Seppur bistrattata e relegata alle corde delle chitarre di vecchi e nuovi sognatori, la Pace – nonché il relativo mantenimento della stessa – ha un suo fondamento giuridico e gode di un pieno riconoscimento a livello sovranazionale. La “recente” comunicazione europea a supporto della causa bellica appare in evidente contrasto con tale diritto e rievoca ancora una volta una contrapposizione culturale identitaria: difendere la pace oggi significa dichiarare guerra alla guerra.
“Essere solidali nei confronti di uno stato sovrano che è stato aggredito con un’azione militare da tutti noi già ampiamente condannata, non significa assecondare una propaganda su richieste di interventi bellici che comporterebbero l’ingresso in un conflitto mondiale”: con queste parole i deputati di Alternativa – ex M5S – avevano annunciato la loro assenza al discorso in videoconferenza del presidente Volodymyr Zelensky di martedì scorso in Italia.
Ma se una parte del Parlamento, inclusi alcuni deputati della Lega e FI, ha preso le distanze (emblematica è stata infatti l’assenza del senatore Pillon, travolto da un’inchiesta giornalistica circa finanziamenti russi alla sua fondazione e ad ambienti della destra cattolica), la grande maggioranza ha applaudito con decisione le parole del presidente ucraino che durante il suo discorso ha reso a pieno l’immagine di un popolo stremato ma disposto a tutto per difendersi.
La stessa grande maggioranza che il 17 marzo ha approvato (con 367 favorevoli, 5 astenuti e 25 contrari) in prima lettura la conversione del cd. “Decreto Ucraina”, lo strumento tramite il quale l’Italia si appresta a fare il proprio ruolo all’interno dello scacchiere bellico: non solo prevedendo misure umanitarie e di approvvigionamento energetico ma anche e soprattutto predisponendo l’invio di armi e truppe.
Come si legge nel Comunicato stampa diramato dal Consiglio dei Ministri, è prevista una deroga specifica ad alcune disposizioni vigenti in materia di difesa: si parla della l. 185/1990 secondo la quale le operazioni di “esportazione, importazione e transito di materiale di armamento (…) vengono regolamentate secondo i principi della Costituzione repubblicana che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.
Il decreto in analisi, dunque, parrebbe derogare a quanto sancito dall’art. 11 della nostra Costituzione: non solo un rifiuto della guerra, ma anche una valutazione del rapporto tra guerra e intervento di pace.
Pace come sistema di istituzioni
Sicuramente non vi sono dubbi di sorta sulla portata effettiva del conflitto: secondo una attenta analisi del dettato costituzionale se ne deduce che ad essere ripudiate sono la guerra di aggressione e quella tesa alla difesa di interessi nazionali, ammettendo invece un tipo di guerra “difensiva” che non implichi l’animus bellandi, in ossequio al criterio di proporzionalità della reazione, diretta dunque al solo respingimento dell’aggressione.
Sembrerebbe, dunque, non esserci nulla di sbagliato nel sostenere una missione di pace a favore di un popolo brutalmente attaccato da una superpotenza vicina che, occorre ricordare, viola ormai da molto tempo parametri e vincoli internazionali. Eppure, la rapida escalation con la quale il blocco NATO ha prontamente risposto all’appello del fuoco col fuoco, coinvolgendo paesi che storicamente avevano scelto la via della neutralità, rimanda a tutto fuorché alla pace.
Il prof. Antonio Papisca, nel suo commento alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, ci ricordava che “la pace proclamata dall’Articolo 28 è – per seguire Norberto Bobbio -, pace positiva, intesa come la costruzione di un sistema di istituzioni, di relazioni e di politiche di cooperazione all’insegna di: “se vuoi la pace, prepara la pace”.
Essa, dunque, non va intesa nella sua declinazione negativa, come mera assenza di guerre, come parentesi da vivere preparandosi alla prossima guerra potenziando gli arsenali militari e coltivando sentimenti nazionalistici: rappresenta invece un preciso diritto fondamentale.
Riconoscere alla pace tale rango, dunque, permette facilmente di dedurre che: “se alla persona e ai popoli è riconosciuto il diritto alla pace in quanto diritto fondamentale, ne consegue che agli stati è automaticamente sottratto il diritto di far guerra e viene loro imposto il dovere di far la pace: officium pacis invece di ius ad bellum”.
Officium, dunque, ufficio nel suo significato giuridico di incarico, dovere: questo è lo strumento volto a tutelare la promozione e il mantenimento della pace, non solo a livello nazionale, come testimoniato dal già citato art. 11 Cost. ma anche a livello di diritto internazionale.
Ad arricchire tale visione, tutt’altro che utopica, del diritto alla pace interviene inoltre l’art. 20 del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966, il quale prescrive espressamente: “Qualsiasi propaganda a favore della guerra deve essere vietata dalle legge”.
Comunicazione bellica e conflitto culturale
Alla luce di quanto detto bisogna prestare estrema attenzione al nuovo modo di fare comunicazione dei leader coinvolti in questo conflitto: come giustamente osservato da Antonello Ciccozzi, professore di Antropologia Culturale dell’Università de La Spezia ospite di Radio Capital “Putin è un sovrano autoritario in modo evidente, la sua autocrazia si basa sulla paura. Zelensky invece è mascherato in una telecrazia dell’esaltazione che si basa sul pattern narrativo della lotta del bene contro il male, il che immette la narrazione di Zelensky nel conio di una struttura specifica che è ‘buona da pensare’”.
La dinamica comunicativa protagonista di questi ultimi giorni sta facendo riemergere il ben noto pattern del noi come voi: “In collegamento con Londra evoca Churchill, a Berlino dice che ogni bomba è un muro, con gli USA evoca Pearl Harbor, con la Francia c’è il deep fake sulla Torre Eiffel e con Israele ieri ha evocato la Shoah ed è stato rimproverato perché ha violato l’assioma storiografico del principio di unicità della Shoah”.
Secondo tale analisi, dunque, il pattern di cui sopra porta ad altre due interpretazioni: quella “sacrificale” del noi per voi ossia “noi stiamo combattendo per la vostra libertà” – alimentando l’idea che Putin voglia conquistare il mondo –, e quella “espiatoria” secondo lo schema se = allora. “È questo il punto più importante, la rappresentazione è finalistica. Il pattern è ‘se non ci date le armi allora perderà tutta l’Europa”.
Questo pensiero, estremamente dannoso per una visione del mondo equa e garantista, si è trasformata ancora una volta in una ben precisa contrapposizione culturale del noi contro di loro, occidente contro diverso.
A testimonianza di tale riluttante dicotomia vi sono le testimonianze dei primi giornalisti inviati a Kyiv i quali, nei loro resoconti, enfatizzavano le caratteristiche etniche dei civili in fuga: “Sono così simili a noi. Ecco perché è così scioccante. La guerra non è più qualcosa che colpisce popoli poveri e lontani. Può accadere a chiunque”, ha scritto Daniel Hannan sul Telegraph, nel Regno Unito; “Pensate, siamo nel ventunesimo secolo, siamo in una città europea, e si lanciano missili come se fossimo in Iraq o in Afghanistan”, si lamentava un commentatore alla tv francese. E la risposta dell’Unione non si è fatta attendere: non solo derogando alla Convenzione di Dublino in materia di asilo – dimenticandosi del grido disperato degli altri civili respinti al confine e costretti a tornare in mezzo alle bombe russe – ma anche facendo proprie le posizioni belliche e preparandosi alla barricata, culturale prima ancora che militare.
Anche dal punto di vista giuridico, poi, c’è chi sostiene che le azioni di Putin affondino, non solo da una prospettiva bellica ma anche diplomatica (si pensi alle dimissioni della Russia dal Consiglio d’Europa), “nel disconoscimento di tutto l’assetto giuridico e liberale caro all’Occidente”.
Tutto questo non può essere tollerabile. Che fare dunque?
La costruzione di un mostro diverso e nemico dei propri valori, l’idea di un intervento di pace che poggia su due binari contrapposti ed esclusivi tra loro è quanto di più lontano possa esistere dalle Dichiarazioni Universali e Trattati in materia, i quali si rivolgono alle genti e ai popoli del mondo e non a ristretti gruppi caucasici.
Storicamente questa interpretazione “selettiva” della pace ha gettato le basi per interventi e azioni belliche successive, sia nel periodo coloniale che anche nella più recente esperienza mediorientale dal 2001 ad oggi.
Già molto tempo fa il filosofo del diritto Danilo Zolo ci metteva in guardia dalle insidie della giusta causa nello Ius as bellum ed oggi ci troviamo ancora una volta nella possibilità di scegliere tra un intervento che sposa a pieno una definizione di pace in funzione difensiva/identitaria o una che ne rispetti la sua vocazione giuridica erga omnes.
Attenzione: come precisato da don Luigi Ciotti nel suo manifesto contro la guerra, nessuno vuole proporre sconti a dittatori e terroristi o alla violenza, da qualunque parte questa arrivi: le responsabilità criminali del presidente Vladimir Putin nei confronti dell’Ucraina e dei civili (nonché degli stessi dissidenti russi) sono incontrovertibili, così come lo sono le sue collaborazioni politiche sia in Italia che in Donbass.
Lo sono altrettanto i numeri delle vittime di Odessa del 2014 e delle evidenti derive nazionaliste estreme degli ambienti paramilitari Ucraini.
Evidente, inoltre, è la volontà dell’Ucraina di avvicinarsi al Patto Atlantico, come testimoniato dal recente meeting tra il presidente Zelensky e il vertice NATO, dato certamente allarmante per la stabilità geopolitica ma condizione non sufficiente per determinare l’invasione di un paese sovrano e la morte di centinaia di civili, occorre ribadirlo.
Non è questo il punto.
Ciò che si intende mettere in luce è la necessità di intervenire con lungimiranza e di evitare la tentazione delle scorciatoie. La pace non può essere quella della bandiera arcobaleno in una mano e del fucile nell’altra.
Definirsi oggi pacifisti non significa (non ce ne voglia John Lennon) tenersi per mano e cantare sperando in un intervento soft e illuminato da parte dei nostri governanti: difendere la pace oggi significa dichiarare guerra alla guerra, applicare a pieno i principi scanditi dalla Grundnorm costituzionale ed internazionale, applicare il diritto, ostacolare l’industria bellica, pretendere e ottenere che la giustizia prevalga sul rancore, che il buon senso prevalga sull’identità, riconoscendo la primazia del diritto internazionale e la competenza esclusiva dell’ONU a deliberare e a realizzare operazioni di polizia internazionale.
Potremmo, tanto per dire, ricordarci di quando la Russia bombardava la Siria e migliaia di innocenti, rei unicamente di voler rovesciare il regime di Assad; potremmo cominciare a rendere giustizia a quei civili e a quelli ucraini allontanando definitivamente dagli ambienti politici (e dagli schermi) tutte quelle fondazioni, partiti e politici italiani che hanno ricevuto finanziamenti russi (o Sauditi), nomi tutt’altro che sconosciuti agli onori delle cronache.
Potremmo ricordare che dietro il pretesto energetico di TAP si nascondono cronache di corruzione e morte, nonché di collaborazione con la società russa Gazprom. Potremmo anche ricordarci che durante la pandemia sono cresciute a livello planetario – inclusa l’Italia – la produzione e la vendita di armamenti. Mentre il mondo della medicina e della scienza si spendeva per salvare le vite dal Covid, altri spendevano per acquistare strumenti di morte.
Una piccola curiosità: pochi conoscono l’origine della cosiddetta “sciarpa della pace”, uno degli elementi che contraddistinguono alcuni movimenti sociali italiani: essa deriva dalla huipala simbolo dell’identificazione culturale delle Ande Amazzoniche ed emblema della nazione collettivista e armonica; un simbolo di impegno e resistenza indigena.
In tal senso dev’essere intesa la nostra azione per il diritto alla pace: impegno e resistenza contro lo strapotere delle armi e della comunicazione bellica, prima che sia troppo tardi, prima di ritrovarci ancora una volta a studiare sui libri come avremmo potuto salvare il continente dall’ennesima prevaricazione dell’uomo sull’uomo.
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