Il genocidio degli armeni e il negazionismo secondo Antonia Arslan

Con la sua Masseria delle allodole ha fatto conoscere al mondo intero, tramite la storia della sua famiglia, la crudezza del più dimenticato tra i genocidi. Antonia Arslan, professoressa di Letteratura italiana all’Università di Padova, una vita dedicata allo studio e alla memoria del massacro degli armeni, ci racconta cosa spinse nel 1915 il governo dei Giovani Turchi a intraprendere la strada della cancellazione di un’intera minoranza e perché ancora oggi quella del genocidio è una storia “scomoda”.

Professoressa Arslan, analizziamo insieme alcuni dei punti attraverso i quali i negazionisti sostengono che quanto accaduto nel 1915 agli armeni di Turchia non è considerabile genocidio. Gli storici turchi affermano, ad esempio, che non esiste alcun documento governativo in cui è evidente una strategia di sterminio.

Nessun perpetratore di genocidi avverte delle sue intenzioni. Nessuno lo fa. È una giustificazione “infantile”, pretestuosa. Ci sono dei documenti in cui leggono dei riferimenti, si parla di “aggiustare le cose”, un concetto che ricorda Hitler e i gerarchi nazisti. Inoltre ci sono i taccuini di Taalat Pascia, tradotti anche in inglese. Sono dei quaderni privati, che ha lasciato alla moglie, nei quale sono riportati esattamente i dati sul numero di armeni rimasti nel territorio.

Sulla determinazione del genocidio ci si batte anche su quante persone hanno effettivamente perso la vita, una vera e propria guerra dei numeri tra gli storici armeni e quelli turchi.

Assurdo. Un genocidio può avvenire anche con la morte di 300mila persone. Era uno sterminio programmato. Per altro, a proposito dei numeri, nel libro di Jean Varoujean Gureghian, probabilmente il volume più documentato sul genocidio, è stato fatto un lavoro di dati incrociati, seguendo le testimonianze di sopravvissuti e i documenti del patriarcato di Istanbul. Ad ogni modo, questa opposizione è inevitabilmente di retroguardia. Una nazione come la Turchia ha le disposizioni economiche per bloccare la conoscenza dei dati. Ma questi dati sono reali. E concordano il 98% degli storici.

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Si parla anche di anacronismo semantico, considerando che il termine è stato coniato da Lemkin nel 1944.

Ci si appiglia a tutto. È patetico. Fino a quando è un gruppo minimo di persone che nega la Shoah, allora è facilmente circoscrivibile, si capisce che si tratta di deliri singoli. Quando invece ad affermarlo è una grande nazione si entra in un discorso di doppia verità. Nessun turco dirà apertamente cosa è successo nel 1915, però nel chiuso della sua casa ascolterà le nonne, e loro gli racconteranno la verità.

Qual è l’approccio della popolazione turca alla questione? Come si sviluppa la consapevolezza?

È un approccio mascherato. Il turco medio ha un gran senso nazionalistico. “Perché parlare con te straniero di queste cose?” Questo è il senso del modo di dire “La storia agli storici”. Da un lato i turchi si vergognano. L’anno scorso negli Stati Uniti ho parlato con una ragazza per metà turca e per l’altra americana, nata a Cipro. È cresciuta con l’idea che di questo argomento non si dovesse parlare. Poi all’università ha capito che doveva conoscere la storia, voleva passarci “attraverso”, come si fa in altri posti in cui è stato versato così tanto sangue, tipo Germania o Ruanda. Un’altra volta in una università un giovane turco ha scritto una lettera di scuse al popolo armeno. Nella platea c’era una ragazza, anche lei turca, letteralmente in lacrime, che era rimasta sconcertata perché non aveva mai ascoltato prima i particolari dello sterminio. Del resto i libri scolastici turchi sono libri di stato e nessun professore può insegnare cose non presenti nel programma.

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Nei miei recenti viaggi in Turchia ho avuto modo di parlare con giovani turchi, tra i quali vige un nazionalismo imperante. Alcuni evocano persino Hitler. La cosa che colpisce è che sul genocidio ci sono opinioni condivise anche tra giovani filo-governativi e pari età più vicini allo spirito liberal europeo. Non cedono: per loro non si è trattato di genocidio.

È triste. Ci sono fermenti molto importanti in Turchia, va detto, ma questa è una netta presa di coscienza.

Nel 2005 Erdogan costituì una commissione internazionale che avrebbe dovuto prendere parte ad un dibattito a suo avviso “costruttivo” sugli eventi del ’15. Il governo armeno rifiutò di partecipare. Quale idea si è fatta a tal proposito?

Non sottovalutiamo la grande diplomazia turca. Tutti gli ambasciatori conoscono almeno quattro lingue, hanno scuole eccellenti e una grande preparazione teorica. Hanno l’obbligo di cercare di tenere sotto silenzio questa questione. Ci sono riusciti per 70 anni.

In un documento del Ministero degli interni c’è un decalogo sul come comportarsi nei confronti degli altri diplomatici armeni in giro nel mondo.

Pazzesco. Loro sono stati sorpresi e terrorizzati dal come la questione è riemersa, anche a causa del movimento spontaneo delle terze e quarte generazioni di armeni. Hanno paura del paragone con la Shoah. Sta uscendo un libro su quanto dissero internati di Auschwitz che assistettero al genocidio del ’15. Il paragone è impressionante. C’è il libro di Morgenthau, l’allora ambasciatore degli Stati Uniti in Turchia, che è documento importantissimo. Morghenthau vide quello che stava accadendo e fece di tutto per salvare il popolo armeno. Una volta tornato in America creò il Fondo degli Stati Uniti per il Medio Oriente. Anche quella è da considerarsi una prova: per gli orfanotrofi armeni, costituiti da bambini sopravvissuti miracolosamente al massacro, gli Stati Uniti hanno versato 20 milioni di dollari all’anno fino al ’20. Ciò vuol dire che tutto il mondo sapeva cosa fosse accaduto. Il console tedesco di Aleppo scrisse alla sua ambasciata cose terribili, ora pubblicate. Potrei andare avanti per giorni. All’inizio il riemergere è stato lento, poi tumultuoso: si aprivano gli archivi. E i turchi hanno fatto di tutto per non far riemergere la verità: hanno fatto saltare la carriera ad una giovane studiosa, che nel Dipartimento di stato a Washington scoprì un rapporto scritto nel ’15 da un diplomatico americano con delle fotografie terrificanti. Il rapporto si chiamava emblematicamente “La provincia mattatoio”. Questa studiosa lo scoprì venti anni fa e decise di pubblicarlo. L’ambasciata turca negli Usa si scatenò, cercando in tutti i modi di rovinarle la carriera. L’ordine era chiaro: bloccare ovunque i discorsi sul 1915. Ma nel frattempo gli armeni avevano iniziato a svegliarsi.

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Questa è una delle storie presenti su Ripartire, il libro di Frontiere News – in collaborazione con Amnesty – disponibile su carta


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