situazione per dare riparo a qualcuno che la polizia sta cercando per rispedirlo in Siria.
Anas ha fatto appello a molti avvocati, anche italiani, per seguire il suo caso. Amnesty International e la Corte europea per i diritti dell’uomo (CEDU) sono state coinvolte senza successo e il fatto che Anas abbia un documento legale come rifugiato siriano, un documento identificativo registrato all’UNHCR, una patente di guida e un conto in banca, sembra cambiare ben poco.
Il risultato è un vortice d’ansia che mangia la logica, ma anche ostinazione. “Non sarei tornato qui se sapessi di aver fatto qualcosa di male. Prima stavo bene in Turchia, avevo la mia vita, molti amici turchi e siriani. Voglio sapere qual è il mio crimine!”.
Vista la scarsità di protezione legale, la cosa migliore in questo caso sarebbe lasciare il paese, il punto è che Anas non può andare proprio da nessuna parte, non in modo legale, non in modo sicuro. Normalmente i rifugiati siriani in Turchia in possesso del Kimlik – un documento che identifica coloro che beneficiano di protezione temporanea – hanno il diritto di spostarsi soltanto all’interno della città in cui si registrano per la residenza. Anche se da Konya tentasse il tutto per tutto nel raggiunge Istanbul o Smirne e darsi così alla via della Grecia, troverebbe sicuramente dei posti di blocco. Nell’improbabile caso in cui riuscisse a farla franca sarebbe ancora più dura sopravvivere attraversando i Balcani.
Per il momento, senza protezione legale, con i poliziotti alle calcagna e un documento di presunto “rimpatrio volontario”, il famoso pezzo di carta che lo vedrebbe ancora in Siria, Anas non può mettere piede nemmeno in casa sua.
Il confine tra Siria e Turchia, in numeri
Dieci anni di conflitto in Siria hanno provocato oltre 500 mila vittime, 6 milioni di sfollati interni e 5,6 milioni di rifugiati oltre confine. Un po’ per prossimità geografica e culturale, un po’ per la concreta impossibilità di raggiungere posti più sicuri come l’Europa, la maggior parte dei profughi che hanno lasciato la Siria ha trovato rifugio in Turchia. Di conseguenza, la Turchia è diventato il paese che ospita il più alto numero di rifugiati al mondo, oltre 4 milioni registrati, di cui 3.6 milioni di nazionalità siriana. Il paese si è impegnato nell’implementazione di nuove leggi e regolamenti sulla migrazione, ha istituito un nuovo sistema di asilo – la “protezione temporanea” – un documento identificativo conosciuto come Kimlik, ha costruito campi lungo il suo confine meridionale, successivamente dismessi, e ha aperto ai siriani l’accesso a scuole e ospedali. Nel frattempo, la Turchia si è ritrovata ad affrontare una grave recessione economica con un’inflazione che ha raggiunto il 12%, mentre si stima che abbia speso, dal 2011 ad ora, circa 40 miliardi di dollari (36 miliardi di euro) per la gestione del flusso di profughi.
Dal canto suo, l’Unione Europea si è mossa quasi esclusivamente per evitare che i siriani raggiungessero i suoi confini. Nel marzo 2016 l’UE ha contribuito alle spese dei turchi per la gestione della crisi migratoria con 6 miliardi di euro, in cambio, la Turchia ha inasprito i controlli per evitare che i profughi lasciassero le sue coste per l’Europa.
Dietro ai dati delle migrazioni si trova il groviglio di storie personali di conflitto e integrazione tra popolazione ospitante e ospitata, speranze, successi, ghettizzazione e violazioni dei diritti umani.
Il corso di queste storie è trascinano da qualcosa che di personale ha ben poco, gli eventi geopolitici, tuttavia sono proprio questi eventi a determinare gli spostamenti delle persone, anche contro la loro volontà.
Profilo dell'autore
- Tra storie e geopolitica, scrivo e ricerco soprattutto su Turchia, Siria e Iran, accompagnando i miei racconti con foto e video. Dopo una laurea in scienze politiche e una breve esperienza in redazione, mi sono trasferita in Turchia per lavorare nella cooperazione internazionale.