Tante sono le storie, i volti, le speranze e i dolori che ho incontrato nel mio viaggio umanitario a Lampedusa, condividerle tutte sarebbe impossibile. C’è chi mi ha chiesto l’anonimato, perciò qualcuna di queste storie avrà un personaggio con un nome di fantasia.
Appena sbarcati si avvicinano Mohamed e Raoudh, una giovane coppia tunisina. Sono giunti a Lampedusa per cercare il fratello di lei, Riadh, partito dalla città di Sfax il 29 marzo. Da allora non hanno avuto più sue notizie. Mohamed si sfoga con me, mi dice che è infastidito dall’atteggiamento di alcuni suoi connazionali: “Le rivolte ingiustificate, il rifiutare il cibo offerto e le sproporzionate manifestazioni del loro disagio non sono il modo più corretto per ringraziare l’ospitalità dei tanti italiani che stanno mostrando accoglienza. Molti di loro si dichiarano musulmani integri, ma non c’è peccato più grande davanti a Dio del vivere secondo la Sua legge durante il giorno e secondo le proprie voglie di notte. L’ipocrisia e l’incoerenza sono i peccati più gravi”. Una volta ha provato a imbarcarsi da clandestino. Lo hanno lasciato per una settimana rinchiuso in una cantina insieme agli altri. Poi lo hanno liberato, dicendo di presentarsi la notte stessa al mare, per prendere al volo il barcone (fermarsi avrebbe comportato farsi notare dalle forze navali tunisine). C’era una forte calca; senza neanche sapere come, stava annegando in quel pantano di fango. Credeva di non farcela. Una volta salvato si è promesso di non tentare più l’ingresso da clandestino. Ora vive a Mazara del Vallo, è responsabile di un centro di recupero per giovani tossicodipendenti ed è titolare di un’azienda agricola.
Lanouar, un altro tunisino, è in Italia da 23 anni, ormai ha anche preso la cittadinanza. Anche lui si dice contrariato per quanto emerge dai telegiornali: “Io ringrazio il popolo italiano per l’amore che sta mostrando al mio popolo, per la calorosa accoglienza che gli sta riservando. Purtroppo anche fra i tunisini c’è chi non sa apprezzare quanto riceve, non meritando assolutamente il bene che il popolo italiano sta offrendo”.
All’aeroporto sto distribuendo del cibo, quando sento una mano toccarmi la spalla: “Ti prego, posso usare il tuo telefono per chiamare mio fratello in Somalia? Voglio dirgli che sto bene, che non sono morta in mare. Che ho una vita davanti a me, ora ho un futuro”. Le accenno un sorriso e le do il mio telefono. Ho 57 centesimi di credito, spero che bastino. Lei compone con ansia il numero e, dopo tre squilli, urla: “Sono Ghaliya, sono viva! Chiamami su questo numero, sono viva!” Il tempo a disposizione per parlare è veramente poco, non tutti riescono a telefonare al proprio paese. Diversi mi danno il numero dei genitori, altri mi scrivono il loro indirizzo e-mail. Su quel pezzo di carta risiede la speranza di tanti genitori, sparsi per l’Africa.
Rasha mi scruta da lontano. Il suo velo lascia visibile solo gli occhi e parte del viso. Io le sorrido e mi avvicino a lei. “Hai bisogno del telefono?” Lei annuisce. Il telefono squilla ma non risponde nessuno. I suoi occhi mi lasciano senza parole, ci guardiamo senza dire nulla. All’improvviso io le sorrido e le chiedo da dove viene. “Io sono somala. Ho 21 anni. Lavoravo in Libia, a Misurata. Ero cameriera, mi trovavo bene. Sono scappata insieme a mio fratello e a mia sorella perché la vita si era fatta terribile. Ho viaggiato due giorni per arrivare a Lampedusa”. Mi chiede di non pubblicare il suo nome vero, foto, video, audio o altro che possa palesare la sua identità, ha paura di ripercussioni sulla sua famiglia a Misurata. “Ho paura che qualcuno li uccida; nessuno vuole che all’estero si sappia com’è la Libia durante la guerra. Siamo scappati perché Gheddafi si è comportato come un uomo malvagio, ma abbiamo paura che anche i ribelli non siano così bravi. Voglio vivere in un posto dove non ci sia Gheddafi, dove non ci siano ribelli. Voglio vivere in un posto dove si possa respirare libertà”.
Feisal ha appena raggiunto la terraferma. Si accende una sigaretta dopo l’altra. Gli chiedo perché fuma così tanto. Mi dice che ha paura. Ha solo 17 anni, non sa cosa l’aspetta in Italia. Gli offro del cibo e gli chiedo perché è scappato dalla Tunisia. “Tutti dicevano che qui c’era lavoro, che i soldi te li buttavano dalla finestra con la pala. Ecco perché sono venuto.” Gli dico che non è esattamente così, ma che spero che lui si possa trovare bene ugualmente nel mio paese, anche se probabilmente verrà rimpatriato. Lui mi sorride dicendomi: “Se è secondo la volontà di Allah, sia fatto così”. Ammetto che sono stato amareggiato e dispiaciuto nel vedere il telegiornale e notare il suo volto, ingenuo e sorridente, tra i ragazzi che hanno organizzato la rivolta sul tetto del Centro di Identificazione.
Ahmed è un ragazzo somalo. È scappato dal suo paese perché non c’era niente che lo tratteneva lì. Nel 2007 raggiunge la Libia. Cerca qualche lavoretto, ma non trova niente che lo soddisfa. Nel 2008 raggiunge Lampedusa. Gli chiedo com’è stato il suo arrivo in Italia: “I poliziotti mi hanno trattato benissimo. Mi hanno fatto sentire a casa. Una volta che ho chiesto lo status di rifugiato, però, sono stato mandato prima in Olanda, nel 2009, poi in Finlandia, nel 2010. Mi dicevano che non c’era posto per me in Italia, mi hanno consigliato di andare in Irlanda. Io mi sono stancato di essere sballottato per tutta Europa, ho quindi chiesto di tornare in Italia. Ora sono a Milano da 5 mesi, ho fatto un corso da meccanico e sto imparando la lingua. Milano è grigia, io sono nato nella terra del sole. Però mi trovo bene, la gente è stata molto ospitale con me”. Gli dico che nell’immaginario italiano Milano è la città menefreghista per eccellenza, dove puoi morire per strada e nessuno se ne cura. Lui ride. È stupito, non comprende quanto gli dico. “Milano è così? Allora io e te conosciamo due Milano diverse, amico mio!” Sorrido anche io. Gli chiedo se è mai stato a Roma, città dove vivo. Lui ride, dice che c’è stato. Poi mi parla di un quaderno di un suo amico, in Somalia. Era ricco, lui. Andava nelle scuole dove si insegna lingua e cultura italiana. “In quel quaderno ho letto tutto di Roma. La parola ‘Roma’ in origine era ‘Ruma’, che significa mammella, forza. Ecco perché è così bella, ecco da dove ha preso la sua forza. Nel suo nome c’è anche la sua forza”. Io sorrido, gli dico che molti italiani non saprebbero dare una spiegazione migliore, nonostante lui parlasse un italiano molto stentato. Tace. Guarda per terra. “Scusa, ogni tanto torna la memoria, non riesco a non pensare”. Io lo abbraccio. Era a Milano, quando ha saputo che suo fratello è morto nel naufragio di qualche giorno fa. Non voleva crederci. È venuto a Lampedusa per accertarsi di persona. Il Centro di Identificazione purtroppo ha dovuto confermare. È addolorato perché lui non voleva che suo fratello partisse. “In Italia non c’è lavoro per gli italiani, di conseguenza non ce ne può essere per noi” mi ha detto Ahmed. Ha lanciato un videomessaggio dove cerca di comunicare questo ai suoi connazionali. Ogni tanto si fa forza, cerca di affrontare il dolore come il suo popolo meglio riesce: alzando lo sguardo al sole e sorridendo.
Jaffar è un ragazzo marocchino. Appena arrivato a Lampedusa ha fatto il cameriere in un ristorante di pesce. Ha imparato la lingua, per lui sconosciuta, lavorato sodo e si è messo qualcosina da parte. Ora è interprete al Centro di Identificazione. È lui a occuparsi della prima accoglienza di coloro che non hanno mai visto nient’altro che la loro minuscola casa in Tunisia o il piccolo peschereccio in Libia. Tranquillizza gli immigrati appena sbarcati; garantisce ai profughi che stanno per essere smistati in tutta Italia, che non stanno per essere incarcerati; da consigli su come comportarsi al meglio in Italia. Per Jaffar l’integrazione è più di un incarico: è un passaggio di testimone.
L’ultima storia è quella di Belazan, un ragazzo di 34 anni, anche lui tunisino, che vive ormai da 8 anni a Parigi. Parliamo del più e del meno, mi mostra la foto di sua moglie e dei suo figlio di neanche un anno di vita. Gli dico che è veramente molto fortunato ad avere una moglie così bella e un figlio così tenero. Lui ride e ringrazia Allah. Mi dice che ama l’Italia: “Vengo molto frequentemente qui, l’Italia è un paese fantastico. Ultimamente sto venendo spesso anche a Lampedusa. Il mio popolo è uscito da un governo opprimente ma continua a soffrire e a pagarne le conseguenze. Io vengo qui, appena riesco, per aiutare i profughi, come posso. Per la prima volta sono qui a Lampedusa per aiutare qualcuno che conosco. Mio cugino di 15 anni, infatti, è arrivato qui qualche giorno fa. Sto cercando di farlo tornare con me a Parigi. Saprei già dove farlo lavorare e dove farlo dormire. Speriamo che la cattiva politica di Sarkozy non sia di intralcio”.
Valerio Evangelista
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[…] delle iniziative portate avanti finora: abbiamo supportato una campagna di sostegno umanitario ai migranti di Lampedusa organizzato dalla onlus Coevema; siamo stati partner di progetti di scambio culturale finanziati […]
Ottimo reportage, mi sono sentita vicina a queste persone!
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