Hamza, il poeta saudita che rischia la morte per i suoi tweet

di Emilio Garofalo

Per una volta, cominciamo dalla fine. Ovvero, da ciò che Hamza Kashgari, un 23enne saudita, rischia di subire a causa della sua furente, fisiologica incoscienza giovanile: impiccagione, lapidazione o, più probabilmente, la decapitazione. Sono queste, infatti, le modalità di esecuzione della pena di morte in Arabia Saudita, punizione prevista per i reati di blasfemia e apostasia.

E sono proprio questi, appunto, i reati di cui di Hamza è accusato. A volerlo davanti alla corte islamica, lo sceicco saudita Nasser Al Omar. Il volto del ragazzo è il tipico affresco della giovinezza. Baffi sottili a contornare il labbro superiore, occhi impauriti di chi l’ha fatta, questa volta, davvero grossa e lunghi capelli neri, quasi femminei, che cadono composti sulle spalle.

Hamza ha scritto e pubblicato, sul suo profilo Twitter, alcune frasi rivolte a Maometto: “di te amo alcune cose, amo il ribelle che è in te, ma ne detesto altre” e, ancora, “ sul tuo conto ci sono cose che non riesco a capire”, così come “nel giorno del tuo compleanno non mi inginocchierò a te ma ti stringerò la mano da pari”. Queste dichiarazioni potrebbero, ora, essere la firma della sua condanna a morte.

Nell’immediato, infatti, è esplosa la reazione di migliaia di fedeli, offesi dal tono irriverente e colloquiale del blogger. Gli internauti di religione islamica, scorrendo le frasi pubblicate dal giovane, si sono indignati, dando vita a un linciaggio mediatico, la cui eco è giunta alle autorità saudite.

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Così Hamza, al quale, al momento della nascita, è stato dato il nome dello zio del Profeta, ha abbandonato il suo Paese, dandosi alla macchia, non senza prima aver cancellato le frasi ed essersi scusato con i fedeli musulmani. Ha riparato in Malesia, che ha raggiunto con un volo diretto a Kuala Lumpur.

All’interno dello scalo della capitale, il giovane blogger è stato, però, subito arrestato dalle autorità e, dopo una settimana, estradato in Arabia Saudita, così come richiesto dalle forze locali. A pendere sul suo capo è il disposto della sharia, la legge islamica, che in Arabia Saudita viene interpretata duramente: la blasfemia, ovvero il reato di rivolgere calunnie e offese contro il Profeta, e l’apostasia, il distacco ideologico dal credo, sono punite con pene corporali, frustate e torture e, nel peggiore dei casi, con la morte.

Ad incutere ulteriori paure è la solitudine di cui il giovane sembra, ora, destinato a soffrire. Infatti, Hamza è un ragazzo che tutti hanno abbandonato. Così come in piena autonomia ha commesso il suo “delitto”, il giovane giornalista sarà solo davanti alla legge, che non gli consentirà il godimento di nessuna garanzia, né alcuna rappresentanza legale.

Sin dal suo arrivo a Kuala Lumpur, infatti, la sua battaglia contro un sistema giudiziario atroce e duramente restrittivo si è rivelata impari, dal momento che un giudice malese, pur avendo deciso che l’espatrio non sarebbe dovuto avvenire prima dell’apertura del giudizio, non è riuscito ad evitare l’espatrio in Arabia.

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Al fianco del blogger si è schierata Amensty International, l’organizzazione internazionale per i diritti umani, che ha snocciolato gli inquietanti dati relativi alle esecuzioni nel territorio saudita. Stando al rapporto presentato, sarebbero più di cento gli uomini e le donne giustiziate nel 2008 nel Paese islamico e, davanti al boia, sarebbero finiti anche soggetti accusati dei medesimi reati che avrebbe compiuto Hamza, i quali, pur essendo “crimini minori”, spesso epilogano nella morte.

Ora, il mondo intero è impegnato in un’ incerta battaglia per garantire la sopravvivenza dello scrittore. Sui social network, sui blog, sui network rimbalzano commenti e appelli rivolti ad un sistema giudiziario arcaico che seppellisce ogni forma di libertà.

Ad aggravare la posizione del ragazzo, il divieto assoluto, per gli osservatori e per gli operatori umanitari, di giudicare la monarchia islamica saudita, la quale si è, naturalmente, detta intenzionata a ricorrere contro l’avvenenza oratoria di Hamza.

Timidamente, il giornalista saudita ha spiegato che i suoi tweets altro non erano che la “pratica dei più fondamentali diritti umani, libertà di pensiero e di espressione”. Ma, oltre a questo, la sua è stata, purtroppo, anche un’ardita iniziativa, che rischia un letale impatto contro il muro della restaurazione, innalzato, nel suo Paese, dalla Sharia.


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