Durante la Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti internarono oltre 120.000 nippo-americani – due terzi dei quali erano cittadini statunitensi, nati e cresciuti negli Stati Uniti – considerati una minaccia alla sicurezza nazionale per il solo fatto di avere origini giapponesi. Case, negozi, terreni e attività economiche furono sequestrati, e migliaia di famiglie vennero rinchiuse in campi di internamento situati in zone remote e inospitali.
La logica della paura
Siamo nel 1941, alla vigilia dell’ingresso degli Stati Uniti nella Seconda Guerra Mondiale. Le tensioni tra Stati Uniti e Giappone erano già alle stelle. Per capire la mentalità dell’epoca, dobbiamo ricordare che, nel luglio di quell’anno, gli americani avevano imposto sanzioni economiche pesantissime contro il Giappone, in particolare bloccando le esportazioni di petrolio.
Questa mossa non era casuale. Il petrolio era il “sangue” della macchina bellica giapponese, ed era chiaro che una misura di questo tipo avrebbe spinto il Giappone a reagire. E infatti, pochi mesi dopo, il 7 dicembre 1941, arriva il famoso attacco a Pearl Harbor, l’evento che trascina gli Stati Uniti nel conflitto mondiale.
La reazione degli americani fu un misto di shock, rabbia e paura. E quando la paura entra in gioco, è facile perdere la lucidità. Le autorità iniziano a cercare “nemici interni”, e la comunità giapponese-americana diventa il bersaglio ideale.
Ma qui c’è un elemento paradossale. Perché prima ancora di Pearl Harbor, il governo americano aveva già avviato un’indagine preventiva sulla lealtà dei giapponesi che vivevano negli Stati Uniti. Roosevelt aveva incaricato un uomo d’affari, Curtis Munson, di fare una sorta di “verifica generale” sulla popolazione nippo-americana. Il Rapporto Munson, completato e consegnato il 7 novembre 1941, diceva chiaramente:
“La comunità giapponese-americana è leale. Non c’è alcun rischio di insurrezioni o atti di sabotaggio.”
Era tutto scritto nero su bianco. Ma dopo Pearl Harbor, nessuno volle più ascoltare il rapporto Munson. La paura aveva già vinto.
La firma dell’Executive Order 9066
A questo punto entra in scena un personaggio chiave: Earl Warren, che all’epoca era il procuratore generale della California. Se il suo nome vi suona familiare, è perché, anni dopo, diventerà presidente della Corte Suprema degli Stati Uniti, e sarà proprio lui a firmare alcune delle sentenze più importanti nella lotta contro la segregazione razziale, come il caso Brown v. Board of Education.
Ma nel 1942, Warren ha un ruolo molto diverso. È uno dei più accesi sostenitori dell’internamento dei giapponesi-americani. E qui c’è una frase emblematica che vale la pena citare:
“Se i giapponesi vengono rilasciati, nessuno potrà distinguere un sabotatore da un qualsiasi giapponese. Non vogliamo un secondo Pearl Harbor in California.”
Questo tipo di ragionamento — la paura del “nemico interno” — spinge il presidente Roosevelt a firmare, il 19 febbraio 1942, l’ormai tristemente famoso Executive Order 9066.
Questo decreto stabilisce la creazione di una “zona di esclusione” lungo tutta la costa occidentale degli Stati Uniti, che comprende la metà occidentale di Washington e Oregon, l’intera California e la parte meridionale dell’Arizona. Chiunque abbia origini giapponesi e viva in questa zona viene dichiarato “alieno nemico”, anche se si tratta di cittadini americani nati e cresciuti negli Stati Uniti.
Dalle case ai campi
L’ordine di internamento è brutale. Le persone ricevono un preavviso di pochi giorni per abbandonare le proprie case, vendere le attività e lasciare tutto ciò che possiedono. Immaginate la scena: famiglie intere costrette a vendere case, negozi e terreni a prezzi irrisori, senza sapere dove sarebbero state portate.
Le autorità americane organizzano l’internamento di oltre 120.000 persone, divise in 10 campi principali. Alcuni nomi sono entrati nella memoria storica:
- Manzanar (California)
- Tule Lake (California)
- Topaz (Utah)
Le famiglie vengono alloggiate in baracche di legno, con condizioni climatiche proibitive: caldo torrido d’estate, freddo gelido d’inverno. I campi sono circondati da torri di guardia e fili spinati, e il personale militare è armato.
In teoria, i campi dovevano essere “autosufficienti”. In pratica, la terra arida e improduttiva impediva qualsiasi attività agricola su larga scala. Perciò, agli internati venivano assegnati lavori pagati 5 dollari al giorno, come la produzione di reti mimetiche per l’esercito.
Come reagisce la comunità giapponese-americana? Con una dignità straordinaria, ma non senza conflitti. Nei campi, alcuni iniziano a opporsi. Il campo di Tule Lake diventa il centro delle proteste, in particolare contro il “giuramento di fedeltà” imposto ai prigionieri. Chi rifiuta di firmare il giuramento viene marchiato come “non leale” e spesso punito. L’episodio più famoso riguarda il fratello di Ben Takashita, uno degli internati a Tule Lake. Dopo aver partecipato a una protesta, viene portato dai militari in una zona isolata e messo di fronte a un plotone d’esecuzione. Le guardie gridano “Pronti, mirate, fuoco”, ma i fucili non sparano. Le armi erano scariche: un atto di pura intimidazione psicologica.
Man mano che la guerra volgeva al termine, il governo statunitense inizia a smantellare i campi. Ma c’è un problema: dove vanno tutte queste persone? Le loro case e i loro negozi non esistono più, le loro vite sono state distrutte. Alcuni ex internati, come George Takei (futuro attore di Star Trek), ricordano il ritorno nelle città come un incubo. La sua famiglia, ad esempio, finì nei quartieri più poveri di Los Angeles, su Skid Row, dove suo padre tentò di ricostruire la loro vita.
Questa storia non è finita nel 1945. Nel 1980, il governo statunitense avviò un’indagine per stabilire se l’internamento fosse giustificato. La risposta fu chiara: no, non lo era. Le conclusioni portarono il presidente Ronald Reagan a firmare, nel 1988, una legge di risarcimento. Ai sopravvissuti furono assegnati 1,2 miliardi di dollari di indennizzo. Ma, forse più importante del denaro, è stato il riconoscimento storico e simbolico. Oggi, i luoghi di Manzanar e Tule Lake sono preservati come siti storici, moniti per le generazioni future.
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