Alla scoperta del rap palestinese

Una scena del film Slingshot Hip Hop (2008)

di Nicola Casile

La musica, si sa, è un linguaggio universale. Ma ci sono certi tipi di musica che, per la loro stessa natura, si prestano maggiormente ad essere utilizzati come forte mezzo di comunicazione e veicolo di idee. Uno di questi è l’hip hop. Nato nelle comunità afroamericane dei ghetti di New York più di trent’anni fa, oggi è diffuso in ogni angolo del pianeta. E se in America, e in parte anche in Europa, lo spirito originario si è diluito nel tempo, in altri contesti si è trasmesso inalterato.

E’ il caso, ad esempio, della Palestina. Spesso si è spinti a considerare il mondo arabo come una realtà unica e indistinta, generalmente poco incline alla modernità e non proprio all’avanguardia in tema di forme creative ed espressive. Ma basta avere un po’ di curiosità per capire che, naturalmente, non è affatto così.

La causa palestinese ha oggi dei nuovi portavoce: i rapper. Questi artisti assolvono in pieno al compito di interpreti di una condizione di disagio che sembra non trovare soluzione. I gruppi e le band hanno cominciato a ritagliarsi il loro spazio, divenendo un nuovo punto di riferimento per molti giovani facendosi portavoce di una causa ma anche di una maggiore voglia di libertà. Così, a poco più di dieci anni dalla sua nascita, il movimento hip hop palestinese è oggi al centro di molte attenzioni.

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Tra i vari gruppi vanno ricordati i DAM, un trio attivo sin dal 1998 che, mescolando rime rap a suoni tradizionali, rivendica i diritti del popolo palestinese cantando in arabo, in israeliano e inglese. “Stop Selling Drugs” è il loro primo disco del 1998. Del 2001 è invece l’eloquente brano“Min Irhabi“ (“Chi è il terrorista?”).

I WE7, giovanissimi rapper che pur essendo di nazionalità israeliana si considerano palestinesi e come tali appoggiano e promuovono la causa palestinese. I Black Unity Band, un trio agguerrito che trasmette direttamente dalla Striscia di Gaza. Utilizzano l’hip hop come strumento per vincere l’occupazione israeliana dei territori palestinesi. Pensano sia il modo migliore per diffondere un messaggio e per parlare del proprio paese e della guerra che lo affligge.

Ma l’hip hop palestinese suona anche al femminile. E’ il caso di Shadia Mansour, originaria di Haifa ma nata e cresciuta in Inghilterra. E’ stata la prima rapper palestinese, definita “First lady dell’Hip Hop”. Con il suo singolo Koffeyye Arabeyye (“La Kefiah è araba”) precisa quale sia il significato storico e politico del tradizionale copricapo. Ultimamente ha collaborato anche con alcuni gruppi fondamentali dell’hip hop militante made in USA, come i Dead Prez.

Il fenomeno dell’hip hop palestinese suscita nuove curiosità, tanto che Jackie Reem Salloum, regista arabo-americana, ha prodotto nel 2008 un film documentario intitolato “Slingshot Hip Hop”, attraverso il quale racconta la nascita e lo sviluppo dell’hip hop palestinese dalla fine degli anni novanta. Il documentario ha avuto degli importanti riconoscimenti dal Sundance Film Festival e dal Chicago Palestine Film Festival.

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Tuttavia, nei confronti del nuovo movimento musicale palestinese, non mancano alcune critiche. Omar Barghuti, fondatore della Palestinian Campaign for the Academic and Cultural Boycott of Israel (PACBI), commentatore, critico d’arte e coreografo palestinese, denuncia una certa mancanza di originalità dell’hip hop palestinese che, in poche parole, sarebbe una copia conforme di quello americano. Ad ogni modo riconosce le potenzialità e lo spessore sociale e politico del fenomeno, tanto da condividere la definizione di “intifada hip hop”.

Sulle critiche riguardanti l’originalità ci sarebbe da aprire una parentesi tutta musicale. Il rap è uno stile di canto particolare, basato su un linguaggio esplicito, sull’utilizzo di molte parole e di poca melodia. Inevitabilmente, quindi, il rap resta rap in qualsiasi parte del pianeta e in qualsiasi lingua. La differenza la fanno i testi, i temi trattati, l’atteggiamento utilizzato e, a livello musicale, i campionamenti utilizzati all’interno delle basi musicali (nei brani rap palestinesi sono molto ricorrenti i campionamenti di musica tradizionale araba). Il rap sessista e materialista delle collane d’oro e delle automobili, tipico di un certo approccio USA, non ha ancora intaccato il mood palestinese che rimane fortemente politicizzato e di riscatto e protesta. Finché parlerà di Palestina, quindi, l’hip hop palestinese potrà ritenersi originale.

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