Terraferma: il diritto dell’uomo di viaggiare

di Luca Ortello

In un’isola italiana non meglio identificata del Mediterraneo meridionale, a metà strada tra la Sicilia e l’Africa, vive la famiglia Puccillo composta dal vecchio Ernesto, pescatore, Filippo, suo nipote ventenne, Giulietta, madre di Filippo, e Nino, zio di Filippo. Ernesto e Filippo vanno insieme a pescare con la loro barca, mentre Giulietta, nella speranza di potersi trasferire a Trapani e dare una vita migliore al figlio, decide di racimolare un po’ di soldi affittando la propria casa ai turisti.

Un giorno, Filippo e il nonno, a bordo del loro barcone, avvistano un gommone di africani clandestini. Ernesto chiama la capitaneria di porto per lanciare l’allarme. La capitaneria gli dice di allontanarsi dal gommone e lasciar fare alla guardia costiera che sta per arrivare. Ernesto non accetta di lasciare in balìa delle onde quegli sventurati, e ne accoglie qualcuno sul suo barcone, tra cui una donna incinta, Sara con suo figlio di 9 anni. Giunti sull’isola, di nascosto, Ernesto, Filippo e Giulietta si prendono cura di Sara, aiutandola a partorire.

La guardia di finanza, nel frattempo, sequestra il barcone di Ernesto “colpevole” di aver fatto sbarcare dei clandestini senza avvertire le autorità competenti. “Lei non conosce la legge: aiutare questa gente, oggi, è reato”, dice il capitano della guardia di finanza ad Ernesto. I Puccillo scoprono che Sara, proveniente dall’Etiopia, ha un marito che vive a Torino, e decidono di aiutarla a raggiungere la sua meta. La vita della famiglia è destinata così ad essere sconvolta dagli eventi e a dover scegliere una nuova rotta.

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In questo ultimo anno, abbiamo assistito a un fenomeno quasi unico ed irripetibile della cinematografia italiana: ovvero, l’interesse e la volontà dei registi di raccontare un’Italia attuale, con problematiche contemporanee, sentite da tutti. Pensiamo a Terraferma di Crialese, a Cose dell’altro mondo di Francesco Patierno, L’ultimo terrestre di Gian Alfonso Pacinotti, Io sono Li di Andrea Segre, Il villaggio di cartone di Ermanno Olmi: tutti film che ritraggono un’Italia in crisi, con problemi di integrazione, di tolleranza, incontro/scontro col “diverso”.

Terraferma affronta con crudezza e lirismo una delle problematiche più spinose della nostra Italia contemporanea, lo sbarco di immigrati ridando dignità e umanità e, soprattutto, un volto e una storia a quei clandestini che nei nostri telegiornali altro non sono che vaghi numeri, nient’altro che una notizia routinaria che si sussegue di giorno in giorno e che atrofizza la nostra percezione della realtà, che non ci mette più nelle condizioni di riconoscere la gravità dell’accaduto. Con Crialese, queste persone riacquistano un’umanità, hanno le loro gioie, le loro speranze, le loro sofferenze. Sono esseri umani come noi. Il regista critica fortemente il reato di clandestinità. Alla legge voluta dal governo Berlusconi, si sostituisce spesso la “legge del mare”, antica di millenni: prestare sempre soccorso ai naufraghi. “Siamo (noi italiani) geograficamente in mezzo in una culla di civiltà che ormai è diventata una culla di inciviltà”, afferma il regista.

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Ma Terraferma non è solo una critica. È anche una riflessione sull’intera storia umana, sul diritto-bisogno dell’essere umano di muoversi, viaggiare, scoprire. In una società multiculturale come la nostra, abituata agli spostamenti e all’incontro con tante culture diverse, certi partiti politici, ancorati a ideologie nazionaliste e fasciste, rivendicano con prepotenza e arroganza l’attaccamento alla propria terra, vedendo nell’ “altro” una minaccia anziché una ricchezza, un nemico anziché un amico. Il tipico istinto animalesco vòlto alla conservazione della propria specie che attecchisce verso le classi più ignoranti della popolazione che, guarda caso, sono sempre le prime a respingere chi non si conosce e non si vuol conoscere aprioristicamente.

Crialese dà più importanza agli impulsi dell’animo umano, alla coscienza delle persone rispetto alle leggi scritte, alle volte incomprensibili e disumane. L’isola di cui ci racconta il regista è un terreno selvaggio (ma non per questo popolato da incivili, anzi), dove le leggi non scritte ereditate dalla saggezza e profondo senso civico dei romani sono più sentite e importanti dei decreti “ufficiali”.


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