L’India è un ambiente potenzialmente ad alto rischio, in caso di epidemia. Ma la situazione attuale non era inevitabile. La sanità in mano ai privati orienta gli investimenti dove c’è maggiore profitto, e l’idea che gli indiani fossero immuni per natura ha fatto breccia nella psiche del Paese, tradizionalmente patriottico. Un mix devastante.
Articolo di Vageesh Jain (NIHR Academic Clinical Fellow in Public Health Medicine, UCL)*
L’India è alle prese con un disastro umanitario. Fino a marzo 2021, il numero di casi era basso nella maggior parte del Paese e questo aveva portato molti a pensare che il peggio fosse passato. Un po’ come accaduto in Brasile, però, un mix di sciovinismo, presunzione e false rassicurazioni da parte dell’élite politica ha annullato i progressi faticosamente raggiunti.
I raduni di massa hanno funto da eventi di contagio incoraggiati dallo stato. Anche la presenza di più varianti infettive e una lenta somministrazione di vaccini hanno contribuito ad alimentare l’attuale ondata. Questi sono i fattori scatenanti, ma ci sono questioni più profonde al cuore della crisi attuale.
L’India è intrinsecamente ad alto rischio in caso di epidemia. Nel Paese vivono 1,4 miliardi di persone, spesso residenti in aree sovraffollate (con conseguente difficoltà ad attuare un isolamento efficace), coperte da inadeguati servizi di smaltimento rifiuti e scarsa assistenza sanitaria.
La maggior parte delle persone non può permettersi il lusso di isolarsi a casa per periodi prolungati. Più del 90% dei lavoratori è autonomo e privo di tutele previdenziali o assistenziali. Per mettere un pasto in tavola, la stragrande maggioranza della popolazione fa affidamento sui guadagni giornalieri. Questo presupposto spinse in molti a pensare che l’ondata iniziale di Covid, nel 2020, avrebbe avuto un impatto devastante.
Il fatto che le cose siano andate in maniera diversa indusse alcuni a credere che la popolazione indiana fosse meno vulnerabile al Covid per natura. Nel tentativo di spiegare un numero così basso di casi è stata persino rispolverata una vecchia teoria, la cosiddetta “ipotesi dell’igiene“. La scarsa igiene “addestrerebbe” le difese immunitarie – questa l’idea di fondo – e perciò l’esposizione al coronavirus avrebbe trovato dei corpi sufficientemente forti e preparati per affrontare l’infezione.
Questa teoria si basa però, in gran parte, su studi demografici che non tengono conto dei vari fattori che influiscono sulla gravità della malattia a livello individuale. Basta una ricerca un po’ più approfondita per capire che questa correlazione non implica causalità, soprattutto con la minaccia di nuove varianti all’orizzonte. Eppure l’idea che gli indiani fossero immuni per natura ha fatto breccia nella psiche del Paese, tradizionalmente patriottico.
Questa compiacenza ha offerto al coronavirus l’opportunità di diffondersi. A differenza della prima ondata, però, la proporzione tra positivi e morti è stata maggiore perché questa volta il sistema sanitario è stato travolto. In zone particolarmente a rischio, come Delhi, c’è una grave carenza di scorte di ossigeno, ventilatori, operatori sanitari e letti. Ma già il fatto che in così tanti abbiano necessitato di cure mediche è un sintomo di carenze strutturali di lunga data nel sistema sanitario indiano.
L’età rappresenta il principale fattore del rischio di sviluppare una forma grave della malattia o di giungere alla morte da Covid. L’India ha una popolazione molto giovane, solo il 6% ha un’età superiore ai 65 anni; ci si aspetterebbe – persino con un virus leggermente più letale – che la maggior parte dei malati guarisca senza bisogno di cure ospedaliere. Ma il fatto che ci sia una popolazione di mezza età piuttosto malsana ha ridimensionato questo vantaggio.
L’inquinamento atmosferico è strettamente associato alle malattie polmonari e cardiache. Nel 2019, una percentuale enorme di tutte le morti in India (il 17,8%) era legata all’inquinamento, e Delhi – al momento piena di malati di Covid a cui manca l’ossigeno – è la capitale più inquinata del mondo.
Anche l’obesità è una preoccupazione crescente in India, con tassi elevati proprio nelle aree urbane dove i focolai di Covid sono stati più concentrati. Il 30% delle persone di età compresa tra i 50 e i 69 anni ha il diabete, un numero molto più alto rispetto agli altri paesi asiatici. E una donna in età riproduttiva su cinque ha una pressione alta non diagnosticata.
Tutti questi sono dei significativi fattori del rischio di morte per Covid. Avere una popolazione non sana porta anche a un eccesso di morti perché i servizi sanitari non legati al Covid vengono sospesi durante tali emergenze.
Nonostante queste esigenze sanitarie, la spesa sanitaria totale in India rappresenta solo il 3,9% del PIL, ben al di sotto del 5% minimo raccomandato per raggiungere la copertura sanitaria universale. L’India ha un bisogno incredibile di risorse per far sì che il sistema sanitario sia robusto, resiliente e ben equipaggiato.
Il denaro attualmente investito finisce in un sistema costoso incentrato sugli ospedali e gestito prevalentemente dal settore privato. La maggior parte delle persone non ha un’assicurazione e paga le cure di tasca propria. Questo può portare a costi inutili e a ritardi nella ricerca di cure o nell’esecuzione di test, fondamentali per controllare le epidemie nelle fasi iniziali.
Nessun incentivo a prevenire le malattie
Gli istituti privati che operano in questo modo dipendono dal fatto che le persone si ammalano, perché questo genera entrate. Non c’è alcun incentivo a prevenire le malattie. Un sistema basato ampiamente sul mercato e orientato al profitto, che al centro ha il trattamento delle malattie, ha impedito che si investisse sulle funzioni essenziali della salute pubblica. E questo fallimento del mercato è in parte responsabile dei malanni dell’India, e di molte morti evitabili durante questa epidemia.
Nonostante una recente espansione dei centri di assistenza primaria e un grande progetto di assicurazione sanitaria per i poveri, le infrastrutture rimangono scarsamente allineate ai bisogni. Di conseguenza, all’inizio della pandemia le attività di controllo dell’infezione (come la sorveglianza, i test, l’analisi dei contatti, la comunicazione e la ricerca) furono molto limitate. Tendono a essere trascurate anche le azioni miranti a prevenire e controllare le malattie croniche, nonostante queste ultime abbiano un peso crescente e una insorgenza precoce nella popolazione indiana.
L’India è un ambiente potenzialmente ad alto rischio, in caso di epidemia, ma la situazione attuale non era inevitabile. Man mano che le persone verranno infettate, il bacino di persone suscettibili si ridurrà, il virus si attenuerà e il Paese si tirerà su. Quello sarà il momento in cui poter riflettere su quali debbano essere gli obiettivi fondamentali del sistema sanitario. Per le future epidemie, rafforzare la capacità degli ospedali sarà un passo necessario ma non sufficiente. I decessi vanno evitati non solo curando la malattia, ma facendo il possibile per prevenirla.
*Questo articolo è stato pubblicato in inglese su The Conversation.
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