Storie di russi in transito

“Russia-Lettonia-Inghilterra-Spagna? È un giro da fottuti di testa”. 

“Lo so, ma sto considerando tutte le opzioni”. 

È da mezz’ora che sto leggendo degli scambi di messaggi surreali sul gruppo Telegram Uscire dalla Russia. L’Unione europea ha chiuso lo spazio aereo ai voli civili russi, la Russia ha risposto bloccando a sua volta i voli provenienti da trentasei paesi. Sul gruppo le persone si scambiano informazioni su rotte alternative per uscire o rientrare nel paese. Mi ci ero iscritta nel 2020, quando a rendere difficili gli spostamenti erano le restrizioni anti-covid. Dal 24 febbraio la chat pullula nuovamente di messaggi. Sto spulciando il gruppo in cerca di informazioni sul viaggio Helsinki-San Pietroburgo in pullman che dovrò affrontare domani. Attualmente è una delle principali rotte per raggiungere l’Europa via terra. In alternativa si potrebbe volare a Mosca facendo scalo a Istanbul o Dubai. Ci ho rinunciato dopo aver visto degli scali di 60 ore e prezzi che sfiorano i 1200 euro sola andata.

Per molti giorni mi sono chiesta che atmosfera si respirasse in Russia, in che modo ci si sentisse a trovarsi lì ora, nel paese in cui sono nata e ho vissuto per diciannove anni. Ma probabilmente non mi sarei spinta ad affrontare un viaggio del genere, se non fosse stato per un lutto in famiglia. Poche ore dopo aver ricevuto la notizia ho comprato un biglietto aereo per Helsinki, ho prenotato un viaggio in pullman per San Pietroburgo e la mattina dopo ero in viaggio.

***

La fermata dei bus a lunga percorrenza che si trova appena fuori l’aeroporto di Helsinki è colma di gente. Il vento gelido spazza il marciapiede e i passeggeri si ammassano sotto la pensilina in attesa dei pullman. Ci sono tre compagnie che vanno a San Pietroburgo. Un biglietto di sola andata costa sui quaranta euro. Il nostro bus giallo ape arriva in ritardo: è stato trattenuto per diverse ore al confine. A quanto pare accade di frequente. L’autista ci chiede di esibire i passaporti. In aggiunta, i cittadini russi devono mostrare il visto o il permesso di soggiorno UE, mentre i pochi stranieri i documenti che attestino il motivo per l’ingresso nel Paese. L’autobus è del tutto pieno. 

Raggiungiamo il centro di Helsinki per una breve fermata. I finlandesi in bicicletta con le guance accese dal vento accompagnano con gli sguardi un po’ perplessi questo bus Helsinki-Pietari, come loro chiamano San Pietroburgo. Dopodiché ci dirigiamo finalmente verso il confine. C’è chi dorme e c’è chi guarda fuori dalla finestra dove sfilano le esili betulle. Man mano che ci avviciniamo al confine il bus si anima. I passeggeri raccontano com’è cambiata la loro vita negli ultimi tre mesi, si scambiano le preoccupazioni. Noto che nessuno usa la parola “guerra”. Il modo più comune di riferirsi a quello che sta succedendo in Ucraina è “quando tutto è iniziato”. Riscontrerò questa cosa anche durante tutta la permanenza in Russia.

La mia vicina di posto, nata e cresciuta a San Pietroburgo, descrive così un weekend tipo di quando era studentessa: “Andavamo fino a Helsinki, da lì con il bus a Turku per prendere il traghetto per la Svezia. Stavamo svegli tutta la notte a bere e a far baldoria in compagnia di altri studenti svedesi e finlandesi”. Una semplicità che adesso sembra surreale. Ora lavora in un’azienda di San Pietroburgo che crea animazioni 3D per videogiochi. Per una conferenza di lavoro a Malmö è dovuta passare da Istanbul. In base ad un decreto introdotto nel 2020, i cittadini russi non possono lasciare il Paese via terra senza motivazioni specifiche – come ad esempio un permesso di soggiorno rilasciato da un paese straniero o delle cure mediche all’estero. Si può invece rientrare via terra senza problemi. Il decreto è stato introdotto quale misura anti-covid, ma il governo russo continua a tenerlo in piedi (a partire dal 15 luglio 2022 questo decreto è stato annullato, ndr). 

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Arrivati al confine finlandese, ci fanno scendere dall’autobus in gruppi da dieci. I poliziotti dietro il vetro del controllo passaporti sono giovanissimi, forse appena diplomati. I controlli filano liscio per tutti, d’altronde stiamo lasciando la Finlandia. Ci rimettiamo sul bus per percorrere poche centinaia di metri. Questa volta scendiamo tutti quanti e ci ammassiamo in una sala d’attesa per il controllo passaporti russo. Niente perquisizioni, nessun controllo dei social come invece mi sarei aspettata. C’è una fila separata per gli stranieri. Un uomo con la divisa bordeaux parla in un tono severo con un ragazzo spagnolo. Un attimo dopo lo accompagna in una stanza. Dei passeggeri in fila sostengono che non abbia il visto russo. Non ho modo di scoprire se è vero, dato che non proseguirà il viaggio insieme a noi.

Superata la frontiera, nel bus si chiacchiera in maniera animata. Sembrano tutti sollevati. Arriviamo a San Pietroburgo all’una e mezza di notte, due ore in ritardo rispetto all’orario previsto. Arrivo in hotel e crollo sul letto. Ho impiegato più di otto ore per percorrere poco più di trecento chilometri. È il periodo delle notti bianchi. Mentre mi addormento comincia ad albeggiare.

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La mattina del giorno dopo mi dirigo alla stazione, devo prendere il treno per Mosca. Osservo la città mentre attraverso la Piazza dell’insurrezione. L’aria è fresca, il cielo terso è di un celeste primaverile. Mi passa davanti un gruppo di bambini in gita con gli zaini tutti uguali. Attraverso le vetrine di una mensa vedo le persone sedute a fare colazione con tutta calma. Insomma, c’è la normale vita cittadina, o perlomeno così pare.

Poco dopo mi sistemo sul Sapsan, il treno ad alta velocità che viaggia tra Mosca e San Pietroburgo. La Siemens, che produce questi treni, ha lasciato la Russia. Girano voci che entro un anno tutti i Sapsan saranno fermi per via dei guasti ai componenti microelettronici perché non ci sarebbero aziende locali in grado di produrre parti di ricambio. Fuori dalla finestra ci sono le distese gialle dei tarassaci e alberi con le foglie appena sbocciate. Superiamo una staccionata con un murales. “Per il Donbass russo”, recita la scritta. La parola Za, che vuol dire “per”, è scritta con la Z latina anziché con la lettera cirillica. Penso che questo murales dall’aspetto un po’ goffo, che sembra fatto con un righello e di street art ha poco, sia un prodotto dei servizi comunali. 

Nei posti accanto a me sono seduti tre uomini: due di circa trent’anni e uno sui sessanta. Dalle loro conversazioni intuisco che si tratta di colleghi di lavoro. Con nonchalance, il discorso passa dai panini da ordinare alla carrozza ristorante all’offensiva militare russa. Commentano beffardi l’uccisione di alcuni generali russi, che secondo loro hanno raggiunto il grado militare senza mai essere stati prima in una guerra. Poi il discorso si sposta sul patriarca Kirill, che appoggia ufficialmente l’intervento militare: “Il patriarca? Ma non sai che prima faceva il venditore di sigarette?” E tutti scoppiano a ridere.

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Arrivata a Mosca, prendo un taxi. L’autista è un uomo sulla cinquantina, indossa un’elegante giacca a quadri. È di origini azere ma vive a Mosca dal ’94. Ironizza sul fatto che tuttora il suo russo ha un forte accento: per molti anni ha lavorato nel commercio della frutta circondato quasi solo da altri azeri. Anche lui ha voglia di parlare dell’Ucraina. Sostiene che Ilham Aliyev, il presidente dell’Azerbaigian, abbia mandato quattromila azeri a combattere insieme ai soldati russi. Avrebbe fatto una cosa giusta, visto che “lì ci sono i bandera” (da Stepan Bandera, il leader del principale movimento nazionalista ucraino del secolo scorso). Non ne so niente e in seguito non riuscirò a trovare alcuna informazione riguardo al coinvolgimento azero. Anzi, secondo una dichiarazione recente di Aliyev, “l’Azerbaigian rispetta l’unità territoriale dell’Ucraina”. Dopodiché l’autista dice di aver dato di recente un passaggio ad una famiglia che veniva da Donetsk. “Pensavano di non arrivare vivi”. Parla in maniera agitata e il suo accento si fa più marcato. Faccio fatica a capire i dettagli, ma annuisco soltanto. La stanchezza del viaggio mi sovrasta.

***

Riparto per Helsinki da San Pietroburgo dieci giorni dopo. La stazione dei bus si trova sul lungofiume del Neva. Secondo il calendario russo è arrivata l’estate. Il sole si è fatto più caldo e produce riflessi sulla superficie dell’acqua. Viaggiamo lenti nel traffico lungo il fiume e questo mi concede il tempo di contemplare la guglia dorata dell’Ammiragliato.

La donna che viaggia di fronte a me nella fila parallela è ucraina. È salita sul bus appena prima di me e l’autista che controllava i passaporti ha segnato “ukr” accanto al suo nome nella lista dei passeggeri. Accanto a lei si è seduto un giovane uomo, alto con i capelli cortissimi. Parla al telefono di qualche lavoro stagionale che va a svolgere in Finlandia. Noto che anche lui ha il passaporto blu con il tridente ucraino. Si scambiano qualche battuta, non sembrano troppo sorpresi di questa coincidenza. Dopo poco scopro che oltre a loro due ci sono altri passeggeri ucraini. Ci fermiamo ad un posto di blocco non lontano dal confine. Sale a bordo un poliziotto e chiede se ci sono cittadini ucraini, si avvicina a ognuno di loro, dà uno sguardo ai documenti, fa qualche domanda sui motivi del viaggio. 

Alla frontiera russa i controlli vanno a rilento perché tutti i bagagli vengono aperti, mentre un labrador della polizia frontaliera abbaia vigorosamente alle persone. Molti hanno in valigia dei mazzi di banconote legati da un elastico. Le carte Visa e Mastercard rilasciate in Russia non funzionano più nel resto del mondo. Due uomini in fila assieme a me stanno parlando in italiano. Chiedo loro cosa facessero in Russia. Sono padre e figlio, entrambi vivono a Mosca da anni e poco tempo fa hanno ottenuto la cittadinanza russa. Il padre si era trasferito lì nel ‘67. Mi racconta che ai tempi dell’URSS viaggiava dall’Italia fino a Mosca in treno. Probabilmente il tempo che ci si impiegava non era molto di più rispetto a quello del viaggio che stiamo facendo. Impreca contro il dover viaggiare in questo modo e contro l’insensatezza delle sanzioni in generale. Sorprendentemente, conclude il discorso dandone colpa a Ursula von der Leyen: “Ha rovinato la Germania, rovinerà anche l’Europa”.

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Dopo aver superato i controlli, aspettiamo il resto dei passeggeri fuori dalla stazione della polizia per poter risalire sul bus. Accanto vengono fatti i controlli alle macchine dei privati intente ad attraversare il confine. Per la maggior parte sono stracariche: attraverso i finestrini si vedono pile di oggetti che arrivano fino al tetto. Evidentemente le persone che vanno via non contano di tornare a breve. 

Noto la mia vicina di posto. Mi racconta che la polizia le ha chiesto se possedeva un passaporto della repubblica di Donetsk. Viene da Kryvyj Rih, una città nel sud dell’Ucraina. Dice di essere stata in Russia a visitare degli amici, una cosa che proprio non mi entra in testa. Passa dalla Finlandia a trovare una zia, dopo torna a casa dove l’aspettano i figli. “Da noi stanno sparando un po’”, dice. Le chiedo perché non vuole andare via da Kryvyj Rih. Mi risponde che per legge i figli non possono lasciare l’Ucraina: sono uomini maggiorenni. Poi aggiunge con un leggero sbuffo: “Vede? Voi non ci capite, da noi sparano da tanti anni”. 

Ci siamo riseduti ai nostri posti, ma il bus è fermo. Tutti sono risaliti a bordo, tranne il ragazzo ucraino che era seduto vicino a noi. Stanno ancora facendo dei controlli su di lui. La stazione della polizia ha le pareti in vetro e lo vediamo passare di stanza in stanza accompagnato dagli agenti. Dopo mezz’ora risale anche lui sul bus. Ha un’espressione imperturbabile che manterrà finché non scenderà a Kotka, in Finlandia. 

Siamo in procinto di lasciare la frontiere russa e ripartire, quando un passeggero nuovo sale sul bus e mi chiede se il posto accanto a me è libero. Ha una barba bianca curata e vivaci occhi verdi. Mi racconta che discende da una famiglia di contadini tedeschi che si trasferirono nell’impero russo dalla Prussia, dove ai tempi imperversava la carestia. Insieme agli altri coloni tedeschi fondarono un villaggio nell’attuale territorio ucraino. Durante la seconda guerra mondiale uno dei suoi nonni fu sospettato di avere simpatie fasciste e ucciso. L’altro nonno, insieme a tante altre persone di origini tedesche, fu deportato in Kazakistan, dove è nato e cresciuto il mio nuovo compagno di viaggio. Quando l’URSS si è disgregata, lui non è voluto diventare un cittadino kazako. Ha ottenuto il passaporto tedesco ed è emigrato in Germania. “Il grande paese si è sciolto”, commenta con rammarico. Quest’affermazione mi sembra un po’ paradossale, pensando al destino dei suoi antenati. Mi spiega che stava andando in Russia per vedere alcuni vecchi amici e per sistemarsi i denti ad un buon prezzo. Ma nonostante abbia il visto russo di lunga durata, la polizia di frontiera non l’ha fatto entrare perché in base al loro giudizio non possiede le misteriose “motivazioni”. Gli tocca tornare in Finlandia insieme a noi. Ha il telefono in mano, impostato in russo. Sta scrivendo un messaggio in cui spiega la situazione ad un contatto russo. “Kapets totale”, conclude così. Kapets è uno slang che in russo significa “fine”, una situazione irreparabile, aver raggiunto il massimo grado di assurdità. Penso non ci sia una frase più adatta al momento.


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Ekaterina Galeeva
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