Turchia, a 5 anni dalla morte di Hrant Dink si è concluso il processo al killer

di Rosanna Columella

Il 19 Gennaio di 5 anni fa il giornalista Hrant Dink, fondatore e redattore capo della rivista “Agos” (un giornale scritto in armeno e in turco) veniva assassinato con tre colpi di pistola davanti alla sede del suo giornale, nel quartiere di Osmanbey a Istanbul. Quella notte, davanti alla sede del giornale, centinaia di cittadini turchi si riunirono spontaneamente per esprimere la propria solidarietà alla famiglia, urlando a gran voce lo slogan “io sono armeno”.

Di origine armena, Hrant Dink, era un giornalista impegnato nella lotta per la libertà di espressione e di stampa di tutte le minoranze in Turchia: organizzava conferenze e partecipava a programmi radiofonici come portavoce del suo popolo e della sua storia. Egli amava definirsi “turco e armeno” e, nonostante gli errori e gli orrori del passato perpetuati a danno della propria etnia, credeva fosse possibile una pacifica convivenza tra i vari popoli presenti sul territorio turco. Il suo impegno civile e le sue dichiarazioni furono presto bollate come veri e propri attentati, offese all’identità turca e per questo Hrant Dink fu processato e definitivamente assolto nel 2006. Al processo seguì una sistematica campagna legale, politica e mediatica, volta a screditare pubblicamente il suo pensiero e il suo impegno, fino al giorno in cui il diciassettenne, Ogun Samast, pose fine alla sua vita. Il processo per l’assassinio di Hrant Dink, si è concluso, l’altro ieri 17 Gennaio, con la sola condanna di Ogun Samast a 22 anni, escludendo così l’ipotesi di una vera e propria organizzazione criminale organizzata, comprovata da alcune prove e testimonianze e sostenuta dai legali di Dink.

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L’epilogo del processo di Dink, viene accolta come l’ennesimo tentativo di limitare e soffocare nel silenzio l’iniziativa mediatica, la libertà di pensiero e di espressione di tutte le minoranze, rivendicata da molti giornalisti ed intellettuali turchi, e dallo stesso Dink. A discapito del rispetto dei diritti umani e delle libertà personali, negli ultimi mesi, nelle carceri turche si è registrato un sempre più crescente numero di giornalisti ed intellettuali, per lo più curdi. Infatti, a seguito degli attentati terroristici del Pkk e gli interventi militari dell’esercito turco nei territori del Kurdistan Iracheno, a fine anno, nell’arco di 48 ore, sono state arrestati 43 giornalisti ed operatori dei media. Il 22 Dicembre 2011, il Governo di Ankara ha, avviato una sistematica campagna di repressione contro tutti media e giornali curdi, che ha determinato l’arresto di Azadiya Welat, editore dell’unico quotidiano in lingua turca in Turchia e la sospensione per un mese del settimanale ‘Yürüyüş’, da parte della Corte d’assise di Istanbul.

L’intervento del Governo turco è tale da definirsi una vera e propria azione contro la libertà di espressione e di informazione, volta a reprimere voci dissonanti e qualsiasi contenuto che minacci l’unità nazionale del Paese. Secondo le ultime stime, in Turchia, circa 70 fra intellettuali, scrittori, giornalisti ed editori sono detenuti in carcere o in custodia cautelare in attesa di processo, senza un vero e proprio capo di accusa, se non quello generico di aver offeso l’unità nazionale o di aver partecipato ad azioni terroristiche a danno del Paese. Secondo l’Unione dei giornalisti turchi, invece, sono 97, più che in Cina, i cronisti, editori e altri operatori del settore dei media rinchiusi in carcere, mentre 15mila sono i siti internet bloccati dalla censura governativa turca.

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Ma se in Patria l’informazione è oggi manipolata o peggio imbavagliata, all’estero è oggetto di osservazione e critica da parte della stampa internazionale. Il New York Times in un articolo pubblicato lo scorso 5 Gennaio denuncia la svolta antidemocratica del governo, che attenta sistematicamente alla libertà di stampa e di parola, attraverso arresti e custodie cautelari. L’autorevole quotidiano statunitense sottolinea la mancanza libertà di stampa: l’informazione viene gestita “attraverso una misto di intimidazioni, arresti e macchinazioni finanziarie che nel 2008 hanno incluso la vendita di un giornale di spicco e di una rete televisiva a una società legata al genero del primo ministro”.  A sostegno di questa tesi, nell’articolo, si ricorda il caso dello scrittore Ahmet Sik e del giornalista ed editore Bedri Adanir: Ahmet Sik arrestato, nel febbraio dello scorso anno, con l’accusa di fare parte dell’organizzazione Ergenekon che avrebbe ordito un tentativo di colpo di stato contro il governo islamico – moderato guidato da Recep Tayyip Erdoğan; Bedri Adanir è, invece, detenuto da un anno e mezzo in un carcere di massima sicurezza a Diyarbakir con l’accusa di terrorismo, per aver pubblicato un libro in curdo.

Le sistematiche attività di repressione ed intimidazione a danno della libertà di stampa di giornalisti ed intellettuali, turchi e non, hanno finito per ridimensionare, soprattutto in Europa, l’immagine democratica e moderata del Governo di Recep Tayyip Erdoğan, la cui politica di apertura e modernità perde sempre più forza e credibilità in contesto internazionale. Oggi, la Turchia, lungi dall’essere un esempio di islam moderato e modello di democrazia per la primavera araba, si trova al centro di polemiche e critiche internazionali, a cui fanno eco le parole di Peter Stano, portavoce del commissario Ue all’Allargamento, Stefan Fule, il quale, in un’intervista, ha ribadito l’attenzione della Commissione Ue verso la delicata questione dei processi in corso in Turchia contro i giornalisti, sottolineando che ’la libertà di espressione gioca un ruolo molto importante nel processo di adesione”.


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