Seconda puntata in compagnia di Carlotta Mismetti Capua e del suo “Come due stelle nel mare”. Il libro è nato a seguito dell’esperienza del gruppo Facebook La Città di Asterix, dove l’autrice ha iniziato il racconto del suo straordinario quanto casuale incontro con quattro ragazzi afghani. Nei prossimi giovedì pubblicheremo altri due capitoli (qui trovi la prima “puntata”). Ringraziamo Carlotta Mismetti Capua e la Piemme, che di comune accordo hanno deciso di applicare i termini delle licenze Creative Commons per i primi quattro capitoli dell’opera. Le immagini sono di Massimo Bucchi.
La mattina che ti svegli e hai appuntamento con quattro bambini afgani con cui hai fatto amicizia su un autobus, dopo che si sono fatti 5.000 chilometri a piedi – e dentro un tir e su un gommone, e picchiati dalla polizia, dormendo sotto le stelle, un freddo cane, e tutto per arrivare a Roma la sera prima, chissà perché poi a Roma che Roma non ha da dormire per loro, neanche una branda in un dormitorio pubblico e legale ma un panino e un arancio per cena – ecco, in una mattina così, una mattina così strana dell’inverno della vita, cosa fai? Intanto ti svegli presto, e butti giù dal letto un po’ di amici.
Che poi questa che chiamano “la tratta”, con meno ipocrisia quelli che studiano queste cose la definiscono smuggling: e la precisione è importante, perché smuggling è il contrabbando – di droga, armi, medicine, di sigarette. Ora si fa di bambini. Gli esseri umani rendono di più.
Francamente in questa strana mattina dell’inverno della vita succede anche che quando ti svegli ti senti in colpa. E forse è per questo, più che per il panico, che butti giù dal letto la gente alle sette di mattina. E succede anche che pensi: “erano contenti”. E capisci che la vita nelle scarpe degli altri non la puoi mettere, che la loro è anche un’avventura. E che avventura. Dall’Afghanistan alla Piramide, a piedi, come Forrest Gump.
Che io, confesso, mentre tornavo a casa la sera prima, al calduccio, con gli amici che mi aspettavano con un vassoio di pastarelle alla panna e il risotto sul fuoco, ho pensato una cosa davvero banale, ma io non l’avevo mai pensata davvero, e certe cose nella vita anche quelle banali bisogna che uno le ripensa un’altra volta: “Ma le famiglie che hanno salvato gli ebrei a roma, li mettevano a dormire in soffitta o li facevano scappare in campagna, e quelli che gli davano i documenti falsi?”.
Ecco, davanti al vassoio di pastarelle, ho pensato questo. Per questo poi alle sette del mattino chiami, e chi trovi trovi. Francesco mi avverte: «Secondo me non li becchi più. I bambini, soprattutto quelli piccoli, vengono messi subito su un treno, o tenuti nascosti qualche giorno e poi portati chissà dove». È sicuro: «È tratta, è così che funziona la tratta».
Alle sette di mattina anche Cristopher Hein, direttore del CIR, il Consiglio italiano per i rifugiati, dubita che possa ritrovarli, anche lui dice che se ne sono andati, ma che comunque ci aspetta in ufficio. Se li trovo. E mi dice che i bambini sono le prime vittime dei conflitti armati, soprattutto nelle guerre moderne, dove non si conquistano solo territori, ma si distrugge il nemico, villaggio per villaggio, etnia per etnia, casa per casa. La guerra è fatta così, è cieca ma ci vede.
«La tratta non è che una conseguenza della guerra. In questo momento preciso ci sono ventitré paesi in guerra e circa 250.000 minori direttamente coinvolti in conflitti armati» mi dice, alle sette del mattino.
Gulp, per fortuna anche Michael si è alzato presto: «Ti accompagno alla Piramide a prenderli». «Favoloso, grazie, prendi dei maglioni. Dai, Michael andiamo.»
E invece prende un coltello svizzero: forse anche lui sa che ci sono ventitré guerre nel mondo, in questo momento, ma non sa bene dove stanno e come sono fatte. Nemmeno io so dove stanno. Ma si vede che la guerra avanza, se ora sta alla Piramide, sotto casa mia. Però dato che in Afghanistan c’è la guerra dal 1979, l’Unione Europea lo riconosce ancora come paese pericoloso, per chiunque. Me lo ha detto il presidente del CIR, alle sette di mattina, perciò in nessun caso questi quattro ragazzini che alle nove mi aspettano alla Piramide, fermata metropolitana blu, verranno reimbarcati verso il posto da cui sono fuggiti a piedi. E allora ti senti meglio, e pensi che all’Unione Europea le vuoi un po’ bene.
E alle nove, col cuore affogato nel senso di colpa e nella tristezza, e con un minuscolo coltello in tasca con noi, siamo andati a prenderli. La stazione metro blu, alla Piramide, è piena di gente. Un po’ fa freddo, un po’ piove, un po’ si va di fretta. Tra i tanti che hanno freddo ci potrebbero essere i ragazzini afgani, confusi con altri stranieri che lavorano ai banchi di mutandine o distribuiscono i giornali.
Ma non ci sono. Tranne uno, imbacuccato in una giacca grigia, di cotone pure quella. Akmed, sedici anni, il più timido dei quattro, il più silenzioso. «Mrs… Carlotta» mi dice. Uno. Ok. Uno.
«E gli altri?» tace, si guarda, mi guarda come a dire: non chiedermelo, perché non posso dire niente. Ok, andiamo avanti: uno. «Prendiamo un cappuccino, akmed?» dice michael, col coltellino in tasca. Ora si vede che proprio non ci serve questo coltellino. un cappuccino invece sì. ci serve, per amicizia.
E Akmed prende il suo primo cappuccino a Roma, nel bar della Piramide, dove si prende il treno per andare al mare. A Roma, dove Pietro pose la pietra e dove forse ieri il Tevere esondava. Ma poi non ha esondato.
Carlotta Mismetti Capua (immagine di Caterina Notte) è giornalista e vive a Roma. Nel 2010 ha vinto il premio Ischia del Giornalismo per lo storytelling su Facebook ‘La città di Asterix’: un corto ispirato alla sua storia ha vinto il Rome Fiction Fest. Ha lavorato a Time Out, ‘la Repubblica’, Epolis. Per dieci anni si è occupata di televisione e radio, curando la rubrica del Venerdì di Repubblica, e poi ancora al settimanale La Tele e al Tv Magazine: ora si occupa di culture e città per Vogue e l’Espresso. E’ stata a lungo corrispondente dall’Italia per il mensile giapponese ‘Eat’, ha scritto per molti giornali di costume e tra questi D di Repubblica e il Diario della Settimana. Ha collaborato al libro fotografico Wo-man (Calco) sulla vita dei transessuali a Milano, e alcune sue fotografie sono stata esposte in un progetto di narrazione dei migranti alla Biennale di Cuenca dell’Ecuador, nel 2009.
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tragico, ma non strappalacrime, la Capua non scrive per suscitare pena bensì per farci conoscere l’orrore della tratta dei minori…
…bello quello che hai fatto e come lo hai raccontato.