— EPISODIO 6
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Il processo di gentrificazione della capitale portoghese dimostra che c’è un nesso tra disegno urbano, problema abitativo e razzismo strutturale nell’area metropolitana di Lisbona. Quello che succede nella capitale lusitana evidenzia una pericolosa continuità con l’eredità coloniale, aggravata dall’emergere di un discorso pubblico e mediatico volto a costruire la popolazione afrodiscendente e rom come un pericolo. Il risultato è il tracciamento di precise linee di divisione ed esclusione all’interno della città. Articolo di Daniele Coltrinari e Luca Onesti, fotografie di Luca Onesti.
«Noi possiamo essere della città o stare nella città, e le due cose sono importanti perché una persona si senta cittadina in uno spazio geografico, qualunque esso sia. Ma la maggior parte delle volte quello che succede, specialmente con i migranti, è che non sono della città ma soltanto stanno nella città».
Mamadou Ba, dirigente e attivista di SOS Racismo, associazione nata a Lisbona all’inizio degli anni Novanta, ritiene che per comprendere meglio il razzismo in Portogallo ci sia bisogno di riferirsi alle politiche pubbliche in aree diverse come quella dell’abitazione, dell’educazione, della sanità e della giustizia sociale. Ad esempio, l’offerta del servizio sanitario nazionale nelle diverse zone dell’area metropolitana di Lisbona si differenzia per qualità e accessibilità.
Nelle zone maggiormente abitate da afrodiscendenti o comunque da migranti o da persone di origine migrante — come i comuni di Amadora, di Loures e, a sud del Tejo, di Seixal e Almada — le strutture sanitarie ricevono meno investimento pubblico e le competenze e le capacità sono minori. Lo stesso si può dire per quanto riguarda l’accesso all’educazione e a un lavoro dignitoso. Il problema, in realtà, alimenta se stesso in maniera circolare, perché «se non ho casa, non posso studiare, e se non posso studiare non ho accesso al lavoro, e così non posso avere un buon salario e non posso avere una buona casa e una buona vita».
Ma la questione dell’abitazione e quella dell’occupazione dello spazio, secondo Mamadou Ba, sono cruciali anche perché possono essere intesi anche come «uno strumento per definire chi lo stato vuole che faccia parte o meno della comunità politica».
«Guardando a come la città è organizzata, alla struttura del disegno urbano, all’accesso delle persone non bianche allo spazio pubblico, si può comprendere se uno stato è o non è strutturalmente razzista. L’area metropolitana di Lisbona è lo specchio del paese in questo aspetto, perché la politica urbana, a partire da quella di riparazione e di risposta alle mancanze o alle lacune dello stato, è un disegno che esclude delle persone o le colloca in ghetti, che possono essere costituiti da baracche di lamiera e legno, come accadeva alcuni decenni fa, o da baracche di cemento, come succede adesso, ma che sono pur sempre ghetti perché sono luoghi dove non c’è mobilità, non c’è fluidità urbana e continuità geografica. Il disegno del trasporto pubblico, per esempio, mostra chiaramente una logica di periferizzazione dei corpi non bianchi nello spazio pubblico, o in quello che si potrebbe chiamare il centro della città, in senso lato».
Il Portogallo democratico del dopo 25 aprile 1974, secondo Ba, non ha del tutto rotto con la logica coloniale del regime di Salazar: «C’è una continuità storica sia nel disegno delle funzioni sovrane dello stato, sia nella gestione amministrativa. Questa continuità si vede nel fatto che alcune persone vengono concepite come differenti o distinte nella configurazione delle politiche pubbliche, nell’accesso, nell’usufrutto ma anche nel disegno, nell’elaborazione delle leggi, nell’immaginario del legislatore».
“Un ghetto esteso”
Nel 1993 viene promulgato quello che è stato considerato il più grande programma di intervento pubblico nel Portogallo democratico, il PER (acronimo che sta, in italiano, per “programma speciale di rialloggio”). Questo programma, volto a promuovere nelle due grandi aree metropolitane di Lisbona e Porto il diritto all’abitazione per famiglie che prima abitavano spazi maggioritariamente autocostruiti, ha però anche contribuito alla strutturazione delle aree urbane in Portogallo come spazi di gerarchizzazione, di esclusione e di segregazione.
Ana Rita Alves, antropologa e dottoranda al Centro di Studi Sociali dell’Università di Coimbra, autrice del recente libro Quando ninguém podia ficar: racismo, habitação e território, ci aiuta a contestualizzare questo programma di politica pubblica nella storia portoghese recente: «Il PER è stato promulgato un anno prima di Lisbona capitale europea della cultura e cinque anni prima dell’Expo ‘98. È quindi sicuramente un tentativo molto robusto dello stato portoghese di promuovere l’accesso all’abitazione da parte di cittadini che non lo avevano fino a quel momento, ma è anche un tentativo di “pulizia” dell’immagine di una città che si reinventava come una nuova capitale europea, in un momento in cui il Portogallo era da poco entrato nella Comunità Europea, nel 1986».
La ricercatrice e attivista parte dalle criticità che questo programma portava con sé già dalla promulgazione e poi ne racconta la lenta attuazione, che si estende fino al 2017, anno in cui è stato revocato per far spazio ad un nuovo programma, che ha preso il nome di “Primeiro Direito”. «Il PER si è esteso nel tempo e si è arrivati all’esecuzione dopo anni, in alcuni casi decenni, con dati risalenti al 1993. Persone che allora erano state censite nell’aggregato familiare dei genitori e magari avevano cinque anni, vent’anni dopo avevano una famiglia e una loro abitazione e non venivano contabilizzate. Le case assegnate sono risultate quindi nella maggior parte dei casi troppo piccole, e hanno costretto a convivere aggregati familiari che avrebbero voluto uno spazio proprio. Le persone hanno dovuto adattarsi alle pareti e non le pareti alle persone. E quanto più si allungava il PER, meno capacità di risposta avevano i municipi. La tragedia familiare e sociale, poi, è accaduta anche perché, a parte questo problema del censimento, il reclutamento della manodopera è continuato dopo il 1993 e le persone non hanno smesso di arrivare. E queste persone non erano né successivamente sono state incluse nel programma».
Sinho Baessa de Pina, attivista portoghese e vice presidente dell’Associazione Cavaleiros de São Brás, è cresciuto tra i quartieri autocostruiti Fontainhas e Seis de Maio, e ha vissuto il processo di rialloggio nel quartiere Casal da Boba, nel comune di Amadora. «È stato come morire e nascere di nuovo. I quartieri auto-costruiti vengono considerati dei ghetti dalla società, ma vivere nel “bairro social”, in questi palazzi di rialloggio, è vivere in un ghetto esteso, dove si è persa ogni tipo di solidarietà e dove non ha più spazio il concetto di “djunta mô” (in creolo capoverdiano, “darsi le mani”), che era vivo tra le persone di diverse nazionalità che prima vivevano nella comunità. Il cambiamento è stato radicale, dopo gli abbattimenti non c’è stato nessun accompagnamento di tipo psicologico.
Ognuno è stato lasciato a sé stesso. Avrebbero dovuto occuparsi della burocrazia, avrebbero dovuto procurare mobili nuovi, perché nessuno aveva potuto portare con sé quasi niente. Costruendo la propria casa, con mattoni, sabbia e cemento, le persone avevano fatto un investimento: una volta rialloggiate hanno perso tutto e hanno dovuto ricominciare a pagare un affitto. A poco a poco si è visto il problema in cui eravamo stati messi: gli affitti sono saliti del 300% e oggi vengono chieste cifre esorbitanti a persone con un salario medio o basso, a pensionati e persone con lavoro precario. Questo per me è sfruttamento che si aggiunge ad altro sfruttamento. Il razzismo sistemico e istituzionale ha fatto sì che le porte del mondo del lavoro per i giovani rimanessero chiuse e che molti dovessero emigrare verso l’Inghilterra, la Francia, la Svizzera o il Lussemburgo, per trovare un lavoro e aiutare le famiglie rimaste qui».
L’attuazione del PER ha significato però anche, per quanto riguarda le persone non inserite nel censimento del 1993, la demolizione delle case di molte famiglie che non avevano nessun’altra alternativa abitativa.
Nel frattempo, negli ultimi anni, il processo di “turistificazione” e “gentrificazione” del centro di Lisbona ha subito una fortissima accelerazione. La pressione esercitata dall’aumento del costo degli affitti sugli abitanti di classe bassa e medio bassa nel centro e non solo, così come l’estendersi del fenomeno degli affitti a breve termine per turisti, insieme ad altri fattori, hanno coinciso con il fatto che alcuni quartieri che prima erano considerati periferici siano passati a diventare appetibili per l’investimento immobiliare. Le demolizioni avvenute per esempio nel quartiere di Santa Filomena ad Amadora, hanno ricevuto un impulso decisivo non dalla volontà politica di dare abitazioni dignitose alle persone, ma dalla valorizzazione dei terreni, e dagli appetiti speculativi che questi terreni suscitavano. A riprova di questo basta ripercorrere la cronologia delle vicende: se nel 2003 il Presidente del Comune di Amadora aveva preso in considerazione l’ipotesi di riabilitare il quartiere, già nel 2007 questa ipotesi era stata scartata per lasciare spazio a un accordo con il fondo di investimento immobiliare Villafundo. Con il risultato che i terreni su cui sorgeva il quartiere auto-costruito di Santa Filomena sono oggi in vendita e vengono pubblicizzati dall’agenzia immobiliare Cushman & Wakefield come la più importante area di “promozione residenziale per la classe media della Grande Lisbona”.
Demolizioni, violenza della polizia e immaginario coloniale
Ma come si è arrivati a portare avanti sfratti e demolizioni, spesso con grande dispiegamento di forze di polizia, che bloccavano l’accesso ai quartieri di mattina presto e non si facevano scrupoli a utilizzare la violenza negli sgomberi delle case da demolire, nel sostanziale silenzio e disinteresse dell’opinione pubblica portoghese?
La risposta, secondo Ana Rita Alves, va cercata nel tipo di discorso pubblico che, dagli anni Novanta in poi, si è andato costruendo in Portogallo sulle cosiddette “periferie”. «Si è iniziato a utilizzare sistematicamente un trinomio rappresentato dalla relazione tra territorio, razza e crimine e a descrivere questi quartieri come territori di criminalità immanente. Questa criminalità, si diceva con insistenza, era perpetrata soprattutto da giovani portoghesi neri, definiti di “seconda generazione” e caratterizzati come portatori di disordine. Il quartiere informale, quindi, anche se era una continuità e una conseguenza della costruzione della città, passava ad essere considerato come un’antitesi ad essa. È quasi come se ci fosse una linea abissale tra il centro e i quartieri auto-costruiti, una specie di frontiera, visibile attraverso i tipi di costruzione, la pianificazione, ecc., ma che era visibile soprattutto per i corpi che abitavano questi luoghi. E molti di questi non avevano la pelle bianca ma nera».
«Soprattutto attraverso i media, si è iniziato dunque a costruire un discorso che descriveva questi quartieri come pericolosi, e che caratterizzava i giovani come inadeguati culturalmente e portatori di una rivolta nei confronti della parte maggioritaria della società. E la pericolosità latente in quei corpi e in quegli spazi giustificava un intervento violento da parte della polizia, che era visto come legittimo e necessario. Da questo si è originata una serie di morti di giovani, come è successo con l’assassinio di Elson Sanches nel 2009 e con diversi altri casi negli anni successivi. Casi a cui non sono seguite condanne effettive, facendo sì che la brutalità della polizia venisse in qualche modo legittimata dall’azione giudiziaria».
«Se vogliamo fare una riflessione seria su questo argomento – continua Alves – dobbiamo capire come opera l’immaginario razziale e coloniale. C’è come una tavolozza di idee coloniali che viene azionata nella misura in cui è necessario legittimare un discorso razzista da parte delle istituzioni. Con il Covid, i quartieri sono stati visti come corpi inquinati e il discorso pubblico mediatico di massa è stato che quei territori costituivano un pericolo di sanità pubblica per la restante popolazione. Questo ci rimanda alla relazione storica tra segregazione abitativa e sanità pubblica, ai progetti di segregazione del XX secolo, al fatto che le popolazioni dette “indigene” dallo stato coloniale erano descritte come pericolo per la sanità dei coloni bianchi in paesi come il Sudafrica o il Mozambico. L’idea che è necessario proteggere la bianchezza dal pericolo, è stata dunque rimessa in campo anche nel processo della democrazia portoghese, in pieno secolo XXI, con soltanto qualche cambiamento semantico. La continuità delle razionalità coloniali è stata esplicita».
Noi siamo chiusi nella strada
Il territorio è stato quindi fondamentale per reificare la relazione tra razzismo e disumanizzazione delle persone. Mamadou Ba spiega così questo legame: «C’è un film che è stato realizzato quando c’è stata la demolizione dei quartieri, Outros Bairros, di Kiluanje Liberdade. Una delle persone intervistate dice una frase che penso riassuma tutto: “noi siamo chiusi nella strada”. Come si fa ad essere chiusi nella strada? È una metafora incredibile dal punto di vista del sentimento delle persone, di come non possono usufruire di uno spazio in cui non c’è fluidità, in cui non possono andare e venire liberamente. I quartieri sono disegnati con una una sola entrata e una sola uscita, in modo tale da poter essere controllati… Quando c’è una demolizione di case qui, in qualsiasi luogo dell’area metropolitana di Lisbona, il primo interlocutore è la polizia, non le autorità municipali, e non viene lasciato passare nessuno.
L’idea che ci sono spazi e corpi che sono potenzialmente pericolosi, e per il fatto che sono pericolosi richiedono un intervento eccezionale degli strumenti di violenza dello stato, definisce il carattere strutturale del razzismo che permea la politica urbana».
Le demolizioni, d’altra parte, portate avanti con l’uso della forza, hanno visto una forte opposizione da parte degli abitanti, che si sono organizzati in assemblee di quartiere e hanno dato vita a iniziative di solidarietà con altri quartieri, facendo sì che si aprisse un dibattito pubblico su quello che stava succedendo. Questa presa di coscienza però, che ha trovato una sponda nella lotta di altre componenti della società portoghese contro la gentrificazione e la turistificazione, non sempre è stata accompagnata da un approfondimento della componente di discriminazione razziale che ha caratterizzato il discorso sui quartieri autocostruiti e sui “bairros sociais”, così come le azioni della polizia e degli apparati amministrativi che hanno messo in atto questi processi di espulsione. Come sottolinea Sinho Baessa de Pina, «negli sfratti eseguiti a Santa Filomena e nel Quartiere Seis de Maio, si sono viste persone aggredite e i beni che custodivano da decenni sparsi per la strada. Questo tipo di violenza è conseguenza diretta dalla differenza di trattamento di tipo razziale e del modello di segregazione attivo in questo paese».
Perché la proposta di raccolta dati etnico razziali
La Costituzione portoghese sancisce, con l’articolo 65, il diritto di tutti ad una abitazione di dimensione adeguata e con condizioni di igiene, conforto e privacy.
Sos Racismo ha integrato il gruppo di lavoro creato dal governo per il censimento, consegnando un report in cui si faceva una proposta concreta per l’inclusione della domanda sull’appartenenza etnico razziale delle persone nel censo. Spiega Mamadou Ba: «Noi siamo a favore di un censimento, perché non è possibile intervenire su una realtà che non si conosce. Per avere politiche pubbliche concrete, strutturate e orientate a ciascuna delle ragioni delle diseguaglianze, dall’accesso abitazione, al lavoro, all’educazione e alla salute, c’è bisogno di sapere qual è la dimensione dell’esclusione e qual è l’universo a cui questa dimensione si riferisce. È ovvio che un’operazione di identificazione delle persone può essere un’operazione rischiosa, perché espone al pericolo di essenzializzare l’origine o l’appartenenza etnica, razziale o religiosa delle persone e al rischio di manipolazione dei dati, ma non c’è nessuna operazione umana senza rischi. Lo stato si deve preparare per rispondere a questi rischi».
«Ci sono aspetti simbolici importanti per l’immaginario collettivo, perché la raccolta di dati etnico razziali permette di farla finita con il mito della bianchezza. Il Portogallo non è più un paese bianco, è un paese diverso e questa raccolta permetterebbe al paese di guardarsi allo specchio, non si vedrebbe più soltanto il bianco ma anche le altre tonalità. Continueremo questa lotta, anche se è difficile da vincere perché c’è stata una strumentalizzazione molto grande sulla preoccupazione della “essenzializzazione”. C’era bisogno di un impegno collettivo, che è mancato. L’unica cosa è che dopo questo dibattito si può soltanto avanzare, è finito il mito che dice che non si possono raccogliere dati. E d’ora in poi nessuno potrà più dire che è possibile fare politiche pubbliche senza conoscere la realtà», chiosa Ba.
Per Ana Rita Alves è importante parlare anche delle popolazioni Roma in Portogallo; anche qui il legame con la questione razziale è evidente, visto che dal secolo XVI c’è una legislazione che promulga l’espulsione e l’impedimento per queste popolazioni di rimanere più di un determinato lasso di tempo nello stesso luogo. Nel caso portoghese le popolazioni rom hanno avuto la cittadinanza solo nel sec. XIX, nel 1826, anche se risiedono in Portogallo da più di cinquecento anni.
«Quello che è interessante pensare è come un insieme di legge si trasmutano nel periodo democratico, cambiando le parole ma mantenendo esattamente lo stesso fine di decenni e secoli addietro. Nel 2005, per esempio, il comune di Faro, in Algarve, ha emesso un comunicato in cui diceva che tutti i nomadi andavano espulsi dal suo territorio».
Anche in questo caso la raccolta dei dati sarebbe importante per demistificare alcuni miti. Per esempio, continua Alves, «si dice che i rom sono nomadi per scelta, per il loro stile di vita e la loro cultura. Invece molti attivisti Roma dicono che c’è un nomadismo forzato, visto che a molte comunità è stato sistematicamente impedito di rimanere negli stessi posti a lungo. Solo in alcuni casi sono potuti rimanere per 40 o 50 anni: ci sono accampamenti con questa longevità ad esempio in città come Faro e Viana do Castelo. E quando si è permesso alle comunità di rimanere, lo si è fatto in maniera instabile e senza servizi di base, perché molti accampamenti non hanno accesso all’acqua e alla luce».
Ana Rita Alves porta due esempi paradigmatici di come vi sia una politica chiara di espulsioni delle comunità gitane, che tentano di resistere e costituire vita come possono e, quando sono rialloggiate, lo sono sempre in una forma segregata. Al Bairro das Pedreiras, a Beja, diverse famiglie che venivano da un insediamento vicino ad un’antica discarica, sono state tutte rialloggiate in un quartiere con piccole case tutte uguali e dove è stato costruito un muro di 3 metri di altezza su uno dei lati del quartiere, proprio dove c’era maggiore accesso al centro della città di Beja. Il secondo esempio è il Bairro da Integração a Leiria, esclusivamente abitato da Roma, dove, allo stesso modo, è stato costruito un muro.
Conclude Alves: «L’idea di molti intellettuali e di personaggi pubblici in Portogallo è che se negli Stati Uniti c’è un razzismo strutturale, nel loro paese vi è invece soltanto un problema di classe. Ma se si ascolta bene quello che le persone nere e rom hanno da dire sulle proprie condizioni abitative, si capisce che queste popolazioni affrontano una maggiore precarietà abitativa e una forte segregazione urbana. Ormai questo è un fatto incontestabile: anche se non ci sono dati, ci sono da diversi anni lavori accademici su questa questione, oltre a film, brani musicali e romanzi, prodotti molte volte dagli stessi abitanti».
Profilo dell'autore
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Luca Onesti. Giornalista, fotografo e documentarista, vive a Lisbona da 8 anni e negli ultimi due si divide tra questa città e Istanbul. È attualmente borsista di dottorato all’Università di Lisbona con un progetto sull’ecologia e sull’economia del Comune.
Ha pubblicato su diversi giornali online, ultimamente con Dinamo press. È co-fondatore del blog su Lisbona e il Portogallo “Sosteniamo Pereira” e ha scritto un libro di ciclismo e di viaggio, C’era una Volta in Portogallo. È redattore della rivista Thomas Project.
Daniele Coltrinari. Nato a Ciampino (Roma) nel 1976, è un giornalista freelance e ha realizzato reportage su Lisbona e sul Portogallo, pubblicate su diverse testate nazionali. È coautore di Lisbon Storie (2016), il primo documentario indipendente sugli italiani che da anni vivono e lavorano a Lisbona. Ha pubblicato nello stesso anno C'era una Volta in Portogallo (Tuga Edizioni), un libro di ciclismo, viaggi e avventure. Lisbona è un'assurda speranza (uscito recentemente per Scatole Parlanti) è un romanzo breve ambientato nella capitale portoghese poco dopo gli anni post Troika e prima dello scoppio della pandemia.
[…] Nova Lisboa. Razzismo e abitazione in Portogallo Illustrazione in copertina da Vecteezy […]