Nestor Machno fu uno dei protagonisti più radicali e controversi della guerra civile russa. Contadino ucraino, anarchico autodidatta, comandante di un esercito di guerriglieri, tentò di costruire una società basata sull’autogestione e la proprietà collettiva della terra. Nel caos seguito alla rivoluzione del 1917, combatté contro i tedeschi e gli austriaci che volevano trasformare l’Ucraina in una colonia, contro i Bianchi che volevano restaurare l’Impero zarista e, infine, contro i bolscevichi di Lenin e Trotsky, che dopo averne sfruttato l’aiuto lo eliminarono con il pugno di ferro.
Ma Machno non fu solo un abile guerrigliero. Ideò una delle più avanzate esperienze di anarchismo pratico della storia: la Makhnovščina, un sistema di comuni agricole autogestite, senza padroni né governi. Sconfitto, fuggì attraverso l’Europa, morendo in esilio a Parigi nel 1934, dimenticato dalla storia ufficiale. Eppure, il suo esperimento rimane uno dei più straordinari tentativi di realizzare una società senza padroni.
Dalla miseria alla rivoluzione
L’Ucraina di fine Ottocento era una terra segnata da disuguaglianze profonde. Il 90% della popolazione viveva di agricoltura, con i contadini ucraini schiacciati da un sistema feudale che favoriva la nobiltà russa e i grandi latifondisti tedeschi mennoniti. I braccianti lavoravano in condizioni di semi-servitù, pagando tributi esorbitanti ai padroni e alla Chiesa ortodossa, che legittimava l’ordine sociale.
Nestor Machno nacque nel 1888 a Huljajpole, un piccolo villaggio dell’Ucraina meridionale. Figlio di contadini poveri, perse il padre da neonato e fu costretto a lavorare nei campi fin dall’infanzia. La sua istruzione fu scarsa, ma il contatto con i circoli anarchici locali gli permise di approfondire il pensiero di Michail Bakunin e Pëtr Kropotkin, oltre a studiare la storia della Comune di Parigi (Paul Avrich, Anarchist Portraits, 1988).
A soli diciassette anni prese parte ad azioni armate contro i proprietari terrieri e la polizia zarista. Arrestato nel 1908, fu condannato all’ergastolo e rinchiuso nel carcere di Butyrka, a Mosca. Qui conobbe Pëtr Aršinov, che lo avvicinò definitivamente all’anarchismo. Imparò a leggere e scrivere, studiò la teoria rivoluzionaria e, nel 1917, con la caduta dello zar, venne rilasciato.
Tornato a Huljajpole, trovò un’Ucraina devastata dalla guerra civile. La rivoluzione bolscevica aveva abolito l’Impero, ma al suo posto si era aperto un conflitto tra diverse fazioni: comunisti, nazionalisti ucraini, eserciti zaristi e potenze straniere si contendevano il territorio. Machno capì subito che nessuno di loro avrebbe portato la libertà ai contadini e decise di organizzare la propria rivoluzione.

Un’Ucraina senza padroni
Quando nel 1918 Nestor Machno tornò a Huljajpole, il suo villaggio natale, trovò una terra devastata dalla guerra e contadini ridotti alla fame, sotto il giogo delle truppe austro-tedesche e del governo fantoccio dell’etmano Pavlo Skoropads’kyj. Ma nel caos della guerra civile russa, vide un’opportunità: se i bolscevichi e i Bianchi combattevano per il controllo dell’Ucraina, lui e i suoi compagni avrebbero combattuto per qualcosa di più radicale. Non un nuovo Stato, ma una società anarchica basata su autogestione, mutualismo e abolizione della proprietà privata della terra.
Nel giro di pochi mesi, la Makhnovščina—letteralmente “movimento di Machno”—trasformò Huljajpole e le regioni circostanti in un laboratorio sociale anarchico. Non era solo un esercito ribelle, ma un’intera società alternativa, un tentativo di costruire un comunismo libertario su vasta scala. Ma come fu applicato nello specifico? In questa sezione approfondiremo alcuni degli elementi distintivi della Makhnovščina.
La terra ai contadini, le fabbriche agli operai
I grandi latifondi furono aboliti e la terra redistribuita tra chi la lavorava, senza padroni o intermediari. Le fabbriche, invece, furono organizzate in cooperative autogestite. Questo sistema fu ispirato dai principi del “comunismo anarchico” di Pëtr Kropotkin, il quale sosteneva che una società libera potesse prosperare attraverso la cooperazione volontaria, senza bisogno di uno Stato centrale (Pëtr Kropotkin, La conquista del pane, 1892).
La Makhnovščina tentò persino di creare una propria moneta, il cosiddetto rublo makhnovista. Il progetto nacque dall’idea di fornire alle comunità contadine uno strumento economico alternativo, indipendente dal controllo bolscevico. Tuttavia, non è chiaro se queste banconote siano mai state stampate in quantità significative o se si trattasse solo di un esperimento locale.
Secondo alcuni documenti dell’epoca, l’economia della Makhnovščina si basava principalmente sullo scambio diretto e il baratto, con prodotti agricoli distribuiti senza intermediari e le fabbriche autogestite che fornivano beni di consumo (Dr. Ray Ceresa, The Postage Stamps of Russia 1917—1923).
A differenza dei bolscevichi, che imponevano un sistema gerarchico controllato dal partito, la Makhnovščina funzionava attraverso un’ampia rete di soviet liberi: assemblee popolari in cui i contadini e gli operai prendevano decisioni collettivamente. Non c’era un governo centrale, né un’ideologia imposta dall’alto. “Non può esserci una rivoluzione che impone una nuova oppressione”, diceva Machno (Michael Malet, Nestor Makhno in the Russian Civil War, 1982).

Un’educazione rivoluzionaria
Le scuole furono riorganizzate secondo il modello dell’educazione libertaria sviluppato dall’anarchico spagnolo Francisco Ferrer. L’idea era che l’istruzione dovesse essere libera, senza dogmi né gerarchie, promuovendo il pensiero critico. Nei villaggi controllati dalla Makhnovščina, gli insegnanti non erano imposti da un governo, ma scelti dalle comunità stesse, e il curriculum includeva scienze, filosofia e storia delle rivoluzioni (Alexandre Skirda, Nestor Makhno: Anarchy’s Cossack, 2004).
La Makhnovščina cercò di costruire un’alternativa concreta al modello sovietico attraverso un sistema di assemblee popolari. Tra il 1919 e il 1920, Machno convocò tre “congressi dei contadini, operai e insorti”, aperti ai delegati delle comunità locali. Durante il terzo congresso, Machno e i suoi sostenitori rifiutarono esplicitamente ogni forma di dittatura di partito e proclamarono l’idea di una “federazione di comuni autogestite”, sul modello teorizzato da Bakunin (Arshinov, Storia del movimento makhnovista, 1923).
Per un breve periodo, tra ottobre e dicembre 1919, la Makhnovščina riuscì a controllare la città di Ekaterinoslav, trasformandola nella sua capitale rivoluzionaria. Qui, a differenza di quanto accadeva nei territori sovietici, non venne imposto alcun governo centrale: le infrastrutture cittadine furono riorganizzate attraverso consigli operai autogestiti.
Durante quei mesi, i makhnovisti si trovarono a governare un’area urbana in un modo senza precedenti:
- Le fabbriche furono gestite direttamente dagli operai, senza padroni né burocrati.
- L’amministrazione locale funzionava tramite assemblee, con una partecipazione diretta della popolazione.
- Non vennero create forze di polizia permanenti, perché la sicurezza era garantita dalle stesse comunità.
Lo storico M. I. Kubanin, nel suo studio sulla guerra civile (Makhnovshchina, 1927), definì questo esperimento “il tentativo più radicale di applicazione dell’anarchismo in un contesto urbano“.
Multiculturalità autogovernata
La Makhnovščina era un movimento profondamente eterogeneo, sia dal punto di vista etnico che ideologico. A differenza di altre formazioni sorte nel periodo della dissoluzione dell’Impero Russo, che spesso si ispiravano al nazionalismo emergente, il movimento anarchico di Nestor Machno si distingueva per la sua composizione multiculturale e antinazionalista. Secondo lo storico Peter Arshinov, circa il 90% dei membri erano ucraini, mentre il restante era composto da russi (6-8%), comunità greche e ebraiche, oltre a minoranze di armeni, bulgari, georgiani, tedeschi e serbi. Questo carattere misto rifletteva la natura sociale della Makhnovščina, che mirava a superare le divisioni nazionali imposte dagli Stati e a costruire una società fondata su relazioni socio-economiche autogestite dal basso.
Fin dal Secondo Congresso Regionale dei Contadini, Operai e Insorti del febbraio 1919, il movimento dichiarò il proprio rifiuto del nazionalismo, invitando “i lavoratori e i contadini di ogni terra e nazionalità” a unirsi nella rivoluzione sociale per abbattere lo Stato e il capitalismo. Nell’ottobre dello stesso anno, il Consiglio Militare Rivoluzionario della Makhnovščina ribadì questa posizione, condannando il dominio di una nazionalità sulle altre e promuovendo la creazione di soviet liberi, basati sulla collaborazione volontaria tra diversi gruppi etnici. Sebbene il movimento riconoscesse formalmente il diritto all’autodeterminazione dei popoli, rifiutava l’idea del nazionalismo come elemento divisivo, considerandolo una manifestazione borghese e reazionaria, e proponeva invece una “unione delle nazionalità” sotto il socialismo.
Questa apertura si rifletteva anche nell’atteggiamento verso le minoranze. La Makhnovščina si oppose fermamente all’antisemitismo, considerandolo un lascito tossico del regime zarista. Il Consiglio Militare Rivoluzionario dichiarò una vera e propria “guerra all’antisemitismo”, e i casi di violenza antiebraica erano molto meno frequenti nei territori controllati dagli insorti rispetto ad altre parti dell’Ucraina. Qualsiasi episodio di antisemitismo era severamente punito: in un caso documentato, i responsabili di un pogrom furono fucilati e le armi confiscate furono ridistribuite alle comunità ebraiche per la loro autodifesa. Non a caso, tra le figure più influenti della Makhnovščina vi erano ebrei anarchici di spicco, come Aron Baron, Mark Mratchny e Volin, membri chiave dell’organizzazione anarchica “Nabat”.
Se da un lato il movimento combatteva l’antisemitismo, dall’altro il sentimento anti-tedesco era più diffuso tra i ranghi dell’Armata Insurrezionale Ucraina. Le tensioni tra la popolazione contadina e le colonie mennonite di origine tedesca, esacerbate dall’occupazione austro-tedesca dell’Ucraina e dalle alleanze tra alcuni coloni tedeschi e i Bianchi, sfociarono in violente rappresaglie contro gli insediamenti mennoniti. Dopo la battaglia di Peregonovka, quando gli insorti occuparono ampie zone dell’Ucraina meridionale, molti coloni tedeschi furono perseguitati. La repressione raggiunse il culmine con il massacro di Eichenfeld nel 1919, in cui centinaia di mennoniti furono uccisi dagli insorti.
Anche sul piano linguistico, la Makhnovščina adottò una politica anti-centralista, opponendosi alle imposizioni linguistiche degli Stati che avevano occupato l’Ucraina durante il periodo rivoluzionario. Il governo dell’Hetmanato(1918) aveva favorito la lingua ucraina, mentre l’Armata Bianca di Denikin aveva imposto il russo, bandendo l’ucraino dalle scuole. In risposta a queste politiche, la Makhnovščina dichiarò che ogni comunità avrebbe scelto liberamente la lingua di insegnamento, promuovendo così l’uso dell’ucraino nella maggior parte dei villaggi. Tuttavia, il russo rimase la lingua predominante negli scritti anarchici e nelle pubblicazioni del movimento, fino a quando un gruppo di intellettuali ucraini, guidati da Halyna Kuzmenko, spinse per un maggiore uso dell’ucraino nella propaganda e nell’istruzione.
Questa composizione multiculturale e decentralizzata fece della Makhnovščina un esperimento unico nell’Ucraina post-imperiale. A differenza degli Stati nazionali emergenti, il movimento di Machno non si basava su un’identità etnica o linguistica comune, ma su principi di autogestione, cooperazione e solidarietà tra le classi oppresse, cercando di costruire una società in cui le divisioni nazionali fossero superate a favore di una rivoluzione sociale autenticamente internazionale.

Un esercito che rifiutava la disciplina militare
Machno si rese presto conto che un’utopia libertaria non sarebbe sopravvissuta senza un esercito che la difendesse. Ma anche il suo esercito doveva rispecchiare gli ideali della rivoluzione: non c’erano gerarchie rigide né ordini imposti dall’alto.
- Gli ufficiali erano eletti dai soldati, senza distinzione di classe o esperienza militare.
- I comandi erano collegiali, senza un unico leader supremo.
- La disciplina era autodeterminata: chi non voleva combattere poteva andarsene.
Nonostante questa apparente anarchia, la Makhnovščina si dimostrò un’unità di combattimento formidabile, grazie alla sua mobilità e alla conoscenza del territorio. Paul Avrich sottolinea come Machno combinasse perfettamente i principi anarchici con l’efficacia militare, rendendo il suo esercito una delle forze più imprevedibili e temute della guerra civile (Anarchist Portraits, 1988).
Una cultura rivoluzionaria: arte, musica e propaganda
La Makhnovščina era anche fonte di cultura e identità collettiva. Si sviluppò una vera e propria estetica anarchica, con canti popolari, manifesti rivoluzionari e teatro itinerante. Le bandiere nere del movimento, simbolo dell’anarchia, erano spesso accompagnate da slogan come “La libertà non si regala: si prende!” e “Nessun padrone, nessun servo: solo compagni!“
La propaganda visiva giocò un ruolo chiave: manifesti con incisioni xilografiche raffiguravano contadini che spezzavano le catene dello zarismo e del bolscevismo, mentre murales venivano dipinti nei villaggi per diffondere l’ideale anarchico.
Il cinema sovietico, più tardi, avrebbe cercato di ridicolizzare il movimento di Machno, come nel film “Arsenale” di Dovženko (1929), in cui gli anarchici vengono rappresentati come caotici e incapaci di assumersi responsabilità. Ma testimonianze dirette dell’epoca, come quelle raccolte nel 1947 da Vsevolod Mikhailovich Eikhenbaum (conosciuto come “Volin”) ne “La rivoluzione sconosciuta“, raccontano una realtà ben diversa: una società imperfetta, certo, ma genuinamente alternativa a qualsiasi forma di autoritarismo.

Il sogno infranto: il tradimento bolscevico
La guerra civile russa non era solo un conflitto tra rossi e bianchi: in Ucraina, diverse fazioni rivoluzionarie lottavano per il controllo del territorio. Tra queste, i nazionalisti ucraini di Simon Petljura e i contadini insorti dell’Armata Verde.
Machno rifiutò ogni alleanza con Petljura, vedendo nel suo movimento una manifestazione del nazionalismo borghese e una minaccia alla rivoluzione sociale. Nel dicembre 1918, rispose a un’offerta di collaborazione con parole inequivocabili: “La Petljurovščina è una farsa reazionaria che tenta di distrarre i contadini dalla vera rivoluzione” (Arshinov, Storia del movimento makhnovista, 1923).
Con l’Armata Verde, invece, i rapporti furono più ambigui. Composta da contadini insorti che combattevano sia contro i Bianchi che contro i Bolscevichi, questa forza paramilitare condivideva alcuni ideali con la Makhnovščina. In alcune regioni, specialmente nelle foreste della Poltava, vi furono operazioni congiunte contro le truppe sovietiche nel 1921 (Shubin, Il movimento makhnovista: idee e uomini, 1989).
È però innegabile che le due fazioni principali che si contendevano il futuro dell’Ucraina erano da un lato, l’Armata Rossa dei bolscevichi, che puntava a imporre il comunismo di Stato, e dall’altro i resti dell’Armata Bianca del generale Pëtr Wrangel, decisi a restaurare l’Impero zarista.
Per un breve periodo, Machno e i bolscevichi si allearono (di nuovo). Avevano già collaborato in passato contro Denikin e i suoi Bianchi, ma il patto era stato fragile e segnato dalla diffidenza. Ora, con Wrangel che avanzava dalla Crimea e minacciava Mosca, Lenin e Trotsky capirono che avevano ancora bisogno degli anarchici.
Nel 1920, Lenin offrì a Machno un accordo: la Makhnovščina avrebbe combattuto al fianco dell’Armata Rossa per distruggere le ultime roccaforti zariste in Ucraina. In cambio, i bolscevichi avrebbero garantito ai contadini anarchici il diritto all’autogestione e il controllo delle loro comunità (Michael Malet, Nestor Makhno in the Russian Civil War, 1982).
Machno accettò. Non si fidava di Lenin, ma vedeva nei Bianchi il nemico più immediato. Inoltre, sperava che la rivoluzione sociale avrebbe potuto continuare in parallelo a quella bolscevica, evitando una nuova dittatura. Per settimane, la Makhnovščina combatté spalla a spalla con l’Armata Rossa, contribuendo in modo decisivo alla caduta di Wrangel in Crimea.
Ma non appena i Bianchi furono sconfitti, il patto si rivelò una trappola.
La repressione: sterminare gli anarchici
Mentre l’Esercito Insurrezionale d’Ucraina combatteva in Crimea contro i resti dell’Armata Bianca, a centinaia di chilometri di distanza si stava già preparando la sua fine. Lev Trotsky, che da tempo diffidava degli anarchici, aveva dato l’ordine di eliminarli non appena i Bianchi fossero stati sconfitti. La Makhnovščina, con il suo modello basato su comuni agricole autogestite e soviet liberi, era una minaccia ideologica per il nascente Stato sovietico. Se fosse sopravvissuta, avrebbe potuto diventare un’alternativa concreta al modello di Lenin, dimostrando che il comunismo non aveva bisogno di un governo centralizzato per funzionare.
Per i bolscevichi, la rivoluzione doveva avere una sola direzione e un solo centro di comando. Già nel 1919, Trotsky aveva etichettato Machno come un “bandito controrivoluzionario”, un capo ribelle che sfuggiva al controllo del Partito e che quindi doveva essere annientato (Lev Trotsky, Terrorism and Communism, 1920). I rapporti con Mosca si erano deteriorati da tempo, ma finché l’Armata Bianca di Wrangel rappresentava una minaccia, Lenin aveva ritenuto utile sfruttare i combattenti anarchici. Ora che il pericolo zarista era stato eliminato, non c’era più alcuna ragione per tollerare una regione indipendente governata dai principi del comunismo libertario.
Nel novembre del 1920, mentre gran parte delle forze makhnoviste era ancora impegnata in Crimea, l’Armata Rossa attaccò alle loro spalle. Il piano era stato studiato nei minimi dettagli: la Makhnovščina sarebbe stata distrutta in pochi giorni, prima ancora che i suoi leader potessero reagire.
Quando i bolscevichi entrarono a Huljajpole, la città simbolo della rivoluzione anarchica, non trovarono una resistenza organizzata. Senza la protezione dell’esercito, la popolazione non poté fare altro che subire l’occupazione. Nel giro di poche ore, gli attivisti anarchici furono arrestati e fucilati, mentre le assemblee popolari venivano sciolte con la forza. Le comunità contadine che avevano vissuto sotto l’autogestione vennero smantellate e le terre confiscate dallo Stato sovietico.

Ma Huljajpole non fu che l’inizio. Il piano di Trotsky prevedeva una repressione su larga scala, un’operazione sistematica per cancellare ogni traccia della Makhnovščina dall’Ucraina.
Le operazioni di “pacificazione” si estesero a tutto il territorio controllato dagli anarchici. Interi villaggi furono rasi al suolo, con la popolazione civile accusata di complicità con il movimento insurrezionale. Nei centri urbani, migliaia di anarchici e simpatizzanti vennero arrestati e deportati nei campi di lavoro in Siberia, un primo assaggio di quello che sarebbe diventato il sistema dei gulag. Le scuole libertarie, ispirate al modello educativo di Francisco Ferrer, furono chiuse e sostituite da istituti controllati dal Partito Comunista. I soviet liberi, organismi basati sulla democrazia diretta e sull’autogestione operaia, furono sciolti e rimpiazzati da funzionari di partito nominati da Mosca.
Secondo lo storico Alexandre Skirda, tra il 1920 e il 1921 oltre 200.000 anarchici, contadini e operai furono giustiziati o morirono nei campi di prigionia (Nestor Makhno: Anarchy’s Cossack, 2004).
Mentre l’Armata Rossa annientava la Makhnovščina, la propaganda bolscevica costruiva la sua narrazione ufficiale. Machno e i suoi seguaci furono dipinti come banditi senza scrupoli, traditori della rivoluzione, elementi caotici che minacciavano la stabilità del nuovo Stato socialista. Il cinema sovietico contribuì a questa distorsione dei fatti: il film Arsenal (1929) di Aleksandr Dovženko, per esempio, rappresentava gli anarchici come opportunisti incapaci di governare, un’orda confusa e senza direzione.
Questa riscrittura della storia si consolidò nei decenni successivi. Nei manuali ufficiali dell’Unione Sovietica, Machno venne relegato al ruolo di avventuriero irresponsabile, quando non addirittura di complice della reazione bianca. La sua esperienza fu ridotta a un dettaglio minore della guerra civile, un episodio marginale da dimenticare. Parlare di lui, negli anni del regime staliniano, diventò pericoloso.
La repressione della Makhnovščina non fu solo un’operazione militare, ma un preciso atto politico. Lenin e Trotsky non si limitarono a distruggere un esercito ribelle: vollero cancellare l’idea stessa che un’alternativa al loro modello potesse esistere. L’Ucraina anarchica era stata un esperimento di comunismo senza Stato, un laboratorio rivoluzionario che dimostrava che la collettivizzazione non aveva bisogno di un partito guida. Era una realtà concreta, e proprio per questo rappresentava una minaccia più grande di qualsiasi esercito zarista.
Se la repressione dei menscevichi e l’annientamento dei marinai di Kronstadt avevano eliminato oppositori interni al socialismo sovietico, la distruzione della Makhnovščina fu qualcosa di più profondo: servì a impedire che l’Europa orientale potesse anche solo immaginare un’alternativa al marxismo-leninismo. La rivoluzione aveva trionfato, ma a prezzo dell’eliminazione di ogni altra visione del socialismo.
La fuga disperata di Machno
Con la Makhnovščina annientata e i suoi uomini massacrati, per Nestor Machno iniziò un’odissea che lo avrebbe portato attraverso un’Europa che non aveva posto per lui. Ferito, senza esercito e braccato dall’Armata Rossa, trascorse mesi in fuga, muovendosi nell’ombra per evitare la cattura. La stessa rete di contadini e ribelli che per anni aveva sostenuto la rivoluzione libertaria divenne il suo ultimo rifugio: nascosto in capanne isolate, accolto da famiglie che ancora lo consideravano un eroe, sopravvisse mentre il suo mondo andava in pezzi.
Nel dicembre del 1920, mentre l’Ucraina veniva pacificata nel sangue dalle truppe sovietiche, Machno tentò di attraversare i Carpazi. Il gelo invernale e la fame rendevano la fuga un’impresa disperata, ma il pericolo più grande erano le spie bolsceviche, che lo cercavano ovunque. Ferito a una gamba, si muoveva con difficoltà. In alcune zone ancora ribollenti di ribellione, come nel bacino del Dnepr, riuscì a trovare protezione tra i pochi anarchici sopravvissuti, che lo aiutarono a lasciare il paese.
Nel 1921, attraversò il confine con la Romania, convinto di poter trovare rifugio tra le comunità anarchiche dell’Europa orientale. Ma il nuovo equilibrio politico del dopoguerra lo rendeva indesiderato ovunque andasse. I governi della regione, terrorizzati dalla possibilità che una figura come Machno potesse riaccendere i focolai rivoluzionari, rifiutarono di dargli asilo. In Polonia, dove sperava di ottenere protezione grazie al precedente sostegno agli insorti contro i bolscevichi, fu imprigionato per mesi con l’accusa di essere un agente sovietico, in un paradosso crudele che ben illustrava la confusione politica dell’epoca (Michael Malet, Nestor Makhno in the Russian Civil War, 1982).
Nel 1922, dopo essere stato rilasciato, tentò la via della Germania, raggiungendo Berlino, dove provò a ricostruire il movimento anarchico in esilio. Qui entrò in contatto con Rudolf Rocker, storico teorico anarchico tedesco, e con esuli russi che avevano condiviso la sua lotta. Ma il clima stava cambiando: l’Europa, devastata dalla guerra e con un crescente timore per i movimenti sovversivi, non aveva spazio per Machno. Le sue idee erano considerate pericolose tanto dai governi conservatori quanto dai comunisti fedeli a Mosca, che lo diffamavano come un criminale e un “bandito”.
Ovunque andasse, era un uomo senza patria e senza alleati. I governi occidentali lo temevano, vedendo in lui un potenziale detonatore di nuove rivolte, mentre la sinistra marxista lo considerava ormai un relitto del passato, un fastidioso ricordo di un’alternativa al leninismo che non doveva sopravvivere.
Quando nel 1925 arrivò in Francia, sperava di poter finalmente trovare un minimo di stabilità. Ma la sua condizione non migliorò: povero, malato e isolato, trovò solo lavori saltuari come decoratore e imbianchino. Passò gli ultimi anni cercando di scrivere la storia della Makhnovščina, collaborando con esuli anarchici francesi e spagnoli, ma il suo passato lo condannava a una vita ai margini. La polizia lo teneva sotto sorveglianza, considerandolo un elemento sovversivo, mentre i comunisti francesi, fedeli alla linea di Mosca, lo boicottavano attivamente.

La morte in esilio e l’eredità di Machno
Nel 1934, a soli 45 anni, Machno morì a Parigi, consumato dalla tubercolosi e dalla miseria. L’uomo che aveva guidato decine di migliaia di combattenti, che aveva sognato un’Ucraina senza padroni, finì i suoi giorni in un letto d’ospedale, dimenticato da quasi tutti. Al suo funerale, tenutosi al cimitero di Père Lachaise, parteciparono pochi compagni anarchici, ultimi testimoni di un’epoca ormai tramontata.
Lo storico Peter Marshall, nel suo studio sull’anarchismo, ha definito la vicenda di Machno uno dei più ambiziosi e concreti tentativi di costruire una società libertaria su larga scala, ma anche un esempio della difficoltà di opporsi a potenze più centralizzate e organizzate, come l’apparato bolscevico (Demanding the Impossible: A History of Anarchism, 1992). L’esperienza della Makhnovščina dimostrò che un’alternativa esisteva, ma che senza una solida struttura difensiva e una rete di alleanze durature era destinata a soccombere.
Con la morte di Nestor Machno si spense l’ultimo grande tentativo di creare una società anarchica su larga scala in Europa orientale. Il sogno della Makhnovščina, con le sue comunità autogestite e i suoi soviet liberi, venne rapidamente cancellato dalla storia ufficiale sovietica, che lo dipinse come un semplice “bandito” per giustificare la repressione del movimento. Solo dopo l’indipendenza dell’Ucraina, nel 1991, il dibattito storico ha iniziato a riaprirsi, permettendo una rilettura più sfumata del suo ruolo.
La sua eredità, tuttavia, rimane complessa e dibattuta. Alcuni storici vedono nella Makhnovščina un esperimento radicale, una concreta alternativa al potere bolscevico basata sull’autogestione contadina e operaia. Nei circoli anarchici e libertari, Machno è celebrato come un simbolo di resistenza all’autoritarismo e al centralismo.
Nel discorso storico nazionale ucraino, il suo ruolo resta marginale rispetto ad altre figure più direttamente legate alla lotta per l’indipendenza, e nei libri di storia il suo nome appare raramente, spesso relegato a una nota a margine della guerra civile russa. Tuttavia, nella regione di Zaporižžja, in particolare a Huljajpole, il villaggio dove tutto ebbe inizio, la sua memoria è ancora viva. Qui gli sono stati dedicati monumenti e iniziative culturali, segno che il ricordo del movimento makhnovista non è del tutto svanito.
Il suo esperimento non è stato dimenticato. I movimenti anarchici continuano a studiarlo come una delle più ambiziose realizzazioni di autogestione rivoluzionaria. E ancora oggi, il suo sogno di una società senza padroni continua a ispirare chi immagina un’alternativa ai modelli statali e gerarchici. E proprio per questo, merita ancora di essere ricordato.

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