L’estate greca del 2021 verrà ricordata come quella dei grandi incendi. Da Atene a Evia, passando per il Peloponneso, i fuochi hanno distrutto centinaia di migliaia di acri. Intanto aumenta la povertà, il governo di Mitsotakis diventa sempre più autoritario e contribuisce alla privatizzazione del Paese. Eppure, in una situazione di estrema vulnerabilità e stanchezza, emergono piccole realtà locali che provano a riscrivere il presente.
Questo articolo è il secondo episodio di uno speciale sulla Grecia. Leggi la prima parte
Se lo scorso agosto vi è capitato di atterrare a Kalamata, all’uscita dell’aeroporto probabilmente avrete avvertito un forte e penetrante odore di ulivi bruciati. Nell’estate in cui tutti gli abitanti del Mediterraneo hanno toccato con mano gli effetti dei cambiamenti climatici, anche il primo ministro Kyriakos Mitsotakis, non certo un ambientalista, ha ammesso pubblicamente che i disastri sono interconnessi con il riscaldamento globale.
E se le immagini di Atene e di Evia hanno fatto il giro del mondo, vedere dal vivo gli ulivi del Peloponneso diventare cenere lascia senza fiato. I numeri parlano di quasi 300mila acri di foreste bruciati, più di ogni altra estate da 12 anni.
Ora c’è apprensione per la raccolta del prossimo novembre delle iconiche olive di Kalamata, tanto amate nel Regno Unito così come da noi in Italia (che non siamo certo avari di oli e ulivi). La regina nera, come chiamano l’oliva della regione, ha un ruolo fondamentale nella vita economica del Paese.
Eppure, da ben prima degli incendi di questa estate, il settore olivicolo vive una crisi strutturale. Secondo politico.eu, la stragrande maggioranza dell’olio greco viene venduto sfuso in Italia a prezzi stracciati, per poi subire un ricarico notevole nel prezzo e venduto in tutta Europa come made in Italy. Addirittura, nel 2015 la Banca nazionale greca ha segnalato che solo il 27% della produzione nazionale verrebbe etichettato in Grecia ed esportato come prodotto greco.
Gli incendi e la privatizzazione della ricostruzione
Tra clientelismo politico e scelte strategiche discutibili, il mercato delle olive rappresenta un simbolo della Grecia di oggi, in cui gli incendi sono l’immagine spettacolare di un sistema che non funziona e che, stando agli analisti, la cura del governo conservatore di Kyriakos Mitsotakis, sta contribuendo a peggiorare.
Mentre la gente fuggiva dai centri abitati dell’Attica e di Evia in preda alle fiamme, Mitsotakis chiedeva (e chiede) alla gente di rimanere ottimista. Ma l’opinione pubblica fatica ad assecondarlo: gli incendi boschivi bruciano in Grecia ogni estate; perché l’amministrazione è stata così impreparata ad affrontarli?
Secondo l’ex ministro dell’Economia Yanis Varoufakis, si tratta di vecchie abitudini che non vengono mai abbandonate, perché sconvenienti. I vari governi, “in fondo, sapevano: avevamo, collettivamente, violato la natura, e ora la natura stava esigendo la sua lunga e prolungata vendetta. Convinti, tuttavia, che le loro possibilità di rielezione sarebbero state condannate se avessero osato dire agli elettori che forse avrebbero dovuto rinunciare al sogno di quella capanna nella foresta, abbandonare il piano di suburbanizzazione delle pinete, i governi hanno scelto la strada facile: hanno incolpato i venti caldi, degli incendiari diabolici, la sfortuna, persino lo strano sabotatore turco”.
Ad Atene riecheggia l’incubo di Mati, una località turistica vicino al porto di Rafina in cui nel 2018 un incendio uccise 103 persone: per due ore una tempesta di fuoco rase al suolo veicoli, case e alberi a circa 200 chilometri orari. La strage fece emergere un sistema corrotto che aveva permesso la costruzione di centinaia di edifici abusivi e che aveva trascurato totalmente il piano di evacuazione. Tre anni dopo, la situazione non è cambiata molto e in diversi villaggi di Evia gli incendi sono stati placati solo grazie a volontari locali.
Nel suo saggio “Microdrammi ateniesi” (all’interno di The Passenger – Grecia, Iperborea, 2019), lo scrittore Kostas Kotsourelis spiega che nel bel mezzo della crisi greca, tra il 2011 e il 2015, i passeggeri dei mezzi pubblici ateniesi non compravano i biglietti perché alla fermata del tram c’era sempre qualcuno che donava il proprio appena usato. Un gesto quotidiano che spiegherebbe questa strana solidarietà dal basso che porta ad aiutarsi davanti alle catastrofi esterne (i fuochi, l’Europa, la crisi economica) e a solidarizzare contro il potere esterno, giusto o sbagliato che sia. E in effetti chi scrive, in una torrida mattina estiva, nei pressi del mercato ateniese di Omonoia ha ricevuto in omaggio da uno sconosciuto un biglietto usato per utilizzare la metropolitana.
E se ieri per l’opinione pubblica i nemici contro cui fare sistema erano l’Europa e lo stato, oggi sono i fuochi e i nuovi padroni della Grecia. Rimanendo nel campo degli incendi, la riforestazione viene oggi subappaltata a multinazionali private da parte del governo, bisognoso di soldi veloci. Gli ambientalisti affermano che i nuovi alberi piantati sono geneticamente modificati e la loro crescita iper veloce metterebbe a repentaglio la flora e la fauna tradizionale.
“A differenza del terribile impatto della bancarotta dello stato sul nostro popolo, che un giorno speriamo di invertire, questo assalto alle nostre foreste native sarà irreversibile”, ha scritto Varoufakis in un editoriale sul Guardian.
Tra investimenti e case abbandonate
La privatizzazione riguarda quasi tutti gli aspetti della vita pubblica greca e gli effetti sono tangibili sulla vita quotidiana delle persone. Si pensi al settore immobiliare. Nel 2018 sono stati rilasciati 3.620 visti d’oro a stranieri che investono nel settore immobiliare. Nel 2013 erano 21.
Il leit motiv tra gli investitori immobiliari internazionali, almeno prima della pandemia, era che il 2019 sarebbe stato l’anno della Grecia. Come leggiamo su un vecchio articolo pubblicato sul sito di Engel & Völkers, un’azienda leader a livello mondiale per la consulenza immobiliare, “la Grecia è destinata a diventare una delle opportunità di investimento immobiliare più interessanti del 2019, soprattutto nella capitale, Atene. Questo grazie a una confluenza di fattori, tra cui la ripresa economica, l’aumento del turismo e gli investimenti esteri. Con così tante tendenze positive che convergono, potresti non trovare mai un momento migliore per acquistare proprietà di lusso in Grecia”.
Nel frattempo c’è stato il Covid-19, ma gli investimenti non si sono fermati. Ad Atene ci sono 300.000 appartamenti abbandonati. Stupendi palazzi neoclassici e dormitori costruiti negli anni ’50 sono in totale stato di incuria mentre cresce il numero di senzatetto e disoccupati provenienti da tutto il Paese, che nella capitale trovano alloggio in palazzi sempre più periferici.
Ma l’emblema di questa fase dell’economia greca è sicuramente il porto del Pireo, che ogni anno accoglie circa otto milioni di passeggeri. Fortificato da Temistocle nel 493 avanti Cristo, dieci anni fa il Pireo era sull’orlo del collasso. Le navi attraccavano altrove, gli operai portuali si trasferivano all’estero e nessuno, tranne i cinesi, vedevano di buon occhio investire nelle infrastrutture greche.
Da quando il porto è controllato dalla China COSCO Shipping Corporation Limited le operazioni portuali si sono stabilizzate, il mercato si è espanso, il servizio è migliorato e i costi sono stati ridotti. Nel 2010 il suo volume di smercio lo piazzava al 93esimo posto, oggi è al 26esimo. Racconta il Global Times, l’organo in inglese del Partito comunista cinese, che “oggi, il vivace porto porta alla gente del posto un senso di contentezza e felicità, di cui sono grati alla Cina”.
Eppure, come ben spiegato da Claudio Paudice sull’Huffington Post, “il progetto appare chiaramente sbilanciato a favore della parte cinese. Anche perché, oltre a quelli di preminente appannaggio di Cosco, c’è una serie di benefici ottenuti da altre imprese di Stato del dragone nel Pireo”. E sebbene l’impatto economico sull’economia greca appare limitato e ci sono diverse questioni legate alla gestione ambientale del porto e alla tutela delle piccole imprese locali, “il potere delle grandi compagnie di navigazione di dirottare dove vogliono le proprie navi cariche di merce, aumentando o negando i traffici a loro piacimento, conferisce loro uno strumento di pressione notevole sulle autorità portuali”.
In questa calda estate greca, dove abbiamo incontrato gli afghani di Atene che ci hanno raccontato il clima di repressione che si respira (leggi la prima puntata), ci siamo confrontati con chi ha subito gli incendi e passeggiato nel Pireo cinese. Una parola ha accompagnato i discorsi di tutti coloro che abbiamo incontrato: povertà.
Nell’ultimo decennio, la povertà in Grecia è diventata dilagante. I redditi sono crollati di oltre il 30% e più di un quinto dei greci non è in grado di pagare l’affitto, l’elettricità e i prestiti bancari. Inoltre, un terzo delle famiglie ha almeno un componente che non ha un lavoro. La somma di tutto questo è che tre greci su dieci vivono in povertà.
Se il volto peggiore e più visibile di questa crisi sono gli abbandonati tossicodipendenti di piazza Oimonia, che vivono per strada e che più di una volta sono incappati nelle manganellate dei sostenitori di Alba dorata, c’è una povertà meno evidente che è cresciuta dopo il lockdown.
Secondo un sondaggio di MDPI condotto nelle città greche subito dopo il primo periodo di blocco del maggio 2020, il 73,3% degli intervistati ha affermato che le restrizioni hanno avuto un impatto finanziario significativo. In particolare, il 9% degli intervistati ha perso il posto di lavoro e il 18,6% ha subito la sospensione del proprio stipendio. Nel 2020 il tasso di disoccupazione si è attestato al 16,85%, il più alto d’Europa.
In cerca di senso e speranza, da una crisi all’altra
Ma la nostra estate greca è stata caratterizzata anche da storie di speranza e opportunità. Che, ci perdonerete la retorica, spesso nascono proprio da situazioni di crisi.
Ad esempio, quella della contabile statunitense di origine greca Joanne Dimis-Dimitrakakis. In seguito alla grande recessione nel 2007, a quarant’anni, Joanne aveva perso il suo lavoro alla ABN-Amro; depressa e senza possibilità di rientrare nel mondo del lavoro, decise di tornare in Grecia.
In Europa non aveva altro che una vecchia casa di famiglia diroccata ad Arxontiko, un villaggio abbandonato nei pressi del monte Taygeti, costruito originariamente dal suo bisnonno Kyriakos Dimitrakakis. Un luogo depresso dal quale la sua famiglia era fuggita quando lei era bambina perché non si riusciva più a sopravvivere con la vendita delle pecore.
A Chicago, Joanne era diventata “americana” e aveva persino dimenticato quasi del tutto il greco. Dopo aver perso il lavoro, mise da parte i pochi risparmi e ristrutturò la vecchia casa di famiglia dai cui balconi si vede il bellissimo castello bizantino di Mistras e la vallata di Sparta.
Insieme ad altri expat ha iniziato a ricostruire la storia delle genti di questa strana montagna, che da un momento all’altro sono letteralmente scomparse. Documento dopo documento, ha iniziato a scrivere un libro sulla comunità di Taygeti, che fino al 1955 si chiamava Barsinikos, un antico nome turco proibito dall’allora governo preso dal processo di “de-ottomanizzazione”.
Oggi la casa della sua famiglia è una straordinaria guest house nascosta dal turismo di massa. Insieme ad altri abitanti dell’area Joanne cerca di coinvolgere la comunità greca in America (“molto più unita a Chicago o New York che in Grecia”) per riabitare i villaggi abbandonati intorno a Mistras e proporre un’idea di turismo responsabile che rispetti il territorio e le comunità.
Dal suo terrazzo si vedono solo distese d’alberi e antiche rovine bizantine. A mezzo’ora dalla sua casa c’è un monastero disabitato con affreschi del Seicento. Gli incendi non sono lontani, ma da qui non si vedono.
Profilo dell'autore
- Responsabile e co-fondatore di Frontiere News. Scrive di minoranze e diritti umani su Middle East Eye, Espresso, Repubblica, Internazionale e altre testate nazionali e internazionali
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