Bangladesh, “l’ordine” degli squadroni della morte

di Enrica Roberto

Oltre duemila persone uccise senza processo, altre centinaia torturate e detenute ingiustificatamente in carceri di massima sicurezza ed in condizioni al di sotto delle più elementari norme sui diritti umani. Queste le accuse rivolte da Human Rights Watch, Emergency e altre tra le più importanti organizzazioni internazionali al Rapid Action Battalion. Si tratta di un corpo militare del Bangladesh, istituito il 26 marzo del 2004 come corpo speciale anti terrorismo, dotato di uno dei più moderni armamenti disponibili a corpi governativi dell’Asia.

Se si cercano notizie su questo corpo militare, si rimane stupiti dall’enorme discordanza di opinioni a riguardo: tanto quanto sono numerosissimi i siti che la condannano per violazioni dei diritti umani, definendola una “macchina della morte”, altrettanto numerose sono le pagine web –e quelle facebook ed i video su youtube- che ne tessono le lodi, sottolineandone la necessità in un Paese che ritengono ormai incontrollabilmente in mano a gruppi criminali. Sono normalmente proprio i bengalesi ad essere favorevoli al RAB, e a difenderne a spada tratta l’utilità.

In effetti, Dhaka si è trasformata negli ultimi 20 anni in una capitale occidentalizzata, che presenta tutte le caratteristiche tipiche delle grandi città dei Paesi in via di sviluppo, compresi gli altissimi tassi di criminalità. Ma il problema può essere esteso a tutto il Paese, dove non sono rari i casi di attentati terroristici anche gravi come quelli del 17 agosto 2005, quando 64 bombe sono scoppiate quasi simultaneamente in tutto il territorio, probabilmente per opera di un gruppo affiliato ad Al Qaeda. La RAB ha risposto prontamente: in 6 mesi è stato catturato Bangla Bhai and Shaykh Abdur Rahman, considerato a capo dell’attacco di Agosto. Dalla sua fondazione, il RAB ha catturato oltre 104000 persone, oltre ad aver confiscato più di 10000 armi illegali.

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L’efficienza del RAB non è certo sfuggita al governo americano, che si è subito interessato al suo operato, vedendo in esso un possibile prezioso alleato alla lotta al terrorismo, vista anche la posizione strategica occupata dal Bangladesh sia geograficamente che politicamente. In realtà, secondo alcuni documenti portati a galla da WikiLeaks, tra il 2008 e il 2009 gli ambasciatori americani a Dhaka apparivano piuttosto preoccupati dall’operato del RAB, ritenendo allarmanti i resoconti sulle violazioni dei diritti umani. Ma il Dipartimento di Stato ha deciso comunque di avviare una collaborazione.

Uno dei più grandi problemi del RAB, però, resta la sua opaca immagine pubblica. Sembra essere proprio Mohammad Sohail, comandante in capo del RAB, a essere preoccupato a riguardo, anche quando ricorda che “nessuna forza militare al mondo che combatta il terrorismo può garantire che non ci sarà nessuna vittima”. Eppure sono numerose le occasioni in cui appare evidente un tentativo di censura del dissenso: oltre alle varie aggressioni di cui sono state vittime operatori e volontari delle organizzazioni internazionali, nel 2010 il fotografo Shahidul Alam si è visto negare la possibilità di creare una mostra avente a tema proprio le morti extragiudiziali che aveva deciso di intitolare “Crossfire”. L’ironico titolo dell’esposizione mancata si riferisce alla scusa che i rappresentanti del RAB utilizzano solitamente per giustificare le morti, sostenendo che le vittime siano rimaste uccise durante sparatorie.

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Probabilmente, come viene spiegato da Sultana Kamal, direttrice del Ain o Salish Kendra (ASK), la rapida soluzione a problemi terroristici applicata dal RAB viene vista come una alternativa valida all’incredibile lentezza del sistema giudiziario nazionale, che è rimasto bloccato da 10 anni di casi arretrati. Può quindi a molti sembrare preferibile la possibilità che noti criminali vengano uccisi durante gli scontri con militari del RAB, piuttosto che aspettare per anni un’ incerta condanna. ASK e altri gruppi umanitari nel Paese ritengono invece che il modo in cui il RAB gestisce la criminalità sia incostituzionale, e che peggiori la situazione anziché migliorarla.

La collaborazione tra gli americani e i Men in Black potrebbe svincolare questi ultimi dai loro problemi di immagine pubblica, soprattutto se, come sembra stiano concordando le due parti, la collaborazione si svolgerà nel campo dell’addestramento ed in particolare nell’attenzione al rispetto dei diritti umani. Inoltre, porterebbe al governo americano enormi benefici nella lotta al terrorismo, dal momento che permetterebbe di mantenere il controllo su una delle zone più infiammate dalla rivalità tra gruppi occidentalizzati e fondamentalisti islamici, e ancor di più se si tiene conto della posizione geostrategica del Bangladesh.


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