Gundi, il bomber ribelle che sfidò il partito comunista bulgaro

Ci sono uomini che diventano simboli per scelta, scolpendo le proprie azioni nella Storia. Altri lo diventano per caso, travolti dagli eventi e trasformati in bandiere di qualcosa che forse non avevano mai cercato davvero. E poi ci sono quelli che non hanno bisogno né di proclami né di battaglie: la loro sola esistenza è una sfida implicita al sistema.

Georgi “Gundi” Asparuhov appartiene a quest’ultima categoria. Nominato miglior calciatore bulgaro del XX secolo, fu un’icona di eleganza e talento, ma anche un uomo scomodo per il regime comunista, che ne temeva il carisma e l’indipendenza. Fu sorvegliato, seguito, e poi pressato dagli agenti della famigerata Durzhavna Sigurnost affinché collaborasse con i servizi segreti. E quando morì, a soli 28 anni, in un misterioso incidente stradale, le voci su un possibile coinvolgimento del regime si diffusero rapidamente.

Questa è la storia di un calciatore che, senza mai pronunciarsi direttamente contro il governo socialista, riuscì comunque a sfidarlo, semplicemente restando se stesso.

Il suo talento nel campo da calcio, il suo carisma naturale, il suo stile di gioco elegante e istintivo lo resero l’idolo di un’intera nazione. Gundi era troppo amato per essere ignorato dal regime, ma anche troppo libero per essere assimilato a esso. La sua popolarità non era costruita dal Partito e per questo risultava sospetta. Una variabile impazzita, ingovernabile da un partito abituato a orchestrare ogni aspetto della società.

Predestinato in un paese che cambia

Georgi Asparuhov nacque nel 1943, quando il Paese era ancora una monarchia. Lo zar Boris III cercava disperatamente di bilanciare le pressioni della Germania nazista con il malcontento popolare. L’alleanza con Hitler non fu ideologica, bensì dettata dalla convenienza: la Bulgaria sperava soltanto di riconquistare territori perduti nella Prima guerra mondiale e di mantenere un minimo di autonomia.

Una posizione precaria. L’Europa era, infatti, un immenso scacchiere e la Bulgaria una pedina nelle mani delle grandi potenze. La guerra stava per cambiare volto.

Nel 1944, l’Armata Rossa entrò in Bulgaria senza combattere. Il destino del paese era già scritto nelle strategie di Stalin. L’alleanza con i nazisti venne spazzata via in poche settimane, e il Partito Comunista Bulgaro prese il potere con la stessa rapidità con cui un fulmine incendia una foresta secca.

Era l’inizio di una trasformazione radicale.

Il giovane Simeone II, zar bambino di appena sette anni, venne dichiarato inadatto a governare. Nel 1946, con un referendum orchestrato dal Partito, la monarchia fu abolita e lasciò il posto alla nascente Repubblica Popolare Bulgara, uno degli Stati più fedeli all’Unione Sovietica.

Da questo momento, la macchina del potere si fece totale.

Il Partito non si limitò a governare: controllava, sorvegliava e dirigeva ogni aspetto della vita pubblica e privata. L’economia era pianificata, la cultura filtrata, l’informazione censurata. Il calcio – come ogni altra attività sociale – diventò uno strumento di propaganda.

Nel socialismo reale, lo sport lasciava i contorni del gioco e assumeva quelli della vetrina ideologica. Gli atleti non appartenevano più alle squadre, ma allo Stato. Il talento individuale era tollerato solo se piegato alla collettività, solo se serviva la narrazione del Partito. Nelle sue prime fasi, il regime comunista bulgaro era allineato a Mosca con un fervore che perfino gran parte dei dirigenti sovietici trovavano eccessivo, e ogni idolo doveva essere scelto, coltivato e, soprattutto, controllato.

E in questo contesto di campioni addomesticati e successi costruiti nei palazzi del potere prima ancora che sul campo, Georgi Asparuhov sorse come un’anomalia. Non era una stella di regime, né un prodotto della propaganda. Era un talento naturale, amato non perché imposto dall’alto, ma perché scelto dal popolo. E questo, per il Partito, era un problema.

L’ingresso nel Levski Sofia e la creazione del mito “Gundi”

Le storie dei grandi campioni iniziano spesso nei luoghi più umili, in strade polverose e cortili di periferia, dove il calcio non è ancora spettacolo, ma rituale collettivo, linguaggio prima ancora che arte. Così fu anche per Georgi Asparuhov, che i suoi amichetti chiamavano affettuosamente “Gundi“. Lui crebbe nel quartiere Reduta di Sofia, un microcosmo popolare in cui il pallone era un codice per interpretare il mondo.

I bambini di Reduta non giocavano su campi in erba. Le porte erano segnate con pietre o maglioni ammucchiati, il pallone spesso era fatto di stracci. Si improvvisavano regole, si imparava la durezza del contatto e la bellezza dell’invenzione. Il calcio era fantasia e sopravvivenza.

Gundi mostrava qualità atletiche eccezionali. Era alto, elegante nei movimenti, aveva un controllo di palla che sembrava innato. Ma soprattutto, possedeva un’idea tutta sua del gioco del calcio: vedeva spazi prima che si aprissero, intuiva i movimenti prima che accadessero. Curiosamente, i suoi primi allenatori lo schierarono in difesa. La sua altezza e struttura fisica lo rendevano idoneo a quel ruolo, ma qualcosa non lo convinceva. Il calcio dell’epoca era rude, fisico, aggressivo. Non era il calcio che piaceva a lui. Asparuhov amava il gioco pulito, la tecnica sopraffina, l’eleganza nei movimenti. Nonostante il talento straordinario, arrivò a dubitare di voler continuare la carriera calcistica. D’altronde, riuscì a ottenere risultati eccellenti anche in altri sport, e a 16 anni considerò anche l’idea di dedicarsi alla pallavolo. Ma la sua strada era tracciata. Durante un torneo giovanile in Austria, realizzò un incredibile gol da metà campo. Quella rete cambiò tutto: gli allenatori capirono che il suo istinto era offensivo, e Gundi non avrebbe mai più giocato in difesa. Nel 1959, a soli 17 anni, arrivò la promozione nella prima squadra del Levski Sofia, dopo aver guidato la squadra giovanile alla vittoria del campionato nazionale.

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Quando Asparuhov entrò nel Levski Sofia, il club aveva già una lunga storia, ma anche una posizione scomoda. Il Partito Comunista Bulgaro vantava un suo club ufficiale: il CSKA Sofia, la squadra dell’esercito, l’officina del potere in cui i successi sportivi diventavano meriti politici. Posto sotto il controllo diretto del Ministero della Difesa, il CSKA Sofia era il fiore all’occhiello della propaganda sportiva socialista. I talenti migliori venivano “convocati” tramite la leva militare obbligatoria e costretti a giocare lì, dove le carriere si costruivano con il placet delle istituzioni e la fedeltà al regime veniva garantita.

Il Levski, invece, non era la squadra delle istituzioni. Vi giocavano studenti, operai, intellettuali. Senza saperlo, Gundi entrò a far parte di questa narrazione. Non era un calciatore del Partito, né un soldato del calcio socialista. Era un talento puro, cresciuto fuori dai percorsi ufficiali. E perciò imprevedibile. Pier Paolo Pasolini diceva che il calcio ha i suoi prosatori e i suoi poeti. Gundi apparteneva a questi ultimi. Non giocava per la gloria, per la propaganda o per i record: giocava per la bellezza del gesto, per la gioia del gioco stesso. E in un mondo in cui tutto era controllato, questo lo rendeva pericoloso.

L’esilio al Botev Plovdiv e il riscatto

Ogni “eroe”, per essere tale, deve affrontare una prova.

Per Georgi Asparuhov, la prima arrivò presto. Un talento del genere non poté sfuggire al controllo dello Stato. Non si poteva diventare un idolo senza permesso, né un simbolo senza approvazione. Il Partito lo sapeva bene e intervenne. Nel 1961, a soli 18 anni, Gundi era già considerato il miglior giovane attaccante della Bulgaria. Il suo talento era innegabile e il pubblico bulgaro lo amava per questo. Ma il suo nome cominciava a circolare anche al di fuori del paese balcanico. E quindi, al di fuori della narrazione ufficiale del Partito.

I regimi non tollerano mai ciò che non controllano. La decisione arrivò con la prevedibile freddezza burocratica dell’epoca: una lettera ministeriale informò Gundi di dover lasciare il Levski. Ufficialmente, l’ordine rientrava nella chiamata al servizio militare, ma la destinazione scelta non lasciava dubbi: non fu assegnato al CSKA Sofia – la squadra dell’esercito e della nomenklatura comunista – bensì al Botev Plovdiv, lontano dalla capitale, lontano dagli occhi del pubblico.

Georgi “Gundi” Asparuhov al Botev Plovdiv (al centro, fila davanti)

Perché il controllo non si limitava alle leggi. Non bastava imporre l’obbedienza, bisognava interiorizzarla. Il vero potere non vietava soltanto, ma addirittura impediva persino di immaginare delle alternative alla realtà presentata. Nel calcio, questa logica apparve ancora più rigida. I campioni appartenevano allo Stato, non al popolo. Dovevano necessariamente ricoprire il ruolo di eroi costruiti dall’alto, strumenti della propaganda socialista. Diventare una leggenda senza l’approvazione del Partito era un problema politico. L’esilio al Botev Plovdiv fu perciò un tentativo di spegnere il fenomeno prima che diventasse incontrollabile. Senza il supporto dei tifosi del Levski, Asparuhov avrebbe dovuto sparire nell’ombra. Ma il Partito sottovalutò un dettaglio: il talento non si spegne con un ordine amministrativo.

Se l’obiettivo era ridimensionare il “fenomeno Gundi”, il risultato fu l’esatto opposto. Anziché smarrirsi nell’esilio e accettare passivamente il ruolo di soldato obbediente del socialismo, Gundi trasformò il Botev Plovdiv in una squadra leggendaria.

Nei due anni successivi al suo arrivo, il Botev Plovdiv si trasformò da squadra di provincia a una delle realtà più competitive del calcio bulgaro. Prima dell’insediamento di Gundi, il club non aveva mai avuto un vero leader, ma con lui in attacco tutto cambiò.

Nel 1962 arrivò il primo grande trionfo: il Botev vinse la Coppa di Bulgaria, un trofeo storico che segnò l’inizio di un’era. L’anno seguente, la squadra sfiorò l’impresa in campionato, chiudendo al secondo posto dietro solo allo Spartak Plovdiv.

Ma il capolavoro arrivò in Europa. Il Botev si spinse fino ai quarti di finale della Coppa delle Coppe, un traguardo mai raggiunto prima da un club bulgaro. E al centro di tutto c’era lui, Gundi, che con i suoi gol divenne il capocannoniere del torneo e attirò su di sé gli occhi di osservatori da tutta Europa.

Poi, nel 1962, Gundi fu convocato nella nazionale maggiore per il Mondiale in Cile. La Bulgaria si trovò inserita in un girone durissimo con Argentina, Inghilterra e Ungheria, e venne eliminata senza vittorie. Ma Asparuhov entrò nella storia durante la partita contro l’Ungheria: a 19 anni e 30 giorni, segna il primo gol della Bulgaria in un Mondiale, diventando uno dei più giovani marcatori della storia della competizione.

Il giocatore che il Partito voleva relegare nell’ombra diventò ancora più osannato. E il regime si trovò davanti a un dilemma: insistere con l’isolamento o riportarlo a Sofia?

Il tentativo di ridimensionare Gundi si rivelò controproducente: ora non era più solo un giovane promettente, ma una stella nazionale. Il popolo lo aveva adottato, esaltato, reso un simbolo. Per il Partito Comunista, lasciarlo lontano da Sofia non era più un’opzione. Nel 1963, Asparuhov tornò al Levski Sofia e la sua carriera poté proseguire. Qualcosa era cambiato però: il regime sapeva di aver perso il controllo della situazione. Gundi era troppo amato. Iniziarono ad arrivare le prime richieste di collaborazione con i servizi segreti, accolti con rispettoso rifiuto. Gundi sosteneva di giocare per il suo popolo, non per il Partito

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Ma tifosi e spie non furono gli unici a puntare gli occhi su di lui. Per quanto cercasse di mantenere una certa riservatezza sulla sua vita privata, le sue continue scappatelle non passarono inosservate. Il suo debole per le donne lo portò sull’orlo del divorzio, scampato solo per volere del Partito: “I personaggi in vista non possono divorziare“, fu la risposta dei funzionari alla richiesta della moglie Lita, devastata dai tradimenti del marito.

Commemorazione di Georgi “Gundi” Asparuhov presso lo stadio del Levski Sofia a lui intitolato.

L’offerta del Milan e il rifiuto che rese Gundi eterno

Nel 1967, Asparuhov era all’apice della sua carriera. Non era più soltanto il miglior calciatore della Bulgaria, ma uno degli attaccanti più forti d’Europa. La sua grazia dei movimenti, la capacità di fondere tecnica e potenza, la naturalezza con cui segna gol impossibili lo resero un fenomeno oltre i confini del blocco socialista. Tra i tanti che lo notarono, uno in particolare decise di puntare su di lui: il Milan di Nereo Rocco.

Il Milan era una squadra in costruzione, ma con ambizioni enormi. Dopo il ciclo di successi degli anni ‘50, culminato con la Coppa dei Campioni nel 1963, i rossoneri cercavano un nuovo leader per l’attacco. Nereo Rocco, maestro del catenaccio, amava le punte potenti ma eleganti. Voleva un attaccante capace di proteggere palla, finalizzare con entrambi i piedi, trascinare la squadra.

Lo trovò dietro la Cortina di Ferro.

La conferma arrivò in una notte d’ottobre, quando il Levski sfida il Benfica di Eusébio. I portoghesi, campioni d’Europa nel 1961 e 1962, erano una delle squadre più forti del mondo. Tra le loro fila c’era il miglior attaccante dell’epoca, la “Pantera Nera”. Ma quella sera, a brillare non fu solo Eusébio. Gundi segnò due gol straordinari e giocò una partita sontuosa. Perfino Eusébio, a fine gara, lo elogiò pubblicamente: “Asparuhov è uno dei migliori attaccanti che io abbia mai affrontato“, dichiarò alla stampa. Chiese persino al Benfica di acquistarlo, ma il Milan bruciò le tappe e riuscì a formulare l’offerta prima di ogni altra squadra.

La proposta era molto concreta: portarlo a Milano, farne il centravanti titolare, costruire attorno a lui una squadra leggendaria.

Quando i dirigenti del Milan tentarono di convincere Gundi, gli spiegarono che a San Siro avrebbe avuto l’opportunità di diventare una stella mondiale, gareggiare per i titoli più prestigiosi, sfidare i migliori. La dirigenza sportiva si sarebbe occupata di fargli conferire la cittadinanza italiana (perdendo perciò quella bulgara, secondo la legge di Sofia). Ma Gundi rispose con una frase destinata a entrare nella leggenda:

“C’è un paese che si chiama Bulgaria, e c’è una squadra chiamata Levski. Forse non ne avete mai sentito parlare, ma io sono nato in questa squadra, e in questa squadra morirò”.

La Bulgaria del 1967 era ancora rigidamente allineata all’Unione Sovietica. Gli atleti di valore non appartenevano a sé stessi, ma allo Stato. Eppure, in rari casi, alcuni giocatori del blocco socialista riuscivano ad espatriare. Qualche anno dopo lo avrebbe fatto anche Lubo Penev. Perfino nell’URSS i talenti migliori ottenevano, a volte, il permesso di andare all’estero. Allora perché Gundi non partì?

Per molti, quella scelta non fu libera. Il Partito non gli avrebbe mai permesso di accettare l’offerta, e lui sapeva benissimo che provare a forzare la mano avrebbe significato la fine della sua carriera o addirittura ritorsioni sulla sua famiglia.

O forse – e questa è l’ipotesi più affascinante – davvero non volle abbandonare la maglia che tanto amava.

Ad ogni modo, l’incontro “segreto” avvenuto a Milano non piacque affatto al Partito. Secondo un’inchiesta pubblicata dall’agenzia giornalistica Lupa.bg, Asparuhov era sotto sorveglianza costante e i suoi spostamenti erano monitorati dal regime. Membri della Durzhavna Sigurnost continuarono ad avvicinarlo per reclutarlo. Dopo i primi rifiuti, le richieste diventarono insistenti. E quando i servizi segreti minacciarono di spezzargli le gambe e togliergli ciò che più gli era caro – il calcio – Gundi accettò l’incarico. Malvolentieri, ma lo accettò. Diventò quindi uno (svogliato?) agente della sicurezza nazionale e delegato ai congressi del Komsomol (L’Unione della Gioventù Comunista Leninista di tutta l’Unione Sovietica).

L’incidente mortale e l’impatto sulla cultura bulgara

La frase con la quale motivò il suo rifiuto al trasferimento al Milan fu profetica.

Il 30 giugno 1971, Georgi Asparuhov aveva 28 anni ed era ancora il volto più amato del calcio bulgaro. Quella mattina, insieme al compagno di squadra Nikola Kotkov, partì da Sofia diretto a Vratsa, dove il Levski Sofia avrebbe dovuto disputare un’amichevole.

Viaggiavano su una Moskvitch 2140, un’auto sovietica, massiccia ma rudimentale.

Non arrivarono mai a destinazione.

A pochi chilometri dalla città, la loro vettura si schiantò frontalmente contro un camion cisterna carico di benzina. L’impatto fu devastante, l’esplosione immediata.

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Non ci fu via di scampo.

Gundi e Kotkov morirono sul colpo.

La scena del tragico incidente dove Georgi Asparuhov e il compagno di squadra Nikola Kotkov persero la vita.

Le versioni ufficiali furono chiare, ripetute ossessivamente dalla stampa di Stato: una tragica fatalità, il destino crudele che spezzò due vite nel fiore degli anni.

Eppure, la società civile bulgara si pose molte domande. Il paese era pieno di incidenti sospetti, morti enigmatiche, destini spezzati al momento giusto. In seguito, diventò tristemente celebre la morte del noto giornalista dissidente Boris Arsov, che morì in circostanze oscure nel 1974, ufficialmente per suicidio. O quella del poeta Georgi Markov, fuggito in Occidente e poi assassinato a Londra nel 1978 con il famigerato “ombrello avvelenato”.

Nel caso di Gundi, le coincidenze erano molte per non generare ipotesi alternative. Perché, poco dopo l’incidente, scomparse il “dossier Asparuhov” dagli archivi dei servizi segreti bulgari? Le ipotesi si moltiplicarono, le dietrologie si rafforzarono. Un guasto all’auto? Una manomissione? Un ordine dall’alto?

La polizia si rifiutò di concedere perizie indipendenti. Non ci sono perciò prove. Non ci sono documenti. Solo domande che, mezzo secolo dopo, non hanno ancora trovato risposta.

La notizia scosse l’intero paese. Ai funerali, oltre 550mila persone riempirono le strade di Sofia, un numero senza precedenti per una nazione di appena otto milioni di abitanti. Nemmeno i cortei funebri ufficiali che orchestrava il regime avevano mai raccolto una simile partecipazione.

Di fronte a quell’oceano di gente, il governo reagì con nervosismo: il ministro degli Interni Angel Solakov fu rimosso dall’incarico, colpevole di aver preso parte alle esequie e di non aver impedito quella spontanea, imponente manifestazione collettiva.

Quella folla aveva dimostrato qualcosa di inaccettabile per il potere: Gundi era più grande del Partito.

Oggi, il suo nome è ancora ovunque in Bulgaria. Lo stadio del Levski Sofia è intitolato a lui, statue e monumenti lo celebrano nelle piazze, e nel 1999 i tifosi lo votarono come miglior calciatore bulgaro del XX secolo, battendo persino Hristo Stoichkov. Nel 2014, è stato insignito postumo dell’Ordine di Stara Planina, la più alta onorificenza della Bulgaria.

La sua storia è arrivata anche sul grande schermo: a raccontarne le vicende ci ha pensato Gundi: Legend of Love, diretto da Dimitar Dimitrov. Nei panni di Asparuhov c’è Pavel Ivanov, mentre il ruolo di sua moglie Lita è interpretato da Aleksandra Svilenova. Il film, diventato rapidamente il film bulgaro con il maggior successo al botteghino, è il ritratto dell’uomo dietro la leggenda: il legame altalenante con Lita, la passione per il calcio, il peso delle pressioni di un regime che lo voleva inquadrato e che, invece, finì per renderlo eterno. Di seguito, il trailer ufficiale.

La grandezza di una figura storica non risiede nell’assenza di contraddizioni, ma nella loro capacità di riflettere le tensioni del tempo in cui è vissuta. Georgi “Gundi” Asparuhov non fu un eroe nel senso epico del termine, né un martire consapevole della sua sorte. Non si oppose apertamente al regime, ma nemmeno si lasciò mai del tutto assorbire dal suo abbraccio soffocante. Fu sorvegliato, pressato, e alla fine scese a compromessi con la Durzhavna Sigurnost, come tanti nella Bulgaria comunista. Fu idolatrato come uomo esemplare, eppure tradì la moglie più volte, come tanti uomini meno esemplari di lui.

Ma, nonostante tutto, rimase un’anomalia nel sistema. Il Partito non riuscì mai a piegarlo del tutto, a renderlo un simbolo addomesticato, un ingranaggio della propria macchina propagandistica. Il suo talento restò qualcosa che sfuggiva al controllo, il suo carisma qualcosa che non poteva essere incanalato. Se il regime avesse potuto, lo avrebbe costruito diversamente: più disciplinato, più malleabile, meno ingombrante nella sua spontaneità. Ma Gundi rimase Gundi, con le sue debolezze e le sue grandezze, con le sue scelte e le sue esitazioni.

Forse non fu un rivoluzionario, ma neppure un servo. Forse non sfidò il potere attraverso una denuncia inequivocabile, ma con il suo stesso modo di stare al mondo. Ed è proprio questa sua irriducibilità a renderlo ancora oggi una figura degna di essere raccontata. Perché i miti, quelli veri, non appartengono né alla propaganda né alla damnatio memoriae. Appartengono alle persone che sanno ricordarli ben oltre la loro vita; non certo perché siano stati perfetti, ma perché, nel loro essere umani, sono riusciti a restare liberi.


Profilo dell'autore

Valerio Evangelista
Valerio Evangelista
Dal suo Abruzzo ha ereditato la giusta unione tra indole marinara e spirito montanaro. Su Frontiere, di cui è co-fondatore, scrive di diritti umani e religioni.

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