Iraq, storia di una guerra-lampo durata nove anni

di Valentina Severin

La guerra in Iraq è finita, il 15 dicembre, per la precisione. Ed entro il 31 dicembre i circa quattromila soldati americani rimasti faranno armi e bagagli e torneranno finalmente a casa. Lo ha promesso il Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, lo scorso 21 ottobre. A dire il vero Obama aveva dichiarato ufficialmente conclusa la missione statunitense e annunciato il ritiro delle truppe già il 31 ottobre 2010, ma tutto fa pensare che questa sia la volta buona.

COME È INIZIATA – L’invasione dell’Iraq, da parte della Coalizione formata da Stati Uniti, Regno Unito, Polonia, Australia, Italia e pochi altri, è avvenuta ufficialmente il 20 marzo 2003. A monte sta una lunga ostilità armata, risalente all’invasione del Kuwait da parte dell’esercito di Saddam Hussein, nel 1990, e sostenta da trentacinque Stati con il benestare dell’ONU.

A provocare il salto di qualità dalle scaramucce diplomatiche all’invasione vera e propria fu l’attacco alle Twin Towers, l’11 settembre 2001. L’allora Presidente americano George W. Bush, paladino della lotta al terrorismo, intuì da subito l’appoggio dell’Iraq ad al-Qaeda e decise di intervenire.

ARMI DI DISTRUZIONE DI MASSA – Vera e propria motivazione dell’intervento statunitense, però, fu la presenza di armi di distruzione di massa in Iraq. Nell’ottobre 2002 una National Intelligence Estimate americana dichiarò che il Paese di Saddam possedeva armi chimiche e biologiche e missili di gittata superiore a quella stabilita dalle restrizioni imposte dall’ONU. Anzi, già un mese prima il Presidente Bush aveva dichiarato che l’Iraq intendeva produrre armi di distruzioni di massa.

In realtà, né gli ispettori inviati dall’ONU all’inizio del 2003, né le squadre di ricerca americane messe in campo dopo la conquista del Paese trovarono mai quantitativi rilevanti di armi di quel tipo. E tanto meno i presunti rapporti tra Saddam Hussein e al-Qaeda risultarono fondati.

I PREPARATIVI – Sta di fatto che gli Stati Uniti cominciarono a preparare l’invasione ben prima di ottenere il nulla osta dell’ONU. Il comando americano si mise a pianificare l’operazione con largo anticipo, inviando ingenti forze in Kuwait, tanto che già nella primavera 2002 la stampa statunitense era in grado di descrivere i possibili piani di attacco. Per esempio, vennero intensificate le incursioni aeree sulle no fly zones: nel solo settembre 2002 gli aerei coinvolti nelle operazioni furono cento. E alla fine dell’autunno le truppe erano pronte ad attaccare, mentre si protraeva la controversia tra Bush e il Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

MISSIONE COMPIUTA– Finalmente il 20 marzo 2003 le forze della Coalizione fecero il loro ingresso in Iraq e meno di due mesi dopo, il 1 maggio, il Presidente americano proclamò concluse le operazione militari su larga scala. Si trattò di una guerra-lampo, insomma. Eppure il conflitto proseguì, fino a trasformarsi in una guerra civile. La “Coalizione dei Volenterosi”, come la definì Bush, era costituita, inizialmente, da quarantanove Paesi, tra i quali spiccava l’assenza di Germania e Francia. Altro dato degno di nota è la composizione della Coalizione, per l’87 per cento statunitense.

I “Volenterosi” scesi in campo il 20 marzo furono circa 260 mila, cui si aggiunsero alcune decine di migliaia di miliziani curdi. Dall’altra parte, invece, c’erano poco meno di 400 mila uomini, più circa 40 mila paramilitari dei fedelissimi di Saddam e 650 mila uomini parte della riserva. Molte unità, ma male armate, a causa delle restrizioni imposte dall’ONU nel corso degli anni, e molto poco motivate. Tant’è che gran parte delle truppe irachene si disintegrarono ancor prima di incontrare il nemico, un po’ a causa dei bombardamenti, un po’ per l’incompetenza e le diserzioni dei comandanti.

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Così il 9 aprile gli americani entrarono a Baghdad, il giorno dopo i curdi irruppero a Kirkuk e il 15 aprile cadde anche Tikrit. Verso la fine dell’anno, il 13 dicembre, gli americani catturarono Saddam Hussein, mentre i figli Uday e Qusay furono uccisi.

IL PROCESSO A SADDAM – Tanto Saddam Hussein quanto i leader del suo regime furono processati da un tribunale creato apposta per l’occasione, il Supremo tribunale criminale iracheno. In particolare il processo al dittatore sollevò perplessità e polemiche e ci fu chi, come Amnesty International, denunciò gravi irregolarità da parte del Tribunale chiamato a giudicare il dittatore per i crimini commessi contro l’umanità: interferenze politiche compromisero l’indipendenza e l’imparzialità della Corte e i testimoni e gli avvocati della difesa non furono adeguatamente protetti, tanto che tre dei legali furono assassinati. Allo stesso Saddam Hussein fu negato il diritto all’assistenza legale durante il primo anno di prigionia e la Corte non prese mai in considerazione le proteste dei suoi avvocati circa le procedure adottate nel corso del processo.

Il processo iniziò nell’ottobre 2005 e terminò nel luglio 2006 con la sentenza di condanna a morte per l’uccisione, nel 1982, di 148 abitanti del villaggio di Al-Dujail, in seguito a un tentativo di assassinio del dittatore. La Corte d’appello convalidò il verdetto il 26 dicembre e quattro giorni dopo seguì l’esecuzione.

 

LE VIOLENZE – Nel frattempo le forze occidentali cercarono di porre fine allo scontro attraverso un processo politico, ma senza risultati concreti. Anzi, gli scontri armati tra milizie filo-governative si sono alternati a episodi di pulizia etnica, situazione aggravata da alcune incursioni punitive turche nel nord del Paese. Tutto il conflitto fu connotato da atti terroristici e brutalità, da ambo le parti, lasciandosi dietro una lunga scia di sangue e un incalcolabile numero di vittime civili.

 

ABU GHRAIB – Il caso che più ha scosso l’Occidente è quello della prigione di Abu Ghraib. Alla fine dell’aprile 2004 venne alla luce una storia di sevizie e umiliazioni perpetrate dai soldati americani nei confronti dei detenuti iracheni. La vicenda emerse grazie alle cronache internazionali, che cominciarono a riferire quanto avveniva nella prigione. Inizialmente fu il rotocalco televisivo 60 Minutes a diffondere la storia dei soprusi. Ma in breve tempo le crude immagini delle torture rimbalzarono sui media di tutto il mondo e lo scandalo si allargò anche ai soldati inglesi, provocando lo sdegno e le proteste della comunità internazionale e delle organizzazioni umanitarie.

Un rapporto della Croce Rossa denunciò che le autorità statunitensi erano al corrente di quanto accadeva ad Abu Ghraib già dalla primavera 2003, motivo per il quale l’amministrazione Bush, rappresentata da Donald Rumsfeld, dovette porgere pubbliche scuse davanti alla Nazione e alla comunità internazionale. La prigione di Abu Ghraib fu chiusa nel 2006, per poi essere riaperta il 21 febbraio 2009, dopo un lavoro di ristrutturazione e ammodernamento, con il nuovo nome di Baghdad Central Prison.

 

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MASSACRI TRA I CIVILI – Ma le violenze di Abu Ghraib non sono le uniche perpetrate dalle forze della Coalizione. Sono stati numerosi i casi di abusi avvenuti anche in campo, per non parlare dell’uso indiscriminato dell’arma aerea, incurante della presenza o meno di civili negli obiettivi colpiti. Uno tra tanti, l’episodio della campagna di Falluja, nel novembre 2004, quando i comandi americani distrussero due terzi degli edifici della città, senza tener conto dell’eventualità che i civili potessero restare coinvolti.

Risale all’anno successivo il controverso caso del cosiddetto massacro di Haditha, che però non è ancora stato confermato. Allora una squadra di Marines avrebbe massacrato ventiquattro civili iracheni disarmati, come ripicca per un attacco subito. Se venisse comprovato, il fatto costituirebbe a tutti gli effetti un crimine di guerra e gli imputati andrebbero incontro alla pena capitale.

Sono immortalati da un video diffuso da WikiLeaks nell’aprile 2010, invece, gli attacchi aerei effettuati a Baghdad da due elicotteri Apache, ancora una volta americani, il 12 luglio 2007. Dodici civili, tra i quali due giornalisti dell’agenzia di stampa internazionale Reuters, rimasero uccisi. Il video, della durata di diciassette minuti e intitolato Collateral Murder, fu visto a livello mondiale. Un mese dopo la sua diffusione, il soldato statunitense Bradley Manning fu arrestato con l’accusa di aver divulgato il video e altri documenti e ora rischia cinquantadue anni di carcere.

 

SOPRUSI IRACHENI – Anche le milizie irachene, tuttavia, non sono esenti da colpe. Si stima infatti che centinaia di migliaia di persone siano state costrette a lasciare il Paese per scampare alle campagne di pulizia etnica. E nel dicembre 2005 l’ex Primo Ministro Iyad Allawi giudicò gli abusi commessi dalla polizia del nuovo governo iracheno come “peggiori di quelli di Saddam”. Affermazione che poche settimane dopo trovò parziale conferma nel ritrovamento, da parte americana, di una prigione in cui i corpi speciali del governo iracheno sottoponevano sistematicamente a tortura i prigionieri sunniti.

 

GLI ATTENTATI – Un capitolo a parte, poi, dovrebbe essere aperto sugli attentati suicidi condotti dai radicali islamici e dagli ex sostenitori di Saddam. Dal 1 maggio 2003, data in cui George W. Bush dichiarò conclusa la guerra, al 25 maggio 2007 le vittime degli attentati furono 3.728. Secondo un rapporto del Pentagono pubblicato nell’ottobre 2005, gli iracheni uccisi o feriti dopo il 1 gennaio 2004 furono ventiseimila.

 

LE VITTIME DELLA COALIZIONE – Stando ai dati riportati dal sito web icasualities.org, aggiornati al 26 novembre 2009, le perdite umane durante il conflitto sarebbero 315 per il Regno Unito, 36 per l’Italia, 23 per la Polonia, 18 per l’Ucraina, 13 per la Bulgaria, 11 per la Spagna e 40 tra Australia, Azerbaigian, Corea del Sud, Repubblica Ceca, Danimarca, El Salvador, Estonia, Georgia, Kasakistan, Lettonia, Paesi Bassi, Romania, Slovacchia, Thailandia e Ungheria. Al 15 febbraio 2010 il bilancio per gli Stati Uniti sarebbe di 4.380 morti e 43.993 feriti.

Una cifra spaventosa, alla quale vanno aggiunte alcune centinaia di morti civili non iracheni e tutti i morti che non sono caduti sul campo. Ad esempio i 135 soldati che, secondo icasualities.org si sarebbero suicidati durante la loro permanenza in Iraq. E vanno senz’altro considerati anche tutti quei casi in cui la partecipazione alla guerra è stata solo una concausa della morte. Fonti giornalistiche sostengono che circa un quinto dei soldati statunitensi ritornati dall’Iraq soffra di una qualche forma di “post-traumatic stress disorder” o “profonda depressione”, spesso associati a un “sospetto trauma cerebrale”. Disordini che sarebbero alla base dell’altissimo tasso di suicidi – 6.250 solo nel 2005 – fra i veterani di guerra.

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LE PERDITE IRACHENE – Se di questi dati si può parlare solo al condizionale, l’incertezza aumenta quando si vanno a considerare le perdite irachene, in particolare se si cerca di scindere le vittime civili da quelle dei combattenti. Soprattutto perché gli Stati Uniti hanno deciso di non fornire cifre sistematiche sulle vittime delle operazioni.

Certamente i morti iracheni sono almeno trentamila. Infatti questa è la prima stima fornita dal Presidente Bush in una conferenza stampa del dicembre 2005. Perciò, considerando che la guerra si è protratta per altri sei anni, la cifra non può che essere salita.

 

VITTIME DELLE TRUPPE – Per quanto riguarda la conta dei morti delle truppe irachene durante l’invasione, i dati diramati dalle diverse fonti sono molto discordanti tra loro. Si va dai 4.895-6.370 morti dei rapporti ufficiali ai 13.000-45.000 caduti stimati dal giornalista Johnatan Steele del Guardian. Mentre si ipotizza che le vittime dell’esercito di Saddam vadano dalle 7.600 alle 10.800.

Per quanto riguarda le truppe irachene, il sito icasualities.org parla di un totale di 6.786 morti, tra soldati e poliziotti, fino al maggio 2007, dato fondato sulle informazioni fornite dal Ministero dell’Interno iracheno ma che potrebbe essere superiore di almeno un migliaio di unità. È molto probabile, infatti, che il Governo minimizzi le proprie perdite per ragioni politiche.

 

I CIVILI – Il numero più alto di vittime, però, si trova senz’altro tra i civili. Il sito Iraq Body Count, il 15 maggio 2007, parlava di oltre 63 mila perdite, dieci volte tanto quelle militari, ricavate dai rapporti della stampa anglosassone. Anche in questo caso si tratta solo di una soglia minima, che tuttavia non conta solamente civili.

Del tutto inesistenti, invece, le stime dei morti tra le file della resistenza e delle diverse milizie legate ai gruppi etnico-religiosi. È dunque arduo fare un bilancio delle perdite umane della guerra-lampo irachena, ma di sicuro si può parlare di una cifra a cinque zeri.


4 Comments

  • difficile a dirsi, in ogni caso non credo che i partiti islamici tollereranno in alcun modo l’ingerenza occidentale, e i partiti islamici ora sono alla ribalta: Ennhadha i ntunisia, Giustizia e libertà e al-Nour in Egitto.. tutto lascia intendere che saranno tali partiti a governare, e di sicuro non accetteranno intromissioni dei pasi occidentali nei loro affari.

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