Un campo profughi nel centro della Capitale

Testo e foto di Andrea Polzoni

La stazione Ostiense di Roma da anni è un punto di passaggio e ritrovo per gli afgani che transitano nella capitale. Arrivano a Roma dopo viaggi duri e rischiosi che possono durare anche più di un anno attraverso Pakistan – Iran – Turchia – Grecia e durante i quali molti di loro trovano la morte asfissiati nel sottofondo di un tir o uccisi dalle guardie di frontiera turche o assiderati sui valichi di montagna. Lo scorso mese nel porto di Ancona è stato ritrovato un giovane afgano morto dentro un camion proveniente dalla Grecia.

I ragazzi afgani scappano dal loro paese in preda alla guerra. Scappano dalle bombe dei “liberatori” americani che fanno continuamente stragi di civili. Scappano dalla violenza oscurantista talebana che semina terrore.

Molti vogliono raggiungere i paesi del nord Europa. C’è un flusso costante tra nuovi arrivati e altri che partono dopo essersi fermati alcune settimane all’Ostiense. Solo pochi restano più a lungo dopo essere entrati nel circuito dei centri d’accoglienza dal quale stentano ad uscire per la difficoltà a raggiungere un autonomia lavorativa ed abitativa stabili.

foto: Andrea Polzoni

I profughi che popolano l’Ostiense sono di etnia pasthun e hazara. Raramente superano i 30 anni d’età. Solo alcuni parlano un po’ l’inglese. La maggior parte di chi fa domanda come richiedente asilo ottiene la protezione internazionale. Il primo insediamento risale al 2006 era conosciuto come la buca: lo scavo delle fondamenta di un edificio da costruire. L’ultima volta li avevo incontrati nel settembre 2010 poco lontano dal luogo in cui si trovano ora.

Questi giovani a Roma sono sempre stati fatti vivere in condizioni disumane. Dormono in tende. Erano sotto costante minaccia di sgombero durante i quali spesso le tende venivano distrutte e le loro poche cose rovinate. Vivevano con un solo tubo per l’acqua che a Giugno 2010 venne chiuso. Per fare una doccia scaldavano l’acqua in un secchio di latta sul fuoco poi usavano un box in legno fatto da loro. Il comune non aveva fornito loro neanche un bagno chimico.

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Ad Aprile 2011 il loro insediamento si è spostato di 300 metri. Ora sono appena fuori l’ultimo binario della stazione. Mentre arrivo alcuni ragazzi afgani stanno cercando di portare all’esterno dell’area due bagni chimici strapieni e traboccanti. Il puzzo non da scampo e a terra si formano alcune pozze che più tardi faranno da deterrente nei confronti di due pattuglie arrivate per controllare che subito rinunciano. Più tardi arriverà un mezzo specializzato che dopo giorni d’impraticabilità provvederà a vuotare e pulire i bagni.

foto: Andrea Polzoni

L’area è delimitata da un cancello aperto sul quale è appeso una sorta di dazebao multilingue con indirizzi e mappe di alcuni centri d’assistenza sparsi nella capitale che forniscono servizi di mensa, docce, cambio vestiario e supporto legale. Davanti al cancello staziona il camper dei Medu: Medici per i diritti umani. Da anni forniscono assistenza medica e seguono le vicende della comunità afgana che vive in un perenne stato d’emergenza. Mi colpisce lo sguardo addolorato di un ragazzo che aspetta per farsi visitare. Inizio a parlare un po’ con vari ragazzi. Molti hanno lasciato in Afghanistan la famiglia. Un ragazzo mi mostra orgoglioso e sconsolato un libro di canzoni. In copertina c’è la foto del padre che è poeta e cantautore. Mi raccontano che molti hanno dovuto abbandonare gli studi perché le scuole dei loro villaggi erano minacciate dai talebani che a volte le devastavano uccidendo gli insegnanti. Nel frattempo faccio qualche foto cercando prima un cenno di consenso. Durante il mio ultimo soggiorno romano son tornato più volte in questo campo profughi nel pieno centro della capitale italiana popolato da circa 100 afgani che dormono in 6-8 per ogni tenda. Ma non bastano per tutti e alcuni trovano riparo tra l’asfalto e lo spiovente metallico di un sottoscala. Anche qui hanno un solo rubinetto con acqua fredda.

Una mattina vedo uscire da una tenda appena svegli una coppia di giovani. Non avevo mai visto una donna nel campo: è incinta. Ha un viso molto delicato non credo arrivi a 20anni e mentre va in bagno parlo col compagno che mi dice sono di passaggio,vanno a Parigi da parenti. Sono in viaggio e invece che in hotel han passato la notte al campo. La sera ripartiranno. Nabizadaf un ragazzo simpatico che avevo ritratto due giorni prima mi lascia il suo contatto facebook chiedendomi di mandargli la foto. Altri preferiscono non farsi fotografare temendo problemi per le loro famiglie in Afganistan o non avendo ancora la protezione umanitaria.

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foto: Andrea Polzoni

Nasir dapprima diffidente mi mostra delle buste paga chiedendomi consiglio sul fatto che il padrone non gli ha pagato gli ultimi tre mesi avendolo lasciato promettendo che presto l’avrebbe richiamato a fare il muratore. Perentorio gli consiglio un avvocato ma lui non concorda. Aspetterà. Non vuole problemi e spera di riprendere a lavorare. Un ragazzo mi mostra degli yogurt di cui son riforniti facendomi notare la scadenza avvenuta da un paio di giorni e cercando conferma sul fatto di poterli celermente consumare. Sorrido vedendo che son riforniti anche di pandori. Siamo dopo pasqua.

Quasi tutti son gentili e spesso curiosi di poter scambiare qualche parola. Mi offrono biscotti e succo. Dopo un po’ resto sorpreso nel vedere un giovane fare la doccia in mutande nel marciapiede tra gli ultimi due binari momentaneamente spopolati. Si serve della vecchia pompa che serviva a rifornire i vagoni. Più lontano qualcuno si ferma a guardare.

Avevo già visto nel precedente sito dei minori vivere nel campo ma la mattina successiva scorgo in una tenda un bambino. Resto scosso. Ci sorridiamo. Chiedo subito ai ragazzi lì vicino e mi dicono che è arrivato da due giorni. Solo. I genitori son morti in Afganistan. Vuole andare a Londra da un cugino. Lo vedo tranquillo. Non ha paura e sembra a suo agio lì. Con le mani mi dice che ha sette anni. Gli faccio una carezza chiedendomi come sia possibile far dormire un bambino di sette anni in una tenda a Roma. Mi chiedo cosa vuol dire “essere un paese civile”. So che c’è un centro specifico per i profughi minori non accompagnati ma è un centro diurno e non offre posti letto. In questi casi il minore intercettato dai servizi sociali viene affidato ad una casa famiglia per poi essere eventualmente adottato.

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foto: Andrea Polzoni

Gli altri ragazzi afgani scherzano con lui ed hanno un atteggiamento delicato, è davvero un bel bambino. Pare non abbia perso la dolcezza della sua età. La guerra questa volta sembra sconfitta. Mi chiedo come sarà arrivato, se riuscirà ad andare a Londra e come. Forse con qualche compagno più grande. Lo rivedo un ultima volta sotto la stazione. Nel lungo tunnel che porta alla metro. Cammina in mezzo ad altri ragazzi afgani tutti alti il doppio di lui. Mi fa un sorrisone e ciao con la mano. Avviso i Medu della sua presenza.

Costante durante le visite al campo il mio senso di disagio nel vedere il modo in cui questi giovani aventi diritto si ritrovino a sopravvivere dopo essere fuggiti da una guerra. I governi occidentali dicono di combattere in Afganistan per liberarlo. Questi ragazzi educati e dignitosi vivono come intrappolati una situazione di scacco. Ma sono giovani e hanno speranze.

Testo e foto di Andrea Polzoni. L’autore non autorizza la riproduzione totale o parziale del presente articolo e delle immagini ad esso correlate


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