Terzo capitolo di “Come due stelle nel mare”, il libro di Carlotta Mismetti Capua nato a seguito dello straordinario quanto casuale incontro dell’autrice con quattro ragazzi afghani. Ringraziamo Carlotta e la Piemme, che di comune accordo hanno deciso di applicare i termini delle licenze Creative Commons per i primi quattro capitoli dell’opera. Le immagini sono di Massimo Bucchi. Qui trovate le puntate precedenti.
3. COSE CHE CI SONO MA NON SI VEDONO
E così io e Akmed siamo in un taxi, destinazione CIR: Centro Italiano Rifugiati, nato qui a Roma quando le cose hanno cominciato a peggiorare altrove. Roma è una città che non ti aspetti. Piove, e il tassista non ci vuole portare dove dobbiamo andare. «Signora, pioveee… Ma non lo vede che Roma è paralizzata?» alza la voce. Lo vedo. E attacca un brontolio su Roma, i tombini, le sue noie di tassista e le sue tragedie di cittadino, che lo vorrei scaraventare giù dal taxi, come in un film americano, e mettermi a guidare io. Ma non ho la patente.
Mi giro e vedo che Akmed guarda fuori dal finestrino, ma non so cosa stia guardando. Un filosofo franco-lituano, Emmanuel Lévinas, ha detto: «Io sono l’altro», ma mica è facile essere proprio come l’altro, stare nella sua vita, camminare nelle sue scarpe. Si fa all’ingrosso, anche se Lévinas lo diceva nel particolare. Fuori c’è Roma, con le sue nubi di smalto, il suo cielo tormentato, lo squarcio immenso della Biblioteca di Augusto. Saliamo e scendiamo, tra i colli. L’Aventino, dove nasceva Roma se decideva Remo, invece ha deciso Romolo. Giù verso il Velabro, il Palatino. Noi andiamo al Velabro, nella palude. La leggenda ricorda che è qui che arrivarono i due gemelli, nella cesta.
Il CIR, che opera sotto il patrocinio delle Nazioni Unite, è di fatto un ufficio, quattro stanze, e fuori un citofono con un cartello con gli orari di ricevimento. Io questo cartello lo conoscevo a memoria, per cui anche il CIR. Ho abitato al piano di sotto per otto anni, pensa un po’ tu la vita. Si dice così: pensa un po’ tu, poi però alla vita si smette di pensarci. Ricordo uomini e donne che con i documenti in mano andavano e venivano, sbagliavano giorno, e continuavano a sbagliare: strada, destino e citofono. Spesso sbagliavano, e dovevano tornare un altro giorno, con un altro documento. Quando uscivo li trovavo seduti fuori, aspettavano sugli scalini davanti all’Arco di Giano, dio bifronte della pace e della guerra. Aspettavano. Un giorno hanno bussato alla mia porta. Ho aperto distrattamente, ero al telefono, cucinavo, pensavo fosse solo il pony. Sbadatamente ho richiuso la porta. Quando ho finito la telefonata, ho girato il sugo e poi gli occhi. Sul mio divano c’era seduta una famiglia. Se ne stavano composti, in silenzio, come li avesse dipinti Bruegel, contadini di cinquecento anni fa. Lui con la giacca pesante, rattoppata, il cappello. La moglie, col fazzoletto in testa, portava due valigie e due bambini. Erano seduti sul mio divano, come in sala d’attesa. Pensavano di essere arrivati al centro rifugiati, invece era casa mia. E non vedevano la cucina, i libri, le pareti celesti, il sugo, il divano. Questa scenetta, la loro incertezza e la mia distrazione, anzi la loro certezza di essere nel posto giusto e il mio totale imbarazzo a doverli mandare via, mi fece ridere per un sacco di tempo. Ma di questo smarrimento, loro così lontani eppure così vicini, nel bel mezzo del mio salotto, ora sorrido. Chissà dove sono, li penso e tanto basta.
Quella mattina al CIR, però, a ripensarci, una cosa mi ha fatto davvero molto ridere. «D’accordo, ma Tagab vicino a dove? Vicino a cosa?», gli chiedevano molto puntigliosamente. Tagab è il posto da dove viene Akmed. Se lo cercate su Google Maps lo potete vedere. Un po’ imbarazzata ho chiesto molto gentilmente alle avvocatesse del CIR se per caso non si poteva stampare l’immagine di Google Maps di quella zona, che era inutile starlo lì a interrogare così. E Akmed, che parla un inglese minimo e zero italiano,Tagab col dito ce l’ha fatta vedere allora dove stava.
Dopo, ma molto dopo, questa cosa che al Centro Italiano Rifugiati patrocinio delle Nazioni Unite non c’era il mappamondo mi ha fatto tanto ridere. Comunque siamo venuti via dal CIR. Perché Akmed è minorenne, e al CIR si occupano solo di maggiorenni. E così siamo andati a casa mia.
Dal finestrino del taxi, all’andata e al ritorno, Akmed vede il Circo Massimo, e lo guarda con attenzione. Anche se il Circo Massimo non si vede. Come sanno tutti i romani, anche se magari non ci fanno caso. Perché in effetti il Circo Massimo è solo una traccia per terra, ma se ve lo nominano allora vedete subito le bighe di Ben Hur. Invece c’è solo un po’ d’erba sopra. Ma sopra cosa? Il punto è che – e vale per il Circo Massimo, per la storia di Akmed e di tutti quanti – certe cose sono diverse nella realtà dall’effetto che fanno le parole.
Ci sono cose che non si vedono ma esistono. Ci sono parole che suonano enormi e sono un orlo imbastito. Come Circo Massimo. E parole che sembrano erbetta, come “minori”, e invece è Akmed; questo ragazzino con gli occhi verdi impaurito. Ma non lo dà a vedere. E anche gli altri 8.000 non lo danno a vedere, eppure arrivano a Roma.
I turisti non lo vedono, il Circo Massimo. Quando arrivano all’angolo tra via del Velabro e via San Teodoro ti fermano e ti chiedono, con la piantina di Roma in mano: «Scusi, dov’è il Circo Massimo?». Mi è successo un sacco di volte. E tu allora con la mano indichi: quello. E indichi uno spicchio di terra grande ma vuoto, nemmeno una biga, solo erbetta. Un’ellissi e l’erba, dall’alto della collina lo vedi bene: ma solo se lo sai.
Luca, che fa l’architetto, mi ha detto che queste cose – le tracce per terra, dove non restano mattoni o rovine ma solo terra per terra ed erba sopra la terra – sono un segno che la gente ricorda, come se lo spazio resta. e in architettura queste cose che non si vedono hanno un nome: “permanenze”.
Dice Luca, questo amico che ora lavora in Africa per l’Unicef, che la parola – permanenze – l’ha coniata Aldo Rossi, un architetto italiano che amo e che nel mondo degli architetti è riconosciuto come “l’ultimo maestro”. Anche nelle scuole di architettura di Tokyo studiano Aldo Rossi e le cose che pensava e faceva. Lui un giorno ha scritto una cosa, nel suo taccuino personale – un taccuino di quelli che entrano in tasca, lo usava quando viaggiava, ci faceva dei disegni molto belli – che non me la sono più scordata: «Un uomo, soprattutto un uomo d’intelletto, apre più conti con l’arte e con la vita di quanti potrà chiuderne».
D’accordo, ora voi pensate: ma che c’entra? A noi ci interessa sapere dove sono finiti gli altri bambini: che ci frega delle permanenze? Giuro, c’entra. Vedrete che c’entra anche con gli altri tre ragazzini afgani, che non so dove sono. Per cui andiamo avanti.
Carlotta Mismetti Capua (immagine di Caterina Notte) è giornalista e vive a Roma. Nel 2010 ha vinto il premio Ischia del Giornalismo per lo storytelling su Facebook ‘La città di Asterix’: un corto ispirato alla sua storia ha vinto il Rome Fiction Fest. Ha lavorato a Time Out, ‘la Repubblica’, Epolis. Per dieci anni si è occupata di televisione e radio, curando la rubrica del Venerdì di Repubblica, e poi ancora al settimanale La Tele e al Tv Magazine: ora si occupa di culture e città per Vogue e l’Espresso. E’ stata a lungo corrispondente dall’Italia per il mensile giapponese ‘Eat’, ha scritto per molti giornali di costume e tra questi D di Repubblica e il Diario della Settimana. Ha collaborato al libro fotografico Wo-man (Calco) sulla vita dei transessuali a Milano, e alcune sue fotografie sono stata esposte in un progetto di narrazione dei migranti alla Biennale di Cuenca dell’Ecuador, nel 2009.
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