“Sbagliando non si impara”, crescere con i successi dell’altro

«Prima di andare a letto beve un grappino (i distillati giunsero in Europa tramite i farmacisti arabi) e, pensando con orrore a quanto gli immigrati possano inquinare la sua cultura, ringrazia una divinità ebraica di averlo fatto al cento per cento padano»

di Alessandro Pagano Dritto

 Per cogliere un primo aspetto singolare, ma decisivo, dell’ultimo libro di Michele Dotti (educatore e blogger del Fatto Quotidiano), Sbagliando non s’impara. È grazie ai successi che cambia il mondo e cambiamo anche noi (EMI, Bologna, 2013, pp. 68, 4.50 euro), basta scorrere l’elenco finale dei titoli dei suoi quindici paragrafi: si tratta, nella maggior parte dei casi, di proverbi mutati di quanto basta per stravolgerne il senso. Così «sbagliando s’impara» diventa, sin dal titolo, «sbagliando non s’impara», «chi fa da sé fa per tre» cambia in «chi fa da sé fa per », «mogli e buoi dai paesi tuoi» è ora «mogli e buoi dai paesi suoi» e via dicendo.

Il cambiamento è tanto più importante se si pensa quale sia la funzione dei proverbi: trasmettere un senso del mondo e delle sue cose, del vivere, che sia condiviso da un’intera comunità. Viene il dubbio, allora, che questo piccolo libro si ponga un compito di una certa rilevanza, una promessa non certo di poco conto: quella di suggerire, pur con la leggera semplicità del suo stile, con la sua esilità, di cambiare prospettiva, di assumere sul mondo e sulla vita un nuovo punto di vista, diverso da quello fino a oggi suggeritoci dalla tradizione.

Dotti (co-autore di Ripartire, l’esperimento di editoria sociale di Frontiere News), lo dice lui stesso, è un educatore e sull’educazione gioca quindi tutte le sue carte.

Dal titolo è subito il rapporto con l’errore, con lo sbaglio, la prima cosa che l’educatore suggerisce di cambiare. Innanzi tutto distinguendo proprio sbaglio ed errore. Se lo sbaglio è sostanzialmente il prendere una cosa per un’altra, l’errore è la ricerca graduale di una propria strada; contiene infatti la radice del verbo latino errare, ovvero «andare senza meta precisa». Tra i due, pare di intuire, c’è la differenza che passa tra un vicolo cieco e un labirinto: dal labirinto si può uscire, anche se a fatica cercando la strada, al vicolo cieco non resta che tornare indietro e ricominciare da capo. Dallo sbaglio, dal vicolo cieco, quindi non si impara nulla, al contrario di quanto dice il proverbio; l’errore invece è fondamentale. Tra le tante citazioni di cui il libro è cosparso, una risalta bene questo concetto. Thomas Edison, l’inventore della lampadina, così disse del suo migliaio di tentativi infruttuosi fatti prima del successo: «Non ho sbagliato più di mille volte, ho sperimentato più di mille modi diversi per costruire una lampadina che non funziona» (p. 10)

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E in tutto questo pare proprio che l’individuo e la sua personalità siano il centro di tutto. Lo si capisce dal concetto di serendipità spiegato nell’ultimo capitolo del libro. Il termine deriva da una fiaba di Cristoforo Armeno (XVI secolo), I tre principi di Serendippo, e fu utilizzato per la prima volta nel 1754 da Horace Walpole (1717-1797): lo scrittore inglese utilizzò il nome contenuto nel titolo per indicare il comportamento tipico dei tre principi del racconto, cioè mettere a proprio vantaggio, grazie all’ingegno, varie casualità che il fato mette sul cammino. Ritornando alla metafora del labirinto che si è qui voluta utilizzare, è chiaro che chi vi si muove deve camminare entro confini ben precisi stabiliti dalle siepi e indipendenti quindi dalla sua volontà; ma memorizzando in qualche modo le strade errate intraprese, impegnando cioè se stesso, riuscirà, proprio grazie a quegli errori prima compiuti e alla propria capacità di rielaborarli, a uscirne. Insomma, un successo da cui imparare è sempre lo scontro tra una volontà propria e una casualità esterna, che dopo vari tentativi errati viene messo a frutto e coronato da successo.

Se l’errore lo commette, è vero, il singolo, non per questo è però a vantaggio del solo singolo; anzi, sottolinea Dotti, è l’intera comunità a trarne vantaggio. La scienza infatti – dal latino scio, «so» – è cumulativa, riparte cioè dai traguardi altrui senza ogni volta tornare indietro ai suoi primi stadi: una volta che la lampadina è inventata, è inventata e non c’è bisogno di ripercorrere tutta la strada di errori a suo tempo percorsa da Edison. Si può piuttosto, e si deve, ripartire dalla lampadina e cercare, sempre errando, qualcosa di nuovo. Ma questo qualcosa di nuovo difficilmente verrà trovato, se non ci si sforza di uscire dal proprio sentiero, di cercare, invece di trovare, qualcosa di diverso e originale. Per fare tutto questo bisogna saper cogliere quanto prima è già stato fatto, conoscere le diverse opzioni, dare insomma valore alla parola diversità. Ognuno è diverso dall’altro e uno dei proverbi che Dotti storpia è proprio «tutti sono importanti, nessuno è indispensabile»: «tutti sono indispensabili, qualcuno è importante», riscrive l’autore. Tutti, cioè, hanno una propria singolarità e una propria individualità, il proprio singolare e unico punto di vista, ma qualcuno riesce ad andare oltre, a portare nel discorso qualcosa di originale e allora questo qualcuno è importante, cioè importa, porta dentro quel qualcosa in più; insomma fa progredire tutta la comunità. Guardiamo l’etimologia delle parole, guardiamo la cucina, esorta Dotti, e vedremo testimonianze secolari, millenarie, di contatti e importazioni avvenuti nel modo detto fino ad ora: qualcosa di diverso è stato a un certo punto ritenuto originale, valido, e importato nel suo contesto da qualcuno di importante, cioè che in-portava. E in questo modo si è progrediti, tutta la comunità è progredita. Una curiosa testimonianza linguistica di tutto questo, che si impara leggendo il libro, è l’espressione araba shah mat, diventata in italiano «scacco matto»: significa «il re è morto». E così la lingua e i giochi del mondo non arabo importavano per sempre qualcosa che fino a quel momento era stato alieno alla loro cultura: gli scacchi.

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Ci sarebbero altre sfumature degne di nota che condiscono qua e là il pensiero che Michele Dotti ha voluto affidare a questo suo agile libro: non ultima, l’importanza del piacere nell’apprendere e il conseguente proverbio «prima il piacere e poi il dovere» trasformato in «prima il piacere, insieme al dovere». Ma insomma, sembra che quella fatta fin qui possa essere una sintesi sufficiente per il modesto compito illustrativo di una recensione. Al lettore il piacere di scoprire il resto.

Sarebbe però un peccato non chiudere con una simpatica parafrasi che dà, sempre in modo leggero e ironico, il senso di quanto scritto e della sua importanza. Facendo il verso a un passo dell’antropologo Ralph Linton (1893-1953), scrive infatti Dotti: «Prima di andare a letto beve un grappino (i distillati giunsero in Europa tramite i farmacisti arabi) e, pensando con orrore a quanto gli immigrati possano inquinare la sua cultura, ringrazia una divinità ebraica di averlo fatto al cento per cento padano» (p. 33).

 


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